La camera lucida, ultimo scalino tecnologico prima dell’invenzione della fotografia

È una fondamentale idiosincrasia della società contemporanea, nonché prova pratica dell’influenza delle immagini fittizie sul nostro stile di vita, se dinnanzi ad una scena o luogo memorabile, c’è sempre un’alta percentuale di persone che l’osservano mediante un’interfaccia tecnologica intermedia. L’oggetto creato per immortalare ciò che siamo indotti ad osservare, incorporandolo all’interno di pellicola, rullino o scheda di memoria in silicio e plastica, diviene in questo modo anche un’affettazione, ovvero il metodo per connotare l’effettiva acquisizione esperienziale degli eventi. E quante volte, nella comunicazione fatta di stereotipi del buon pensiero, ci siamo sentiti ripetere o abbiamo pronunciato noi stessi le seguente parole: “Metti giù quel cellulare/fotocamera ed osserva, vivi, affidati alla tua memoria.” Ah, se soltanto gli antichi maestri della pittura avessero seguito un simile consiglio! Probabilmente al giorno d’oggi avremmo da studiare un numero molto minore di capolavori… Ed i programmi di storia dell’arte sarebbero ancor più brevi di quelli d’educazione fisica, con buona pace di chi organizza gli orari di lezione all’interno dei migliori licei. Col che non voglio certamente dire che personaggi del calibro di Jan van Eyck (1390-1441) Lorenzo Lotto (1480-1557) e Johannes Vermeer (1632-1675) avessero a disposizione un primissimo modello di Samsung o Apple iPhone 3G, sollevando la questione dei viaggi interdimensionali ed attraverso l’asse scorrevole del tempo; quanto piuttosto la più ragionevole approssimazione della loro funzione fotografica, presentata in una guisa ed un livello d’ingombro alquanto fuori misura. Quello, per l’appunto, di una vera e propria tenda o grossa scatola con un piccolissimo foro, da cui lasciar filtrare una piccolissima quantità di luce da un paesaggio o scena assolata. Con il risultato totalmente naturale di ottener la proiezione invertita dell’immagine, sopra la parete tenebrosa antistante. Molti furono i manuali, ed altrettante le parodie umoristiche, relative al duro lavoro del pittore intento a ricalcare i propri disegni preparatori infilandosi all’interno del pertugio, strategicamente collocato innanzi al soggetto scelto per essere trasferito su carta. E sto qui parlando, sia chiaro, della camera obscura, un principio noto in via teorica, almeno dai primi esperimenti sulla luce documentati dall’architetto bizantino del sesto secolo, Antemio di Tralle, ma conosciuto e disponibile su larga scala non prima di dieci secoli da quel tempo. Utilizzato per quanto ci è dato comprendere, o desumere a seconda dei casi, a sostegno d’innumerevoli quadri famosi, dipinti con assurda precisione matematica proprio perché creati tramite l’impiego di una macchina, sebbene di un tipo particolarmente semplice da concepire ed implementare. Il che sarebbe a un certo punto andato incontro ad una radicale alterazione della sua importanza, quando nel 1806 venne introdotto sul mercato qualcosa di migliore sotto ogni punto di vista rilevante: (più) portatile, privo di irrimediabili distorsioni ottiche, adattabile ad una maggiore quantità di situazioni. E soprattutto, privo delle specifiche condizioni d’utilizzo in materia d’illuminazione, non necessitando più dell’impiego e montaggio di assurdi rifugi mobili prima di appoggiare solennemente lo strumento di disegno sulla pagina oggetto della propria creatività. Il suo nome, questa volta, era camera lucida come delineato dallo stesso inventore, il chimico e polimata inglese William Hyde Wollaston (1766-1828) sebbene il principio di funzionamento fosse sostanzialmente diverso a tal punto da quello dell’approccio esistente, da porlo letteralmente all’opposto all’interno del suo specifico campo d’impiego. In ogni campo, tranne quello pratico dell’effettiva necessità a cui doveva offrire una soluzione…

Il funzionamento teorico della camera lucida era stato già teorizzato nel sedicesimo secolo da  Johannes Kepler (o Keplero) sebbene a quanto sappiamo, né lui né i suoi colleghi costruirono mai fisicamente un simile strumento. È molto probabile tuttavia, per non dire certo, che Wollaston si fosse ispirato ai suoi scritti.

Eppur sussiste, oggi più che mai, l’idea costruita secondo cui il disegnatore che ricalca o proietta le linee delle proprie creazioni sulla carta del prodotto finale stia in qualche modo “barando” mentre salta le tappe intermedie del processo d’apprendimento, producendo un qualcosa d’inadeguato a ricevere l’aleatoria qualifica di “vera arte”. Un’idea perpetrata dai professionisti, dagli estimatori e dagli stessi insegnanti di pittura, che invitano i propri studenti a imitare le opere dei grandi nomi delle antologie, senza che gli venga permesso per questo d’utilizzare gli stessi strumenti di cui costoro si erano serviti come importante tecnologia al servizio della loro carriera. Vedi la già citata soluzione oscura e quella luminosa, ancor meno famosa e celebrata proprio perché rimasta in uso per un tempo relativamente breve, prima dell’invenzione del primo processo fotografico ad opera di Joseph Nicéphore Niépce, nel 1826. Un singolo ventennio dunque, durante cui l’occasione d’incontrare qualcuno di solennemente concentrato intento a scrutare dentro a un rudimentale obiettivo in cima ad un bastone assicurato al tavolo aumentò esponenzialmente, dando luogo ad una percezione dello scopo pratico e funzione ulteriore dell’arte grafica che precorreva largamente i tempi, ponendo in essere gli effettivi presupposti degli automatismi futuri che sarebbero parsi all’epoca del tutto speculativi ed assurdi. Perché così si presentava la creazione di Wollaston, già famoso per aver scoperto gli elementi chimici del palladio e del rodio, prima di dedicarsi all’invenzione di strumenti ottici di nuova e innovativa concezione. Tra cui il prisma che porta ancora oggi il suo nome, consistente di due forme ortogonali realizzati in materiale rifrangente, generalmente la calcite, cementati assieme in corrispondenza della base mediante l’uso di una colla trasparente (all’epoca si preferiva la trementina canadese, frutto della resina dell’Abies balsamea) e montati su un apposito sostegno perpendicolare al tavolo da disegno. Il che permetteva, a chi scrutava dentro un simile apparato monocolo, di vedere essenzialmente due cose allo stesso tempo: il foglio bianco e quello dinnanzi a cui ci si era preventivamente collocati. A quel punto ed esattamente come nel caso della precedente camera obscura, si poteva procedere agevolmente al tracciamento del soggetto, con precisione probabilmente irraggiungibile dalla mano libera della stragrande maggioranza degli artisti grafici, allora come oggi. I vantaggi tuttavia erano significativi, vista la maniera in cui la soluzione di Wollston non distorceva in modo significativo l’immagine, causando soltanto una lieve alterazione prospettica degli oggetti più in alto e lontani. Vero e proprio “marchio di fabbrica” del suo utilizzo, tale da aver permesso agli studiosi sperimentali di posizionarsi ad esempio sulla stessa strada di Parigi immortalata dall’impressionista Gustave Caillebotte nel 1877, posizionando una camera lucida e tracciando il profilo dei palazzi in maniera perfettamente coincidente a quella del suo dipinto. Altri, come l’architetto Léon Vaudoyer, avevano continuato a coltivare un’ostilità ed acredine nei confronti di ogni apparato artificiale utilizzato per facilitare la scienza logica del disegno, scrivendo ad esempio di tutto il proprio fastidio al suggerimento di suo padre di tale “superficiale orpello” per velocizzare il suo tracciamento delle rovine pompeiane nel 1827. Un ulteriore utilizzo pratico dello strumento, oltre a quello fatto da archeologi, paleontologi ed altri studiosi interessati ad eliminare il margine d’errore umano dai loro disegni, era quello di effettiva fotocopiatrice/fotoriduttrice ante-litteram: bastava infatti mettere un’immagine ad un metro di distanza e ricalcarne la proiezione, per ottenerne una copia identica ma di dimensioni sensibilmente ridotte.

Grande successo della piattaforma Kickstarter nel 2017, la NeoLucida è una versione moderna di questo apparato di cui molti hanno sentito parlare, ma di cui comparativamente pochi al giorno d’oggi hanno potuto in effetti sperimentare l’efficacia. Ad un prezzo molto più accessibile di qualsiasi alternativa d’epoca, vista la rapidità con cui il mondo abbandonò gli strumenti ottici all’invenzione della fotografia.

Osservando a posteriori l’opera dei più grandi artisti della storia, non è per tuttavia altrettanto facile capire quali tipologie di strumenti costoro potessero aver scelto d’utilizzare, in parte per la loro abilità nel colmarne le rispettive mancanze, ma soprattutto perché il mantenimento dei propri segreti garantiva in genere una fama e guadagno superiori all’interno della loro professione. Così che la tesi famosamente sostenuta a partire dal 2001 dall’artista David Hockney e il fisico Charles M. Falco, che vorrebbe individuare un sostanziale cambiamento stilistico nell’intero mondo della pittura a partire dal quindicesimo secolo, con l’invenzione e progressiva diffusione degli strumenti ottici, è ancora oggi guardata con sospetto dagli storici tradizionalisti, probabilmente perché in contrapposizione all’idea secondo cui i maggiori maestri potessero affidarsi a capacità letteralmente sovrumane nella loro capacità di trasferire le immagini su carta o tela. Una possibilità forse immaginabile in qualche dozzina di casi, ma… Davvero possibile nel 99% di quelli giunti immutati fino a noi?
Come in una gara di pittura in cui tutti sembrano assurdamente più bravi di noi, anche dopo anni ed anni di pratica, non è del tutto irragionevole pensare che in molti abbiano “barato”. Per quanto sia opinabile l’idea, purtroppo assai diffusa, affine ad una sorta di machismo applicato alle arti grafiche tradizionali. Una visione molto spesso neanche destinata a rimanere implicita, in cui la sofferenza pregressa nobilita in qualche maniera sovrannaturale il risultato finale. Quasi come se lacrime e sudore, in qualche modo, restassero a donare un’anima a ciascuna opera di fronte agli occhi di una critica superficiale e disinformata. Ma c’è differenza, vi sfido a negarlo, tra impugnare un pennello sotto un proiettore e premere semplicemente il tasto “scatta” sopra l’interfaccia di un moderno smartphone!

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