L’esiziale fato dei pulcini di albatro dell’isola di Gough

Ingenuo infante, morbido piumino, uccello condannato sin da quando ebbe l’idea malcapitata di venire al mondo. Che al calare della notte, solo nel suo nido costruito con il fango, sente il suono che precorre la sua fine: un mormorìo indistinto, e piccoli passi, che appartengono alla razza di coloro che non hanno limiti morali. Ma soltanto quel bisogno, internamente programmatico, di riuscire a sopravvivere, costruire, replicarsi. Topi per il nome e topi delle circostanze, pronti a masticare, sino al sopraggiungere dell’ultima misericordia… Già, la dura legge della giungla! Sia quella situata all’ombra di un oscuro continente, oppure metaforica e dal clima temperato, di una massa emersa nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico, 350 Km a sud-est dell’arcipelago di Tristan da Cunha tra l’Africa e l’America meridionale, chiamata isola di Gough. Ove ciascun essere coinvolto, sin dall’alba della convivenza, ha pensato solo & solamente al suo interesse. Fino all’insorgere spontaneo di quel clima che oramai, ricorda quello di un Inferno quanto mai diabolico, o persino per usare un termine italiano, dantesco.
Convivenza sopraggiunta, per l’appunto, come effetto inaspettato dei primi visitatori umani, giunti sin qui all’inizio del XIX con la costante, quanto redditizia aspirazione a catturare grandi quantità di foche o l’occasionale balena. Per non parlare di tutto quel preziosissimo, sempre fecondo guano. Se non che a bordo delle loro stesse navi, essi trasportavano a propria stessa insaputa il seme della fine. Una capsula, quest’ultima, con coda e zampe prensili, le orecchie relativamente grandi. Il muso a punta e un dipanarsi di frementi baffi, accompagnati dal tipico suono che squittisce sotto il cielo. Non (solo) enormi pantegane accompagnate da felini sanguinari, come quelli che potremmo ricondurre agli odierni ambienti randagi dell’urbana persuasione. Bensì una fiorente delegazione del comune Mus musculus o topolino domestico, la cui resistenza ai problemi della consanguineità avrebbe permesso, attraverso rapide generazioni, di colonizzare un luogo tanto drammaticamente impreparato ad una simile voracità, oltre che fondamentale per la nascita e il riposo degli uccelli migratori. Così entro 10 anni, umani bene intenzionati avrebbero rimosso i gatti dall’importante santuario. Ben presto seguìti dai comparativamente resistenti ratti neri. Lasciando il campo libero ai loro cugini più piccoli, ben presto destinati a consumare ogni potenziale fonte di cibo che strisciava, correva o giaceva sull’isola, fatta eccezione per la “montagna candida” più alta e incolpevole di tutte quante.
Frequentemente discusso, nei libri di scienza per bambini e i testi accademici (quei due estremi tanto simili, talvolta) è il doveroso cursus affrontato normalmente dalle coppie rigorosamente monogame degli uccelli appartenenti alla famiglia Diomedeidae, che come l’originale greco detentore di quel nome vagano per splendenti distese del vasto mare, finché non trovano un luogo degno di ospitare il proprio nido. Ben sapendo che, una volta deposto il singolo uovo, non potranno certo allontanare tale propensione vagabonda, data la necessità di dare ingente nutrimento al singolo rappresentante della propria prole, le cui dimensioni, molto presto, saranno destinate ad aumentare in modo esponenziale. Sempre CHE, e sia chiaro che si tratta di un grande SE, esso non finisca per cadere vittima dei piccoli aguzzini senza nome…

Certi eventi tendono a verificarsi di notte, non soltanto perché è allora che le innocenti vittime si trovano costrette ad abbassare la guardia. É come se l’assenza di una luce chiarificatrice permettesse a una qualsiasi efferatezza di arrivare a compimento, lontano dallo sguardo degli storici e i poeti.

Costituisce quindi una situazione che rasenta l’intollerabile quella vissuta in modo particolare (ma non solo) dalla specie Albatross di Tristan (Diomedea dabbenena) presso l’isola di Gough, soprattutto per coloro che in un modo o nell’altro, sono soliti reputarsi amanti degli animali. Del tipo usato, tanto spesso, per suscitare un qualche tipo di shock, risultando controproducente nell’assicurare la divulgazione di un dato. Eppure appare largamente doveroso includere sia pure un solo video e poco esplicito, in cui è possibile osservare le primissime battute di un così terribile e infelice evento. Poiché la morte, per queste alate creature grosse fino a 300 volte più di un singolo topo, non sopraggiunge certo in modo rapido né misericordioso. Improvvisamente assaliti nelle ore notturne, nonostante la protezione rialzata offerta dal nido di fango prodotto dai genitori, dapprima da un singolo topo, quindi una mezza dozzina o più, perfettamente collaborativi in un così monumentale progetto di assassinio. Finché il primo e più coraggioso di loro, noncurante dei flebili tentativi del “piccolo” che agita le zampe per scacciarli via, riesce a infliggere una piccola ferita. Che col progredire dei minuti potrà solo continuare ad allargarsi, ancora e ancora.
Può sembrare in effetti incredibile che alla stima più recente centinaia di albatri di Tristan appena nati (da un totale di circa 2.000 coppie riproduttive esistenti) vadano incontro a quel terribile destino, per le inconsapevolmente orribili gesta di una specie che semplicemente non dovrebbe appartenere al loro habitat. Poiché un uccello che trascorre la maggiore parte della propria esistenza in alto mare, sfruttando le correnti ascensionali interpretate grazie al proprio naso tubolare, raggiungendo l’età riproduttiva dopo almeno 6 o 7 anni di età, non può certo competere per capacità di adattamento con l’iper-prolifico topo, capace di mettere al mondo anche due copiose generazioni l’anno. Giungendo quindi a crescere in maniera significativa, anche per quanto concerne le dimensioni del singolo individuo, fino a diventare il più imponente esempio di M. musculus descritto dalla scienza umana, perfettamente attrezzato per violare, e macchiar di sangue l’alto ricettacolo del pulcino.
Diversi tentativi sono dunque stati sperimentati in linea teorica, e qualche volta anche pratica, per tentare l’eradicazione sistematica di una simile specie non-nativa. Il maggiore dei quali rappresentato, come spesso avviene, dallo spargimento sistematico di copiose quantità di mangime avvelenato descritto approfonditamente in uno studio scientifico del 2015 di Richard Cuthbert et al. (Preparations for the eradication of mice from Gough Island: results of bait acceptance trials […]) Che al fine d’essere implementato su larga scala presenterebbe, aggiungerei purtroppo, problemi tutt’altro che indifferenti. A partire da quello logistico di trasportare via nave uno o due elicotteri, in un luogo tanto remoto, senza neanche menzionare l’eccezionale biodiversità dell’isola, entro cui diverse altre specie native potrebbero ipoteticamente finire per consumare il cibo avvelenato, riportando irrimediabili conseguenze. Vedi il caso della gallinella di Gough (Gallinula comeri) intrigante rallide endemico dal piumaggio nero e il becco di un vermiglio intenso.

Per sopravvivere, anche gli albatri del Pacifico settentrionale possono fare affidamento soltanto sullo sforzo collettivo dei volontari, che ogni anno tentano di sottrarne la maggiore quantità da potenziali disastri naturali come gli tsunami. Particolarmente rilevante, a tal fine, è la vicenda dell’albatro di Laysan (Phoebastria immutabilis) dell’atollo delle Midway, egualmente vulnerabile agli attacchi notturni da parte dei topi.

Appare ormai estremamente chiaro come qualcosa, tuttavia, debba necessariamente essere fatto. Perché l’isola di Gough ospita, all’ultimo conteggio, la maggiore quantità rimasta di questa specifica tipologia di albatross, dalla lunga vita necessaria a riprodursi, qualora il piccolo riesca a superare l’età critica del nido. Popolazione soggetta per via dei topi e secondo i dati raccolti da BirdLife a un calo del 28% negli ultimi 46 anni pere un danno che mediante progressiva accelerazione, potrebbe raggiungere l’80-100% nei prossimi 86. Il che vuol dire, a scanso di equivoci, l’irrimediabile estinzione della specie.
Aggiungete, a tutto questo, il problema sempre costante per l’intera famiglia dei Diomedeidae della pesca a strascico con il sistema del palamito, i cui ami uncinati tendono a catturare gli esemplari adulti che si tuffano per catturare il pesce in alto mare, portandoli a una lenta morte per annegamento. Sarà chiaro, a questo punto, come il quadro risultante appaia tutt’altro che ottimistico, ancor prima che discorsi di tipo più generalista come il mutamento climatico possano entrare nell’equazione. La punizione di coloro che finiscono per far fuori tali uccelli nobili, del resto, fu narrata in modo estremamente esplicito dall’autore inglese Samuel Taylor Coleridge, nel suo celebre poema del nel XVIII secolo “La ballata del vecchio marinaio”. In cui il personaggio titolare veniva condannato a un letterale purgatorio da Dio e dagli uomini, soltanto per averne ucciso un esemplare con la sua balestra senza valide ragioni:

Ah! Well a-day! What evil looks
Had I from old and young!
Instead of the cross, the albatross
About my neck was hung.

Ahimé! Che sventura! Quanti sguardi ostili
dai giovani e dai vecchi!
Al posto della croce, l’albatross
attorno al mio collo era stato appeso

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