Avere di più, investendo meno, è da sempre uno dei principali obiettivi dell’ingegneria applicata. Occasionalmente superato, in determinate circostanze, dall’avere “di più in meno spazio” ovvero concentrare tutti i propri componenti all’interno di un guscio più compatto, possibilmente inseribile all’interno della tasca dei pantaloni. Un cruccio niente meno che determinante, a dire il vero, nella progettazione dei moderni telefoni cellulari, ovvero l’interfaccia tecnologica che ci permette di essere una parte imprescindibile del grande flusso delle informazioni, traendone beneficio. C’è stato un tempo tuttavia, in cui lo scambio principale d’opinioni tendeva ad avvenire tramite l’impiego di pesanti bolidi scagliati contro e giù dall’alto ammasso di mattoni, intonaco e calce, che frequentemente costituiva il muro invalicabile di una fortezza o altro edificio fortificato. Un’epoca in cui il superamento di baliste e catapulte, intesi come ponderosi meccanismi in grado di proiettare oggetti più grandi, fu il frutto graduale dell’implementazione sempre maggiormente diffusa della miscela di sostanze denominata come polvere nera o “da sparo”. Il che presentava, indubbiamente, un pratico vantaggio: la potenziale validità di un processo di miniaturizzazione. Dalla bombarda al falconetto, alla serpentina, alla schlange e mezza schlange purché si fosse sempre pronti a far girare le accoppiate ed immancabili ruote dei loro carriaggi. O facendo a meno di quelle, con cadenza cronologica anticipata o coincidente, l’implementazione di un qualcosa di ancor più piccolo, la lunga asta che i cinesi chiamavano tūhuǒqiãng 突火槍 – lancia di fuoco (o “da” fuoco). Proprio perché sormontata, nella parte da rivolgere verso il nemico, di una sorta di pentola o capiente tubo di metallo. Pronto ad esplodere, proiettando in avanti… Qualcosa.
Detriti e rottami nella sua versione primordiale, risalente all’incirca all’undicesimo secolo ed impiegata largamente nei conflitti tra le antiche dinastie dei Jing e dei Song, finché l’andamento e reciprocità degli intercambi tra i due estremi della Via della Seta non portò quel meccanismo e potenziale approccio alla guerra fino in Medioriente e poi da lì, giù in Europa. Non prima, s’intende, di una significativa ed importante scoperta; quella della maniera in cui impiegando munizioni del corretto “calibro” ovvero larghe esattamente quanto la suddetta “canna”, esse potessero esser proiettate in modo ragionevolmente prevedibile ed una distanza interessante. Fino a mezzo chilometro, paragonabile a quella di un arco lungo in legno di tasso, albero tra i più preziosi e ricercati nelle sempre più rare foreste d’Occidente, grazie all’implementazione tecnica destinata a rimanere iscritta nelle cronache col nome anglofono di handgonne (“cannone portatile”). Una scoperta la quale colpì nell’immediato, assai famosamente, le compagnie militari mercenarie impiegate dalle fazioni in perenne conflitto sulla penisola italiana, come esemplificato da preziosi documenti quali il De Nobilitatibus, Sapientis, et Prudentia Regum redatto per Firenze da Walter de Milemete nel 1326, contenente la più antica immagine europea di un’arma da fuoco, il cannone a ciotola pot-de-fer, probabile antenato del nostrano schioppo da guerra. Soluzioni pratiche a problemi assai diffusi, come quello di annientare una formazione di fanteria dai ranghi serrati, per colpire la quale non era molto importante fare fuoco con particolare precisione. Bensì colpire, semplicemente, qualcuno, con l’energia cinetica impressa nel pallino stimata in condizioni ideali attorno al migliaio di joule, inferiore soltanto del 10% a quella di un moderno fucile da combattimento. Abbastanza per bucare da parte a parte un’armatura costruita con l’acciaio migliore. Vanificando lunghi secoli di privilegi ed alterigia della classe nobile sui dolorosi campi di battaglia…
Lungamente gli storici hanno disquisito in merito alla presunta efficacia delle handgonne o schioppi in combattimento, attrezzi nella loro forma più realizzata comunque particolarmente pesanti, poco pratici da utilizzare ed innegabilmente imprecisi. Tanto che, basandosi sul preponderante utilizzo di archi e balestre almeno fino all’introduzione di armi da fuoco più avanzate, i cosiddetti archibugi, molti hanno immaginato l’utilizzo dei loro antesignani come meri approcci sistematici, mediante fuoco, fumo e gran rumore, alla confusione e abbassamento del morale nemico. Almeno finché a qualcuno, in epoca contemporanea non venne in mente di effettuare la proverbiale prova pratica, mediante quell’elegante approccio alla risoluzione di quesiti storici che è l’archeologia sperimentale applicata. Costruire repliche basate sui reperti è d’altronde un’attività da sempre appassionante, ancor più quando si scopre la possibilità di venderle attraverso quel mercato “universale” e “perfetto” che è il mondo interconnesso grazie ad Internet. Vedi l’esempio del prodotto della compagnia specializzata Veteran Arms, così efficacemente mostrato e brevemente recensito dall’esperto di armi da fuoco InRangeTV nel nostro video d’apertura, dimostrando l’utilizzo non così complesso e la sua capacità di colpire ripetutamente un bersaglio dalla forma umana posto alla distanza approssimativa di un paio di metri. Benché, resti importante notarlo, facendo uso di polvere da sparo moderna, concettualmente affine a quella macinata o corned entrata a far parte dell’equazione bellica medievale non prima della metà del XV secolo, grosso modo corrispondente all’introduzione del sistema d’innesco a miccia inserita nella leva basculante usando la quale il nostro corrispondente mostra di avere qualche comprensibile problema di mira. L’utilizzo di questa tipologia di arma in combattimento tendeva a richiedere, d’altra parte, l’assistenza di un secondo o quanto meno l’utilizzo di un bastone di supporto al fine di prendere la mira, con un modello particolarmente apprezzato rintracciabile nel concetto di hookgun o “schioppo uncinato” fatto per l’appunto in modo tale da poggiare ed agganciarsi alla protettiva merlatura del proprio castello. Il primo utilizzo di cannoni, più o meno portatili all’interno di un conflitto dell’Europa medievale storicamente rilevante si ha quindi nella battaglia di Crécy, uno dei punti di svolta più importanti della guerra dei cent’anni, verificatosi nel 1346 tra l’esercito francese di Filippo VI e quello inglese di Edoardo III. Occasione durante la quale, come molte altre a venire, l’impatto fragoroso delle armi a distanza avrebbe spezzato più di una possente carica della temibile cavalleria di Francia, permettendo il prevalere di un esercito più numeroso ma composto in larga parte da uomini del popolo privi delle stesse risorse ed addestramento. Un altro momento importante, nella cronistoria degli scoppi ed altri piccoli cannoni portatili, è l’acquisto documentato nel 1362 da parte della città di Perugia di 500 esemplari da un produttore locale, dimostrando il tipo d’investimenti che ruotavano attorno all’utilizzo su ampia scala di questa particolare arma. Ed è davvero possibile immaginare, a tal proposito, una mancanza d’efficacia come quella lungamente paventata fuori dal settore degli storici specializzati, se l’utilizzo di simili attrezzi risultava diffuso a tal punto?
È interessante notare, a seguito di quel particolare periodo storico, come l’asse d’utilizzo delle armi da fuoco si sarebbe spostato con rapidità drammatica verso i paesi d’Occidente. Mentre non soltanto la Cina, ma anche il Giappone e la Corea che ne avevano goduto soltanto di riflesso, abbandonavano l’impiego sistematico di tali attrezzature nella sostanziale incapacità di farne un pilastro delle proprie strategie di guerra. Forse in assenza di quell’interminabile catena di conflitti che avrebbe portato, verso l’inizio del XVI secolo, all’introduzione da parte dell’esercito spagnolo della formazione dei Tercios, inarrestabili quadrati di picchieri accompagnati, ai rispettivi vertici, da schermagliatori armati di archi, balestre e i primi, rudimentali moschetti. Armi dotate di sistemi d’innesco, mira e preparazione metallurgica decisamente superiori a quelle degli schioppi antecedenti, benché l’impatto contro la corazza del bersaglio potesse vantare grosso modo la stessa serie di effetti. Incluso quello, ritenuto imprescindibile, di rimuoverlo forzatamente dalla formazione nemica.
Forse il più drammatico e terribile degli eufemismi, nel contesto di una pratica violenta che non sembra affievolirsi col passare dei millenni, così restando una pragmatica costante del bisogno tristemente naturale di riuscire a stabilire chi è più forte. Tanto disumanizzante e terribile, quanto più l’identità nazionale contribuisce a trasportare quel confronto su scala maggiore, con conseguente quanto inarrestabile dispendio di vite umane. Il che non dovrebbe, d’altra parte, impedirci di guardare al passato con interesse. Perché è soltanto comprendendo la portata dei traguardi precedentemente raggiunti, che sarà possibile tentare strade alternative. Che non siano solo far saltare dalla testa un elmo, mediante un colpo ben assestato della nostra hangonne.