Chi lo guarda s’innamora: strano pesce “rosso” con la testa di una mora

Finalmente ritrovata l’opportunità, le strade di Edogawa si erano vestite ancora una volta per la matsuri (祭), festa popolare dedicata a celebrare la cultura e le principali attività del 23° quartiere di Tokyo, formato poco prima del secondo conflitto mondiale dall’unione dei borghi di Komatsugawa e Koiwa, con i villaggi di Shinozaki, Kasai, Matsue, Mizue e Shikamoto. Addobbi di carta e grandi corde di canapa circondavano il santuario shintoista, mentre la gente passeggiava per le strade costellati di banchi con kimono e yukata dai colori accesi, molti dei quali caratterizzati dal disegno ripetuto di creature acquatiche o marine. Con un sorriso chiaramente stampato sul suo volto, il piccolo Daichi si avvicinò alla vasca collocata sotto l’albero di canfora, dove gli addetti nominati dal comitato si stavano occupando di approntare gli ultimi preparativi per il grande gioco del Kingyo-sukui (金魚掬い) o “Cattura del pesce rosso”. Da una serie di contenitori provenienti dai principali commercianti ittici del circondario, gli uomini e donne stavano versando l’intero contenuto di acqua e schegge di colori meravigliosamente colorate, in grado di riflettere vistosamente il forte sole d’agosto. Nel frattempo, uno di loro scartava lo scatolone con la fondamentale dotazione di poi (ポイ) o retini di carta, uno strumento creato non per la facilità d’uso bensì l’esatto inverso, fin da tempo immemore associato a simili occasioni di festa. Daichi, che con il permesso dei suoi genitori aveva già pagato il pezzo del biglietto, osservò quindi formarsi attorno a tale scena un folto capannello di persone, mentre l’incaricato faceva disporre tutti in una fila ordinata. Quindi, a gruppi di cinque, gli avventori vennero accompagnati fino al bordo della vasca, per tentare la fortuna e guadagnarsi, idealmente, il possesso di un nuovo piccolo amico dalla bocca aperta e l’elegante comparto di pinne che lo seguono nei movimenti. Il primo gruppo non gli parve troppo fortunato: con un’età media forse troppo bassa, due bambini videro la carta del retino perforarsi poco dopo la prima immersione, rendendo impossibile tentare la fortuna per più di pochi secondi. Soltanto uno di loro, con una probabile esperienza pregressa nel corso di quella stessa estate, riuscì a tirare fuori un paio di code velate e un testa di leone dall’aspetto alquanto stravagante. Ma fu il secondo gruppo dei partecipanti a lasciarlo totalmente di stucco, quando uno di loro tirò fuori, dalla vasca brulicante, la riconoscibile sagoma corta e tozza di un vero e proprio ranchu (蘭鋳) il “verme olandese” privo di pinna dorsale, che per tanti secoli era stato considerato un re tra il vasto popolo dei pesci rossi. “Possibile che stavolta…” Si chiese tra se e se il giovane aspirante: “Abbiano riempito la vasca di pesci… Rari?” Al suono della campanella allestita per quell’occasione, vide quindi giungere il suo turno, mentre faceva un passo avanti assieme a due sue vecchie conoscenze di coetanei al parco cittadino e un compagno di scuola. Con uno sguardo carico di sottintesi, guardò dritto negli occhi il rivale, mentre allo stesso tempo afferravano l’arma utilizzata per quella fatidica giornata; un secondo rintocco della campanella segnò il via libera, mentre con gli occhi attenti il gruppo dei partecipanti cominciava ad individuare il proprio bersaglio. Daichi, che per lungo tempo aveva fatto pratica in un videogioco, sapeva bene della fondamentale necessità d’immergere il poi ad un ritmo estremante rallentato, lasciando quindi che la natura facesse il suo corso. Dovevano essere i pesci rossi stessi, indotti dalla loro naturale socievolezza, a mettersi nella posizione idonea per essere sollevati, possibilmente uno alla volta. Con un guizzo, attese quindi il verificarsi delle condizioni ideali. E con un solo fluido movimento, tirò fuori uno, quindi due ed infine tre kingyo del tipo a macchie fatti per l’osservazione dall’alto, mentre i suoi vicini ancora si aggiravano sui due bersagli al massimo conseguiti e collocati negli appositi secchi disposti attorno alle loro postazioni. Quando fu il caso, estremamente inaspettato, in cui i gli occhi del bambino scorsero qualcosa d’imprevisto. Una creatura nera e stranamente bitorzoluta, che si aggirava lungo le profondità della profonda vasca del matsuri, la cui voce inaudibile sembrava chiamarlo nelle profondità più occulte della sua stessa anima. Con un’improvvisa risolutezza, prese quindi un’importante decisione: la sua vincita non sarebbe stata in alcun modo ragione di festa, se non fosse riuscito a prendere quel pesce misterioso. Quattro, cinque carassi fecero la loro comparsa nel secchio del vicino. Ma lui non si distrasse, mentre un poco alla volta avvicinava il poi alla belva, e con la massima cautela, tra il silenzio soggettivo in mezzo al caos di grida e incitamenti, la tirò fuori dall’acqua, cercando di riuscire a interpretarne l’imprevista forma e natura. Un pesce lucido e bitorzoluto, almeno in apparenza del tutto privo di occhi. In tutto e per tutto simile, pinne a parte, a quei frutti di bosco che era andato a cogliere l’autunno scorso poco fuori città, mentre osservava gli insetti e le piante assieme a suo padre; quasi subito, dopo qualche momento di esitazione, lo riconobbe: una mora nuotatrice nello stagno. La creature degna di apparire nei suoi sogni più segreti e proibitivi (nel prezzo…)

Meditando per generazioni, l’uomo emerse dalla sua caverna sottomarina per plasmare la natura. Ma chi può dire, realmente, che non sia stato influenzato a sua volta dal principio universale del Bello primordiale?

Oranda era il nome, fin da tempo piuttosto antico, di questa particolare varietà di pesce rosso, con la caratteristica traslitterazione di una parola europea nel sistema fonetico giapponese, rigorosamente privo della lettera “L”. Poiché il popolo dell’epoca Edo (1603-1898) che per la prima volta accedeva al benessere necessario per poter possedere dei propri animali domestici, giunse a convincersi che provenissero dai lontani paesi d’Occidente. Laddove tali insolite varietà genetiche, frutto di molti secoli di selezione artificiale, erano in effetti la produzione delle ben più prossime terre di Cina e Corea, dove la particolare accezione domestica della carpa di fiume prussiana (Carassius auratus) si era chiaramente trasformata in un sinonimo di buona sorte e fortuna, come esemplificato anche dal termine nipponico kingyo (キンギョ – letteralmente: pesce d’oro) alternativamente interpretabile con l’espressione “la ricchezza che verrà”. Così che a partire dall’epoca della dinastia Song (960-1279) numerosi testi in cinese iniziarono a essere redatti sull’allevamento di queste creature, mentre menzioni del loro straordinario aspetto e varietà faceva la sua comparsa come metafore letterarie in poesia ed in prosa. Con una ragione per tutto ciò che può essere rintracciata, biologicamente parlando, nel particolare funzionamento del codice genetico di questa particolare specie, dotata di una serie di cromosomi tetraploidi e proprio per questo soggetta a mutazioni rapide e talvolta prevedibili, previa l’applicazione di speciali metodologie d’allevamento. La vera esplosione di popolarità nel possesso dei pesci rossi si sarebbe tuttavia verificata solamente nel successivo lungo periodo di benessere e relativa pace del regno dei Ming nel XIII secolo quando all’interno delle case cominciarono a comparire degli appositi recipienti di ceramica, antesignani dell’odierna boccia di vetro, entro cui venivano custodite creature non troppo dissimili da quelli odierni. Naturalmente, poiché si trattava di contenitori non trasparenti, l’unica parte osservabile del kingyo era il suo dorso e proprio per questo, le caratteristiche di tale parte del corpo iniziarono ad essere una metrica primaria nella scelta delle linee ereditarie da preservare. L’importazione in terra giapponese sarebbe quindi giunta coerentemente a quest’epoca e durante il periodo del secondo shogunato Muromachi (a partire dal 1336) come preziosa importazione frutto del commercio con il continente, senza che nessuno fosse in grado di approfondire lo studio dei sistemi di allevamento e incroci tra le differenti varietà. Uno dei primi e più famosi possessori di pesci rossi è quindi rintracciabile nel mercante della prima epoca dei Tokugawa, successivamente all’unificazione molto successiva del paese, il ricco mercante di Osaka Yodoya Saburōemon (1576–1643) che sul soffitto della sua bottega aveva fatto posizionare una grande vasca osservabile dal basso, entro cui trovavano collocazione svariati pesci dai colori e le fogge particolarmente appariscenti. Il primo testo esplicativo in lingua giapponese venne quindi scritto nel 1748 da un tale di nome Yoshiyuki Adachi, con il titolo di 金魚養玩草 (Kingyo yoseiso – “Erba nutriente per pesci rossi”). A quel punto il carassio, contrariamente alle grandi carpe koi dei laghetti nei giardini dei nobili e samurai, iniziò ad essere associato a una diffusione maggiormente popolare, strettamente interconnessa alle feste folkloristiche e le occasioni d’incontro collettive, dato il suo valore percepito e difficoltà di mantenimento considerate decisamente inferiori. Un fraintendimento che nei fatti continua tutt’ora, soprattutto in Occidente, laddove tali creature risulterebbero necessitare in realtà di spazi per il mantenimento significativi e un sistema di filtraggio delle scorie, risultando in realtà dei pesci di difficoltà piuttosto elevata ma che potrebbero, idealmente, vivere fino a 10 anni d’età.
Il particolare aspetto del pesce-mora, o per usare il nome tecnico internazionale della varietà, “Black Oranda”, trova la sua origine durante il periodo della cultura urbana kasei verso l’inizio del XIX secolo, quando gli allevatori nazionali avevano ormai perfezionato le metodologie necessarie a favorire i tratti biologici considerati maggiormente desiderabili. Corto e tozzo come i ranchu, ma dotati di una pinna dorsale, questi pesci furono selezionati inoltre in base al possesso di una particolare preminenza globulare sulla testa, chiamata tradizionalmente il wen. Tale escrescenza dall’aspetto vagamente tumorale, idealmente, avrebbe dovuto rappresentare la criniera di un leone, analogamente a quanto giudicato apprezzabile nei piccoli cani da compagnia di provenienza cinese. Lungi dal trovarsi interconnesso a questa sola tonalità del colore della notte, gli Oranda esistono quindi bianchi, rossi e in molte varietà intermedie tra questi due estremi, incluse quelle maculate (Panda Oranda) o dal cappuccio come un fiore (Hana Oranda) color cioccolata (Chakin) o ancora l’elusivo Seibungyo (成分魚) Oranda dai riflessi bluastri sul suo corpo primariamente scuro. Simili esemplari, quando conformi agli standard della razza, possono valere anche cifre considerevoli sebbene mai spropositate come avviene nel caso dei koi, trasformatosi attraverso gli anni in vero e proprio status symbol di portata internazionale.

Massiccio e compatto, il pesce mora vive i propri giorni senza nessun tipo di preoccupazione. Forse escluse quella, purtroppo sempre presente, che la sua “criniera” finisca per coprirgli gli occhi, privandolo della possibilità di vedere. Ma in fondo, non c’è mai nulla d’interessante in televisione.

Che un pesce rosso possa diventare qualcosa di tanto insolito e irriconoscibile può fare, in effetti, una certa impressione. E non sono pochi, anche nel mondo dell’allevamento ittico, a riservare più di qualche parola di disapprovazione nei confronti degli allevatori di kingyo, creatori attraverso i secoli di creature che sarebbero del tutto incapaci di sopravvivere contando unicamente sulle loro forze. Il che, del resto, può essere attribuito anche ai molti millenni di collaborazione tra cane ed uomo. Poiché non c’è singola creatura, di questo mondo, che manchi d’influenzare i suoi più prossimi vicini. E nessun essere in Terra che possieda il nostro stesso peso specifico del tutto sproporzionato al suo contesto.
Tutto questo attraversò in un lampo, al suono roboante del gong finale, la mente estatica del giovane Daichi. Che sollevando con entrambi le mani il secchio, guardava sorridendo i suoi tre pesci e la grande, fluida forma della meravigliosa mora. “Ti amo, t’amo, quanto sei Strano. A guardarti, avverto quasi un languorino!” Esclamò guardandosi attorno, mentre lo sguardo si focalizzava spontaneamente verso il più vicino banco delle gelatine alla frutta, allestito per l’occasione da una vecchia conoscenza di famiglia. Con la mano nella tasca del kimono, contò per l’ennesima volta i fondi che gli rimanevano a disposizione…

Lascia un commento