L’artista dei graffiti sospesi tra gli alberi della foresta

Tra le questioni portate finalmente all’attenzione del pubblico all’inizio di questo 2018, figura in maniera preponderante quello della plastica usa e getta dei sacchetti del supermercato. In questa sua nuova versione biodegradabile, dal costo di un paio di centesimi necessariamente a carico del consumatore. Utile, inutile, sensata, iniqua perché non utile (soprattutto quest’ultima cosa, per lo meno nell’opinione di chi produce il maggior numero di diatribe online) ma una cosa è certa: in un paese in cui esistesse un adeguata cultura ed infrastrutture finalizzate al riciclo, non ci sarebbe alcuna necessità di limitare l’impiego del problematico materiale. Il cui impatto ambientale, in assenza di un’adeguata catena di smaltimento, può essere niente meno che devastante. Certo: quello che l’uomo fa, attraverso l’elaborazione polimerica dei benzeni, non può essere dissolto da semplici processi biologici o di erosione. La stessa natura invincibile del materiale è a noi estremamente chiara, quando prendiamo in considerazione l’alta quantità di processi, potenzialmente distruttivi, attraverso cui vengono fatti transitare molti dei nostri prodotti di uso quotidiano. E uno di questi è certamente la produzione del cellophane: la pellicola trasparente ed impermeabile dai molti usi, inventata originariamente dal chimico svizzero Jacques E. Brandenberger nel 1908, per salvare la sua tovaglia da potenziali macchie di vino rosso. Facendo passare una certa quantità di viscosa, essenzialmente il tessuto artificiale prodotto dalla cellulosa, mescolata con alcaloidi e solfuro di carbonio, all’interno di una sottile fessura in un bagno d’acido, trasformandola nel sottile film trasparente che noi tutti ben conosciamo ed usiamo normalmente per preservare dall’ossigeno il cibo. Interessante! Che sostanze considerate normalmente dei veleni, attraverso un trattamento ed una procedura adeguata, possano trasformarsi in involucri del tutto degni della nostra fiducia. Questa imprescindibile tendenza alla mutazione, del resto, è comune a molte tecniche e procedure frutto dell’epoca contemporanea. Comprese quelle propriamente appartenenti al settore dell’arte.
Evgeny Ches è l’artista russo che sta in una certa misura sdoganando, in queste ultime settimane, un’interessante approccio al disegno con la bomboletta spray che ebbe origine nel 2009, grazie a un’invenzione dei due celebri graffitari francesi Kanos e Astro, operativi principalmente nella zona delle banlieue parigine: verniciare non più direttamente sulle pareti di proprietà pubblica o privata, arrecando oggettivamente un significativo disturbo alle convenzioni funzionali del contesto urbano. Bensì farlo sopra una superficie che potremmo definire, per analogia con il nostro discorso iniziale, riciclabile, ovvero conforme al concetto modernamente pratico dell’usa e getta. E quando vi dirò il nome di questa categoria d’arte, immediatamente ne comprenderete il nesso: cellograff, ovvero, apporre la propria grafica sulla cellulosa. Fare della plastica, una virtù. Ci sono alcuni significativi vantaggi ed almeno un enorme svantaggio, nell’intera faccenda applicata alle esigenze tipiche dell’artista urbano. Il cellophane è: pratico, leggero, utile a non infrangere seriamente la legge, poiché può essere facilmente rimosso al termine della creazione artistica, preservando al 100% la superficie sottostante. Il cellophane non è, invece, in alcun modo preservabile o duraturo. Il che trasforma subito l’opera del creativo in qualcosa di effimero e transitorio, una vera e propria performance art, creata principalmente per essere fotografata, o con la finalità di mostrare al pubblico il processo stesso della sua creazione. La sua qualità addizionale inizialmente più trascurata, eppure così importante, fu tuttavia un’altra: l’essere del tutto trasparente. Ben presto i due parigini scoprirono infatti che il modo più pratico per preparare la loro “tela” era quello di avvolgere la titolare pellicola facendo la spola tra due oggetti cilindrici, generalmente dei segnali stradali o una coppia di lampioni. Facendo così in modo che il fondale, osservabile attraverso gli spazi vuoti del disegno, tag o opera figurativa, diventasse una parte fondamentale della composizione. Una soluzione a partire dalla quale, il nostro Evgeny non ha potuto fare a meno di chiedersi, e se invece degli arredi artificiali facenti parti del contesto urbano, decidessi di utilizzare degli arbusti cresciuti naturalmente nel bel mezzo della natura?

Una delle installazioni artistiche più famose di Kanos e Astro resta quella realizzata nel 2015 nella sala di Roublot a Fontenay-sous-Bois, consistente di un grande cubo di cellophane e svariate strisce sospese dal soffitto, ricoperte dalle intriganti composizioni della street art.

Pensate, per un attimo, a quanto una scelta come quella dell’artista russo sia effettivamente rivoluzionaria: ecco un’arte nata in un contesto primariamente abusivo, il cui significato primario è in un certo senso l’opera di ribellione che sottintende (alcuni si chiedono se già il cellograff possa effettivamente definirsi un “graffito”) trasformata in una ricerca di armonia con ciò che veniva prima, l’impersonale ed assoluto ambiente che risulta dalla crescita sregolata delle piante. Voglio dire, città e foresta hanno persino dei punti in comune. Entrambe sono dense, trafficate, piene di vita. Il sole vi penetra talvolta a fatica. Ma i contenuti? Qui occorre effettuare un distinguo. O semplicemente rilevare quello, così abilmente, definito dall’opera stessa di Evgeny Ches, che piuttosto che comunicare un messaggio attraverso i suoi cellograff, ha scelto di dare spazio ai sentimenti. Nello specifico quelli sollevati da una serie di ritratti, tecnicamente proporzionati e quasi del tutto privi di difetti, di quello che  ti aspetteresti per l’appunto di trovare via dal cemento e l’asfalto dei centri abitati: animali. Creature come l’orso polare, lo scimpanzé con bomboletta in mano o uno scoiattolo gigante, intento nell’attività per lui fondamentale di rosicchiare un qualcosa di più o meno commestibile, raccolto tra le infinite sterpaglie del sottobosco. Menzione a parte merita poi il dinosauro, presumibilmente un’interpretazione fantasiosa di un dromeosauride appartenente alla famiglia dei velociraptor, che sembra proprio sbucare da dietro un pino per bloccare la strada a un malcapitato escursionista. (Merito, senz’altro, dell’effetto tridimensionale creato dall’innata trasparenza del cellophane) Si tratta di soggetti che sembrerebbero, almeno basandosi sul catalogo del sito dell’artista, un significativo cambio di rotta rispetto ai soggetti normali della sua arte, più instradati su un tipo particolarmente accessibile di Pop Art, che parla di Batman, Topolino e Super Mario.
Osservando queste creazioni boschive, ad ogni modo, è possibile apprezzare la sapienza tecnica e l’intelligenza delle soluzioni operative impiegate nel particolare segmento artistico del cellograf, che non è una mera applicazione differente delle tecniche del graffitaro. Bensì un’adattare, i propri movimenti con la bomboletta, ad una superficie tutt’altro che stabile, che oscilla continuamente nel vento, e può spesso presentarsi come concava o convessa. Proprio per questo, è importante che il soggetto selezionato sia immediatamente chiaro per l’osservatore, anche nel caso in cui egli si trovi a valutarlo in presenza di un certo grado di deformazione. Un altro aspetto da considerare è la qualità del cellophane, che non dovrà essere del tipo normalmente usato per conservare i cibi, troppo delicato ed incapace di trattenere la vernice, bensì proveniente da un contesto più prettamente industriale e quindi sensibilmente più costoso. Si parla, grosso modo, di 15-20 euro per un rotolo da 30 metri.

Sarebbe stranamente adeguato, a questo punto, concludere definendo la pratica del cellograf come un approccio ecologicamente responsabile che aiuta a migliorare le condizioni dell’ambiente. Mentre in effetti, da questo punto di vista è difficile rilevare alcunché di particolarmente positivo: nell’intera faccenda non sono coinvolti materiali di recupero, né il messaggio appare particolarmente conduttivo ai preziosi valori dell’ecologia. Questo perché ciò che viene salvato da questo nuovo approccio ai graffiti è semmai un altro tipo di ambiente, ovvero quello completamente artificiale delle grandi città. Da questo punto di vista, la pellicola inventata da Brandenberger è niente meno che risolutiva: niente più fughe al chiaro di luna dal poliziotto di quartiere, nessuno sgradevole risveglio al mattino, soltanto per scoprire che la propria parete o serranda è stata rivendicata da qualche giovane poco incline al rispetto dell’autorevole convenzione. Certo, può sembrare strano affermare che un muro nudo sia migliore di quello decorato gratuitamente di un qualche aspirante Michelangelo o Rembrandt dei tempi moderni. Ma la realtà è che di uno realmente meritevole, ve ne sono dozzine ancora intenti a fare esperimenti con la propria geometrica “firma” tutt’altro che esteticamente appagante all’occhio dei non iniziati.
E per quanto concerne la questione ambientalista, niente paura: lo stesso Evgeny ha assicurato, a svariate testate del Web, di assicurarsi di rimuovere tutti i materiali impiegati successivamente al completamento e la documentazione di ciascuna opera. Forse con la comprensibile, ma non del tutto evitabile, eccezione degli spruzzi accidentali di vernice. Certo bisognerebbe poi chiedersi, se il cellophane colorato sia ancora adatto a procedure di riciclo. Qualche piccolo sacrificio, del resto, dovrà pur essere concesso ai creativi delle nuove forme d’arte. Anche questo è progresso, culturale piuttosto che materiale, figurativo, e proprio per questo degno di un diverso tipo di considerazione.

 

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