Le molte funzioni del corno più lungo dei mari

Il desiderio dei popoli è un potente motore economico. Intere dinastie di mercanti hanno prosperato o sono perite in funzione delle alterne fortune di un singolo bene, considerato primario in un particolare periodo, per via della moda o del momento sociale corrente. Pensate ad esempio ai bulbi di tulipani, che nell’ultima fase del Rinascimento trovarono diffusione nelle corti d’Europa come preziosissimo status symbol, su cui costruire l’intero prestigio di un giardino che fosse realmente degno di suscitare l’invidia de propri pari. L’altra faccia della medaglia, del resto, operativa fin dai secoli bui del Medioevo, era l’umana superstizione. Si narra che la regina Elisabetta I dei Tudor, durante buona parte del XVI secolo, avesse posseduto un boccale ingioiellato dal valore stimato di 10.000 sterline di allora, equivalenti grosso modo al costo di un intero castello (circa 2,5 milioni al calcolo dell’inflazione). Colui che glielo aveva donato, l’avventuriero Sir Humphrey Gilbert, aveva del resto identificato la sua provenienza: il corno del misterioso e semi-mitico animale, noto col nome di sea-unicorne. Il cui potere magico, nell’opinione comune, avrebbe permesso di allontanare le malattie e rendere innocuo qualsiasi veleno. Vi lascio immaginare l’importanza che un simile oggetto, dunque, potesse avere per la monarca del singolo paese più potente ed odiato della sua era. E di situazioni simili, risalendo a ritroso, ne ritroviamo nell’intera storia d’Europa, a partire dell’epoca dei vichinghi, che furono i primi ad essere in grado di navigare nei mari del circolo polare artico, pieni di tesori, mostri marini ed inusitati eventi. Tra cui l’incontro ravvicinato con la nár whale (balena cadavere) un essere il più delle volte avvistato immobile sulla superficie, gonfio e grigiastro, con la testa e il corpo visibilmente gonfi, come quelli di un marinaio annegato ormai da diversi giorni.
Ma che una volta avvicinato, con l’arpione e le lance, allo scopo di catturarlo, d’un tratto si animava, per tuffarsi nel profondo e non tornare mai più. O almeno così sembrava, vista la capacità di trattenere il respiro più a lungo, e raggiungere profondità maggiori del 90% degli altri mammiferi marini esistenti. Una dote che aveva in comune, del resto, con un’altra visione quasi sovrannaturale degli oceani di un tempo, il beluga dalla voce stridula e le proporzioni angosciosamente umane, ingigantite alla dimensione di 4-6 metri. Ma il parimenti massiccio narvalo (nome scientifico: Monodon monoceros) aveva ricevuto dall’evoluzione, rispetto a quest’ultimo, una significativa marcia in più: il singolo corno, affusolato e spiraleggiante, in grado di incrementare la sua lunghezza di un ulteriore scatto di 1,5/3 metri. Decisamente più del rostro del pesce spada, superando per lo più in media la terrificante arma del pesce sega, pur essendo privo della proverbiale e spaventosa dentellatura. L’effettiva provenienza di questo singolare elemento anatomico, del resto, avrebbe certamente sorpreso gli uomini di qualsiasi epoca antecedente alla modernità: stiamo parlando, in effetti, di nient’altro che un dente incorporato nella parte sinistra del cranio, uno dei soli due fatti e finiti che si trovano nella mascella dell’animale, per il resto circondati da piccole placche vestigiali e semi-nascoste all’interno delle gengive. Il narvalo in effetti non può masticare, e si nutre alla stessa maniera delle balene dal becco (fam. Ziphiidae) che risucchiano e trangugiano intera la preda. Sia chiaro, proprio in funzione di questo, che stiamo parlando di creature dalla dieta altamente specializzata. Secondo uno studio del Canadian Journal of Zoology, che ha seguito 73 narvali di diverse età per il periodo tra giugno 1978 e settembre 1979, nei loro stomaci era presente al 51% il solo merluzzo artico, e per il 37% l’halibut della Groenlandia. Per il restante 12%, i loro pasti erano consistiti di varie specie di seppie, gamberi e calamari. Una varietà decisamente insufficiente per giustificare l’antica cognizione, secondo cui la zanna servisse a creare disturbo e frugare in mezzo alla sabbia dei fondali, alla ricerca di potenziali fonti di cibo come fatto dal succitato pesce sega. Si sono dunque affollate in merito una lunga serie di ipotesi, sfociate proprio in questo recente maggio del 2017 in una conclusione apparentemente risolutiva, grazie al più incredibile sviluppo tecnologico dell’era contemporanea: il drone telecomandato con telecamera a bordo. Che sorvolando rumorosamente le onde, è riuscito a vedere…

Il corno del narvalo è quasi sempre assente negli esemplari femmina, comparendo soltanto nel 15% dei casi. Al verificarsi di eventualità ancor più rare, può succedere che a un esemplare cresca non uno, ma entrambi i canini. In quel caso, il mammifero assume l’aspetto di un vero e proprio demone dei sette mari.

Il punto principale per comprendere lo stato della ricerca sul narvalo è che esso, come svariate altre specie di balene, vive in luoghi particolarmente remoti: tra il Canada, la Groenlandia e la Russia, passando per i gelidi mari scandinavi durante le sue frequenti migrazioni. Per di più, la sua capacità di immergersi fino a 1.500 metri, prima di dedicarsi alle sue attività quotidiane maggiormente caratteristiche, non l’ha reso propriamente il soggetto ideale per alcun tipo di osservazione condotta secondo tutti i crismi del solo ed unico metodo scientifico umano. Tutto quello che sapevamo, fino a poco tempo fa, in materia del corno dai molti misteri, era il suo ruolo nel corso di uno specifico rituale condotto occasionalmente dai maschi, particolarmente in primavera, tra aprile e maggio, durante la stagione degli accoppiamenti. Durante il quale due esemplari dello stesso sesso, sbucando fuori dall’acqua, iniziano a percuotersi vicendevolmente con la loro arma, nell’apparente tentativo di sopraffare il rivale. Il che apparve fin da subito strano perché in effetti, i narvali non sono inerentemente territoriali. Vivendo, piuttosto, in gruppi di 50 esemplari o più, che possono talvolta riunirsi nelle aree più pescose, giungendo a costituire delle vere e proprie città itineranti di oltre un migliaio di esemplari. La ragione del gesto fu dunque cercata altrove, finché a qualcuno non venne in mente di dare uno sguardo col microscopio a questo acuminato simbolo dei molti misteri dell’universo. Soltanto per scoprire, al suo interno, la presenza di milioni di terminazioni nervose e micro-canali, in grado di analizzare la composizione e temperatura dell’acqua, alla ricerca di tratti di mare potenzialmente abitati da prede. Vista la scarsità di cibo e bassa temperatura accoglienza del suo habitat di provenienza, in effetti, il narvalo deve imparare molto presto a cacciare dopo la fine dello svezzamento (che richiede all’incirca 20 mesi) oppure sarà condannato a morire di fame. Si tratta, in parole povere, di una delle prime cause statistiche in grado di porre fine alla sua avventura su questa Terra.
Al di là dell’aspetto sensoriale, tuttavia, una tentazione molto forte ha diretto l’interessamento del mondo scientifico nei confronti della balena dentata: è possibile che anche il corno costituisca un’arma impiegata durante la caccia? Di sicuro, ne avrebbe ben donde. Rinomata e particolarmente comica, per quanto improbabile, è l’immagine del nuotatore delle profondità che torna su con infilzate svariate prede a m di spiedino, che quindi potrà tentare di sfilarli e mangiarli in una maniera che oggettivamente, risulta piuttosto difficile da ipotizzare, sopratutto vista la natura spiraleggiante dell’utilissima zanna. Eppure per assurdo, persino questo appariva possibile, finché lo scorso maggio non è venuto in mente a Adam Ravetch, del Fondo per la Conservazione Naturale del Canada in trasferta temporanea presso la Tremblay Sound, a Nunavat, non venne in mente di sfoderare il suo drone. Ponendo le basi di uno studio che a breve, avrebbe scosso dal profondo questo intero specifico segmento degli studi marini…

Le riprese dall’alto permettono di realizzare osservazioni particolarmente chiare dei grandi mammiferi marini, vista la loro naturale tendenza a restare in un luogo specifico anche per molti preziosi minuti alla volta.

Grazie all’osservazione per la prima volta molto ravvicinata, un tempo impossibile mediante l’impiego di elicotteri o aerei, si è quindi potuto notare come i narvali non andassero dritti alla carica mandando avanti la zanna, ma piuttosto preferissero avvicinarsi di soppiatto alla preda, per poi colpirla lateralmente con un brusco movimento della testa. Operazione che potrebbe giustificare, dal punto di vista evolutivo, la natura insolita delle loro vertebre cervicali, non fuse assieme come quelle degli altri mammiferi marini, bensì libere di muoversi in ogni direzione, assomigliando maggiormente a quelle degli umani. Un’altra caratteristica comune con il beluga. Questo movimento quindi stordisce ed immobilizza la vittima, che può quindi essere risucchiata nella grande bocca che si trova alla fine della lunga mazza affilata. Ecco, dunque, la verità: che si tratta almeno in parte di un’arma, come avevamo sempre istintivamente pensato. Lo strumento pregiato del grande guerriero dei mari. Ma il narvalo potrebbe simboleggiare attualmente ben più di questo.
Non ancora a serio rischio di estinzione, per la natura remota del suo areale, benché agli inuit sia concesso farne una caccia di sussistenza, il narvalo esiste attualmente in circa 50.000 esemplari, in progressiva riduzione. La ragione di questa sofferenza non va ricercata direttamente nelle attività dell’uomo, quanto piuttosto nel fenomeno del mutamento climatico terrestre: col progressivo riconfigurarsi della calotta artica, infatti, le zone soggette a glaciazione della superficie possono variare anche annualmente. Perciò la povera balena, la cui indole è notoriamente abitudinaria, tende a fare ritorno in aree dove poi non realizza la pescosità necessaria o ancora peggio, resta intrappolata sotto i ghiacci, morendo soffocata. Occasionalmente, proprio l’incapacità dei narvali nel reagire ai mutamenti del paesaggio glaciale li fa cadere vittima dei cacciatori artici, che trovandoli  così intrappolati, piuttosto che aiutarli ne uccidono a centinaia in un colpo solo, garantendo così la sussistenza economica della propria comunità per un’intera stagione. Nonostante simili eccessi, la cattura del narvalo viene ancora considerata sostenibile. Non si sa per quanto. La presenza di tracce di metalli potenzialmente nocivi, come lo zinco e il cadmio, all’interno degli esemplari più sfortunati, fa pensare ad un’inerente vulnerabilità della specie all’inquinamento globale delle acque, per la regolare consumazione di pesci che a loro volta si spostano molto e raccolgono vari veleni nell’organismo. Se questo strano animale degli oceani più freddi del pianeta, con il suo aspetto bonario ed in qualche modo alieno, vi sembrava quasi “troppo bello per essere vero” lasciate che confermi la vostra impressione: molto presto, potrebbe fare la fine dell’unicorno di terra. Ma sappiate questo: mai nessuno potrà dubitare del fatto che sia realmente esistito, vista l’esistenza dei droni con telecamera incorporata…Non avremo neppure la diga dell’incertezza, per arginare il nostro senso di colpa.

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