Fluida è contestuale è la definizione spesso utilizzata di “mammifero marino”. Laddove per la cognizione maggiormente generalista, sembrerebbe definire soprattutto il tipo di creatura affusolata e con le pinne, che milioni di secoli fa ha lasciato la terraferma per veder convergere la propria linea evolutiva assieme a quella dei più propriamente detti “pesci”, abitatori degli abissi come balene, delfini e focene. Ma se è vero che i cetacei, nonostante il loro aspetto, derivano dal Nalacetus e dal Pakicetus, anfibi quadrupedi dal muso affusolato vissuti approssimativamente tra i 56 ed i 41 milioni di anni fa su questa Terra, altrettanto applicabile è la loro definizione di categoria a quel tipo di carnivoro che ancora oggi vive delle risorse e nella nicchia ecologica principalmente offerta dal susseguirsi delle onde e dall’accumulo della risacca. Vedi, per fare un esempio, l’orso polare: le cui zampe tanto spesso poggiano su una calotta ghiacciata che non giunge neanche fino al fondo dell’oceano, lasciandolo sospeso nella pratica dei fatti sopra il corso dell’eterna umidità marina. Gli attributi necessari ad essere un mammifero marino, tuttavia, non devono per forza riferirsi ad un’intera specie o categoria di creature, giacché è possibile, per gli animali che partoriscono ed allattano i propri piccoli, effettuare scelte operative durante il corso della propria transitoria esistenza. Passando, sostanzialmente, da uno stile di vita all’altro, in base alle caratteristiche del proprio ambiente di appartenenza. Una contingenza, quest’ultima, osservata in precedenza per quanto concerne una particolare sottospecie di carnivori, quella del Canis lupus columbianus, più comunemente detto lupo della Columbia Britannica. Creatura rigorosamente selvatica ma non facilmente distinguibile per i non iniziati da una delle altre 37 sottospecie riconosciute del più vecchio amico degli umani, ed invero determinate razze di cane stesso, per quanto concerne la quale gli studiosi giunsero ad avere nel corso dell’ultimo secolo, tuttavia, una particolare ed importante intuizione. Su come questi animali, a seconda che vivessero nell’entroterra oppure presso i confini orientali del paese, sul bordo dell’Oceano Pacifico, tendessero a diventare progressivamente più piccoli, rossicci e inclini a vivere in solitaria. Questo perché il tipo di stereotipo generalmente riferito a simili creature, di cacciatori altamente organizzati di cervi, wapiti o cinghiali, non può che decadere dove tali prede, fin da tempo immemore, hanno cessato di vivere, prosperare o riprodursi. Il che può avere forse un significativo effetto sulle metodologie applicate dai lupi per sopravvivere, ma non più di questo, considerato come i canidi sono forse una delle creature più adattabili di questo pianeta. Che è poi anche la ragione per cui sono riusciti ad ad assisterci in tali e tanti modi nel corso della nostra collaborazione lunga svariati millenni. Ecco, dunque, cosa riesce a fare quotidianamente uno di questi cosiddetti lupi di mare, terminologia per una volta letterale dal punto di vista di entrambe le parole che la compongono: perlustrare attentamente il bagnasciuga, nei periodi di bassa marea, andando in cerca di granchi, molluschi e pesci, di cui mangiano prevalentemente la testa come fanno gli orsi, per prevenire l’infezione da parte dei parassiti e massimizzare l’apporto calorico acquisito. Girando pietre e scavando quando necessario, senza disdegnare l’occasionale e fortuito ritrovamento di un accumulo di uova da parte di questi ultimi visitatori del profondo, letterale ed apprezzato caviale gentilmente offerto dalla natura stessa. E in certi particolari casi aggredire da soli o in gruppo, piccoli esemplari di foche o leoni marini, come fossero la prototipica mucca o pecora dei racconti sulla genìa, benché trasferita ad un trascorso evolutivo che neppure Esopo o i fratelli Grimm avrebbero saputo immaginare.
Da questo punto di vista il cosiddetto lupo di mare è una creatura che ci offre scorci rilevanti su cosa avrebbe potuto essere dell’animale domestico per eccellenza senza che l’uomo avesse interferito con i suoi processi di selezione artificiale, utili a perseguire determinate forme, colori o capacità utili nel contesto di una società civile. Ovvero la più perfetta realizzazione di una creatura in grado di adattarsi alle circostanze, senza per questo subire variazioni significative nelle caratteristiche dettate dal proprio codice genetico ereditario…
La particolare storia ed il concetto stesso dei lupi costieri, nonché la loro varietà isolana ancor più dipendente da una dieta esclusivamente di derivazione oceanica, non è stato quindi ancora l’oggetto di un largo numero di studi scientifici, ragion per cui allo stato attuale essi vengono considerati parte della sottospecie C.l. columbianus, senza alcuna distinzione tassonomica né, in funzione di questo, norme specifiche per la loro protezione riproduttiva ed ambientale. Basti aggiungere a tale quadro la maniera in cui la legge canadese permette ai propri cacciatori di uccidere una certa quantità di lupi ogni anno (generalmente si tratta di due) anche in assenza di licenze specifiche, per comprendere come le prospettive future di questi lupi decisamente atipici risulti essere tutt’altro che rosea, come dimostra il caso in grado di ottenere gran rilievo mediatico dell’esemplare maschio Takaya, diventato una vera celebrità nel corso dell’intero periodo tra il 2012 ed il 2020. Singolo esemplare solitario migrato all’età di due anni presso le zone suburbane nei dintorni di Vancouver, per poi tuffarsi in acqua e nuotare, assistito dalle correnti, fino all’arcipelago di piccole isole antistanti la città, diventando una visione occasionale di tutti coloro che passavano con vari tipi d’imbarcazioni o andavano a nuotare nei dintorni. Una casistica decisamente rara ed inspiegabile, tale da farlo diventare un simbolo dell’intera regione soprattutto per la nazione dei nativi Lekwungen, antico popolo per cui il lupo ha sempre avuto un importante ruolo religioso e spirituale. Tutto questo senza generare alcun problema finché con il progredire della propria avventurosa esistenza, forse spinto da un tardivo desiderio di accoppiarsi, Takaya nuotò nuovamente fino alla terraferma, iniziando a comparire presso sentieri da trekking e radure occasionalmente utilizzate dai campeggiatori. Generando nel 2016 una situazione di attrito quando alcuni escursionisti, che l’incontrarono per caso, finirono per rifugiarsi sul tetto di una capanna chiamando la guardia forestale per essere “salvati” dalla feroce belva. Al che fu fatto grande clamore per la cattura e il ricollocamento dell’imprendibile canide, che continuava ad eludere ogni tipo di trappola mentre esponenti delle popolazioni indigene ed abitanti del posto montavano frequenti proteste al fine di far rimanere libero l’animale. Il che, purtroppo, non l’avrebbe salvato quando a marzo del 2020, presso il lago di Shawningan, in maniera del tutto legale e inconsapevole un cacciatore finì per sparargli, ponendo fine alla vita di uno degli animali più celebri di tutta la storia canadese.
Il che dimostra l’entità del problema e la maniera in cui, per gli animali come gli esseri umani, determinati tratti degni di essere preservati possono anche esulare dalla mera eredità biologica, costituendo nella sostanza vere e proprie abitudini acquisite o metodologie di sopravvivenza. In altri termini, gli usi e costumi tramandati, dalla madre e il padre ai loro cuccioli, con pratiche non largamente dissimili dalle nostre. Creature particolarmente scaltre ed attente a mantenersi nascoste da sguardi indiscreti, al punto da essere stati definiti occasionalmente dei “lupi fantasma”, questi intraprendenti abitatori delle coste sono quindi soliti organizzarsi in piccoli gruppi di caccia attorno ai 3 o 4 anni di età, il che non costituisce d’altra parte condizione necessaria date le particolari caratteristiche della loro dieta. In questa configurazione inclini ad essere più baldanzosi, e perciò propensi ad avvicinarsi alle comunità umane, essi furono considerati dalle tribù storiche dei Lekwungen e Kwakiutl alla stregua di propri simili, con tanto di leggende sulla creazione secondo le quali i propri stessi antenati altro non fossero che lupi trasformati in esseri umani, per volere degli Dei, il Grande Spirito, la Natura. Nient’altro che una percezione alternativa dell’imprescindibile legame che in ogni paese, cultura e contesto geografico, ci ha sempre legato alla creatura terrestre forse dotata di una maggiore compatibilità con il nostro stile di vita, escludendo sfortunati incontri con bambine che andavano a trovare la nonna nel cuore della foresta.
Che la balena possa essere stata, un tempo, dotata di zampe, coda longilinea ed artigli non dovrebbe grandemente sorprenderci. Dopo tutto ancora oggi all’interno del suo ampio ordine di discendenza degli Artiodattili rientrano anche cervi, cammelli, giraffe… E guarda caso l’ippopotamo, perfetta rappresentazione di cosa possa diventare un mammifero, una volta che si adatta a prosperare soprattutto trascorrendo le proprie giornate sott’acqua. Assai più affascinante risulta d’altra parte immaginare come potrebbe presentarsi, da qui a qualche decina di millenni, un’ipotetico discendente di Takaya e gli altri, che essendosi lasciato del tutto alle spalle la costa dovesse iniziare a dare la caccia ai pesci nelle stesse profondità del loro ambiente naturale.
Splendente creatura degli abissi, la letterale manifestazione del concetto aleatorio di “pesce cane”… Certo, se non fosse per la maniera in cui presso questo pianeta largamente sottoposto a modificazioni di tipo antropogenico, l’evoluzione appaia oggi come un obiettivo quanto mai remoto. Ma l’uomo, si sa, non è immortale! E la natura può tranquillamente aspettare, o persino scegliere di cominciare da capo. Dopo tutto, domani è un altro eone.