Gustando il dolce nettare della più grande pigna messicana

Seduto allo sgabello comodo di fronte al bancone in legno, scorrevi con lo sguardo le bottiglie sopra gli scaffali antistanti. Posando a un certo punto gli occhi, tra le molte immagini variopinta, sull’etichetta gialla scritta usando i tipici caratteri usati per dare un’impronta mesoamericana: “Distillato del Vecchio Pappa Doo” con stampata a fianco l’immagine di quella che sembrava essere a tutti gli effetti una fetta d’agrume e sopra un curioso ventaglio di foglie, almeno in apparenza preso dalle mani degli schiavi nella più classica rappresentazione della corte di Cleopatra. Ma non meno egizia poteva essere l’atmosfera, col brusio costante della sera nella città di Oaxaca che penetrava dalle porte della pulqueria, mentre il barista con la camicia a quadretti, interpretando con esperienza la lingua internazionale dei gesti, versava nel bicchiere l’ambrato e ambito nettare di quel frangente fortunato. E giusto mentre ti chiedevi quando si sarebbe offerto, secondo l’usanza ben nota, di piazzare un piccolo pugnetto di sale sul dorso della mano sinistra, all’improvviso sentisti riecheggiare l’inaspettato suono: “PLÖF!” prodotto da un oggetto tozzo, tuffatosi dal recipiente dentro il piccolo acquario di vetro con la tua bevanda. Un piccolo verme di colore nero. “Ay, que suerte! Has buscado el gusano.” Fece l’uomo con un gran sorriso, notando quell’espressione vagamente perplessa. Quindi mimò il gesto di bere tutto il liquido tutto d’un fiato, provvedendo quindi a ingurgitare il piccolo ospite inatteso nel caso in cui fosse rimasto tra la lingua e il palato. Fu quello il preciso e drammatico momento in cui alcune domande iniziarono ad affollarsi nella tua mente…
Perché porta fortuna. Per provare che il liquore non è avvelenato. Per attrarre l’attenzione dei turisti. Per rendere omaggio a un’antica Dea. Queste sono le ragioni citate più frequentemente, assieme a molte altre, per la presenza considerata desiderabile della larva di Comadia redtenbacheri, in realtà non un verme bensì il bruco di una falena, strettamente associato con quella che potremmo chiamare forse la pianta maggiormente rappresentativa di questa intera nazione. Chiamata un tempo “fiore del secolo” in quanto si riteneva che sbocciasse unicamente al trascorrere di un tale lungo periodo, benché tale caratteristica fosse applicabile soltanto a certe varietà, per lo più settentrionali. Tra le oltre 200 specie in continua rivisitazione tassonomica, pere la quantità di tratti variabili, simili o diversi, di quella che sia scientificamente, che in lingua comune, viene definita in tutto il mondo come l’agave. Ora quando si parla di questa resistente ed adattabile succulenta, dalla riconoscibile rosetta simile a un ventaglio o un diverso tipo di corona ricoperta di spine, ciò che sorge normalmente nei pensieri è la bevanda particolarmente apprezzata della tequila, noto frutto della sua fermentazione così come il vino lo è dell’uva. Ma ridurre il vasto universo enologico di questo dono della natura all’umanità al solo prodotto originario dello stato di Jalisco, strettamente associato allo stereotipo del mariachi vendicatore col sombrero e il volto di Antonio Banderas e tratto in via specifica dall’agave blu (A. tequilana) sarebbe limitante quanto affermare che l’unico liquore italiano è l’amaretto di Saronno, oppure il Limoncello o la grappa Nardini; laddove straordinariamente ricca è l’offerta complessiva di quanto si possa trarre da una tale pianta, almeno quanto vari sono i metodi per trattarla e tirarne fuori i più misteriosi e mistici sapori. Tanto che si dice che il lavoro del distillatore in Messico assomigli più che altro a un’arte, con il prodotto di un singolo fabbricante che può variare sensibilmente nel sapore in base alla stagione, il clima e il semplice passare degli anni. Il che ci porta a pieno titolo, senza ulteriori esitazioni, nel regno precedentemente accennato del mezcal, ovvero “tutto quello che proviene dall’agave” ma non è tequila. Una categoria davvero interessante, come si può desumere dagli svariati video reperibili sul come nasce, esattamente, un tale nettare dal gusto spesso sorprendentemente intenso e carico di sottintesi…

La distillazione del mezcal viene oggi praticata mediante alambicchi di metallo, tra cui spesso viene impiegato il rame. Mentre in origine, per la difficoltà di procurarsi tali apparati, gli agricoltori locali erano soliti impiegare la terracotta.

Tutto inizia, senza particolari preamboli o esitazioni, presso le estese piantagioni dell’agave che si estendono per oltre 330.000 ettari nell’intero territorio messicano, dove gli alti fusti vegetali, in grado di raggiungere anche i 5-6 metri d’altezza, vengono sistematicamente abbattuti, tagliati a pezzi e lasciati completamente privi di foglie, fino all’ottenimento della piña o “cuore” legnoso orpello ellissoidale, dal peso considerevole, che dovrà essere immediatamente collocato in una grande buca centrale. Lì dove, al termine di una dura giornata di lavoro, l’intero raccolto troverà posto poco prima d’intraprendere il primo passaggio significativo in grado di distinguere il mezcal dalla tequila: una cottura realizzata, piuttosto che mediante bollitura, all’interno di un tale forno così drammaticamente rudimentale da permettere a copiose quantità di fumo d’impregnare, e quindi modificare il sapore, di tali pigne frutto di un così duro lavoro. Trascorso un incandescente periodo che può raggiungere fino ai tre giorni e due notti, i produttori tirano quindi fuori i cuori dell’agave parzialmente carbonizzati, per procedere alla fase di pressatura mediante l’impiego di un mulino che può anche essere elettrico, ma nella maggior parte delle distillerie tradizionali viene ancora fatto funzionare mediante l’energia muscolare di un cavallo: “Abajo! Adelante! Arriba! Adentro!” risuonano così le voci, mentre il diligente quadrupede schiaccia e sminuzza le fibre vegetali di color marrone, che verranno quindi raccolte e poste dentro gli appositi recipienti di fermentazione chiamati palenqueros, con l’essenziale aggiunta di lieviti per lo più di provenienza selvaggia e non accuratamente selezionati (un processo tipico, invece, della tequila). Ora se stessimo assistendo alla produzione del pulque, il metoctli o altre acquaviti tipiche del Messico tradizionale, il prodotto sarebbe giudicato a questo punto pronto da bere, avendo una gradazione alcolica ancora pressoché pari allo 0. Ma poiché la colonizzazione europea ha qui portato, assieme ad innumerevoli malattie e guerre, anche un certo numero di ausili tecnologici di comprovato valore, è oggi usanza sottoporre quindi il liquore in fieri a un successivo processo di distillazione, ripetuto uno o due volte (la terza, generalmente, è riservata unicamente alla tequila) durante il quale, mediante l’evaporazione calorifera, si ottiene un fluido dal contenuto inebriante in grado di raggiungere fino a un rispettabile 55%. Segue poi lo sversamento nelle botti, per procedere al periodo d’invecchiamento. Su quando il prodotto debba rimanere al loro interno, le opinioni possono variare, ragion per cui esistono diverse varietà di mezcal che vanno dalla blanca (meno di due mesi) fino all’añejo, tenuto per oltre un anno dentro grossi recipienti di fino a 200 litri.
L’origine del mezcal, secondo una leggenda probabilmente rielaborata in epoca moderna, può essere fatta risalire alla Dea Mayahuel, protettrice dell’agave e consorte del Dio del vento Ehecatl. La quale a un certo punto della sua eterna esistenza, s’innamorò di un fortissimo guerriero umano di nome Chag. Allora per non perderlo al trascorrere dei secoli decise di rendere anch’egli immortale, permettendogli di abbeverarsi da uno dei suoi innumerevoli seni (un altro titolo di Mayahuel è quello di “Madre dei Centzon Totochtin” i quattrocento conigli) da cui scaturiva il dolce succo del mezcal, per poi concedergli di consumare un divino bruco, sacro simbolo dell’immortalità. Segue lungo idillio il quale, a quanto ci è dato comprendere, ha proseguito senza interruzioni fino all’epoca presente.

La produzione di mezcal e tequila si assomigliano alquanto, fatta eccezione per la pianta utilizzata e il metodo di cottura. La seconda, tuttavia, ha la caratteristica di provenire generalmente da contesti di tipo più tecnologico e industriale.

Perciò come resistere, tutto considerato, al richiamo partecipativo di una tale comunione con l’augusto regno dei cieli? L’occasione di conoscere un qualcosa che può estendersi, assieme alle nostre percezioni, oltre la limitante antonomasia dell’alternativa che ha senz’altro un valore tangibile, ma può agire come una barriera per la poca iniziativa del senso comune. Perché di agave impiegata per il mezcal ne esistono, secondo il catalogo ufficiale, almeno una quindicina di varietà contro la SINGOLA sfruttata per produrre la tequila. Ed in realtà è probabile che talune distillerie ne abbiano sperimentato addirittura delle altre.
Ricordate, tuttavia e volendo andare fino in fondo alla questione, quanto segue: lo scuro verme del gusano non dev’essere masticato, ma ingoiato tutto intero. Poché si dice, benché la scienza non abbia il potere di confermarlo né smentire un simile atto di fede, che possieda un qualche tipo di valenza afrodisiaca…

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