Poiché non c’è niente di meglio, al termine di una giornata d’avventurose ribalderie o vicende scellerate, che coricarsi supini su di un materasso morbido all’interno di una stanza silenziosa. E adagiando il proprio corpo nella posizione di riposo, chiudere alla mente qualsivoglia tipo di preoccupazione, ansia, problematica impellente. Situazione stranamente analoga, per molti versi rilevanti, a quella di uno stato di concentrazione persistente, aperta ad ogni tipo d’interferenza proveniente da oltre la barriera dei pensieri coscienti. E non c’è in alcun modo da meravigliarsi, a tal proposito, se all’epoca del Medioevo gli studiosi del pensiero fossero naturalmente inclini a immaginare lo zampino del demonio, in certe visioni persistente proiettate sullo schermo di Morfeo, d’immani esseri all’interno del contesto della loro terra, un mondo posto all’incontrario da ogni scorcio d’analisi rilevante. Ma cos’è, in fondo, un demone, se non una creatura trasportata Altrove e in qualche modo via da casa, come una bambina in Kansas che resta coinvolta nel passaggio di un uragano. E in quale modo riesce utile impostare il proprio metodo d’interazione sul terrore e tutto ciò che questo comporta? Non si può combattere ciò che è parte indisputabile del nostro stesso Ego, seguendoci da presso nell’incedere dei giorni e dei gironi dell’esistenza. Lasciandoci soltanto una possibile reazione: fare festa.
Un banchetto, la baldoria, una sfilata di mostruosi esseri, tutti abbigliati con i propri costumi migliori. Quelli che li rendono più simili… A noi. Tra le pagine di uno dei libri più misteriosi pubblicati nel decennio del 1560, ad opera dell’editore e stampatore protestante Richard Breton, che sotto il proprio marchio nelle pagine della stringata introduzione, omette di citare l’effettivo autore delle 120 illustrazioni che ne dominano il contenuto. Attribuendole come da titolo e in maniera fortemente programmatica, ai “Sogni drolatici (divertenti) di Pantagruele” con riferimento a un grande successo letterario di quegli anni, pubblicato dal suo presunto amico recentemente dipartito a Lione, François Rabelais. Il grande scrittore, monaco, medico ed umanista, nonché rinomato autore satirico, alle origini di quell’aggettivo che in francese viene usato per riferirsi a un tipo di umorismo prosaico e diretto, privo di offuscanti gradazioni ed arguti doppi sensi. Così come nella nostra lingua, due dei suoi personaggi sono usati come dei forbiti sinonimi, rispettivamente, delle cose molto grandi (“gargantuesco”) e i banchetti particolarmente abbondanti (“pantagruelico”) Ma in merito a chi fossero, effettivamente, i giganti Gargantua e Patangruel sono piuttosto sicuro che non siano in molti a ricordarlo. Poiché non è oggetto di studio scolastico, nella nostra penisola, la serie di cinque romanzi facenti parte del loro ciclo, che verte sulle molte strane circostanze atte ad imitare, ed in qualche modo riprendere il codice espressivo dei romanzi epici di epoche precedenti. Con lo scopo contingente, da parte dell’autore, di mettere in ridicolo particolari classi sociali e comportamenti tipici della sua Era. In modo abbastanza veemente, guarda caso, da vedere i propri testi proibiti all’Università della Sorbona ed essere escluso, in modo progressivo, da diversi circoli dei cosiddetti sapienti. Il che non sarebbe bastato in ultima analisi a limitare la fama imperitura di Rabelais, almeno a giudicare dalla quantità di opere collaterali prodotte a partire dall’anno della sua morte nel 1553, molte delle quali fatte idealmente discendere, in una qualche maniera, dai presunti appunti o note ritrovate tra gli averi del beneamato scrittore…
Ed è questo, per l’appunto, l’effettivo contesto di Les songes drolatiques, una curiosa rassegna di creature fantastiche e grottesche vagamente ispirate alle cosiddette “drollerie” o illustrazioni ai margini dei manoscritti di epoche precedenti. Nonché ai dipinti, per tale periodo certamente attuali, di Bruegel il Vecchio e Hieronymus Bosch, tra i primi esploratori visuali del mondo dell’inconscio, che seppero utilizzare a guisa di strumento esplicativo e metaforico della sospesa condizione umana tra Paradiso ed Inferno. In maniera che sarebbe anche riconducibile, previa un’ardua contestualizzazione, nell’intrigante carrellata del libro di Breton, composto in egual misura di esseri antropomorfi e strane creature animali, oggetti personificati o mostruosità indefinibili ed almeno in apparenza, deformi. Una carrellata di figure isolate, ciascuna raffigurata su una singola pagina, che un orientalista potrebbe essere incline a paragonare alla Hyakki yagyō (Parata Notturna dei Cento Demoni) facente parte del complesso sistema folkloristico delle isole giapponesi, analogamente rappresentata negli albi del secolo successivo di stampe xilografiche create da importanti artisti del genere ukyo-e, teoricamente visibile tra il sonno e la veglia per le strade della calda estate. Laddove la probabile collocazione temporale della distante controparte europea, attraverso l’incedere del calendario, andrebbe effettivamente individuata nel momento al termine della Quaresima, quando le restrizioni sociali si trovavano allentate ed ogni categoria sociale temporaneamente messa in secondo piano, mentre ognuno poteva fingere di essere qualcosa di più basico ed elementale, dietro la barriera della maschera selezionata per l’occasione. Una creatura, in altri termini, del tutto libera d’imposizioni e gravitas, così come un demone traslato fuori dal suo territorio immaginifico d’appartenenza. Ed è proprio tale tipo di mentalità, a ben vedere, ciò che emerge dallo stile e il topos posto a fondamento dello strano libriccino, così effettivamente simile ad un repertorio di costumi, ovvero analogo alle opere precedentemente pubblicate dallo stesso editore durante il proprio periodo trascorso alla corte di Caterina de’ Medici. Collettività privilegiata di cui egli fu uno stimato membro in qualità di addetto alla rilegatura dei libri reali. Una notazione pregressa sulla sua vita tanto inaspettatamente utile, ai filologi, nel tentativo d’individuare l’effettivo autore materiale di Les songes drolatiques, nella mano illustratrice di niente meno che François Desprez, già stimato collaboratore di Breton durante la creazione di un celebre libro incentrato sulla moda e gli abiti indossati dalla classe privilegiata di Parigi. Di cui la nuova opera, dichiaratamente ancorché tenuamente ispirata ai romanzi di Rabelais, avrebbe potuto idealmente rappresentare la parodia. Un’ipotesi ulteriormente supportata, nell’opinione di alcuni, dalla presenza in ciascuna tavola di sovradimensionati e preponderanti fili d’erba come parte del fondale di ciascuna figura, con un possibile riferimento al cognome Desprez (“dei Prati”).
Ciò che resta d’altra parte chiaro ed evidente, nella contestualizzazione dei sogni drolatici, è l’intento di richiamarsi in qualche modo allo stile ed il messaggio di fondo dei romanzi sulle avventure del gigante Pantagruele, ivi incluso il successivo prequel scritto dallo stesso autore sulla vita del padre Gargantua. Entrambi figure preponderanti ed affamate di rivalsa, come cavalieri di un’avventurosa narrazione picaresca, che li avrebbe portati ad operare grandi cambiamenti nella società facente parte delle loro vicende. Come la fondazione, ad opera del padre, della notevole abbazia di Theleme, un luogo affine al principio profetico dell’anarchia illuminata, così il suo degno erede avrebbe controllato l’intero regno dei Dispodi a guisa di principe illuminato, prima di lasciare tutto ed avviarsi nuovamente per mare, assieme all’amico brigante Panurgo. Incontrando ogni sorta di mostro e creatura fantastica alla ricerca della Sacra Bottiglia, un oggetto in grado di rivelare i più occulti misteri dell’esistenza umana. Concetto privo di limitazioni di contesto ed altrettanto attribuibile alle circostanze dei nostri giorni, così come molti dei riferimenti anti-estabilishment così efficientemente ripresi nelle illustrazioni attribuite a Desprez. In egual misura capaci di richiamarsi a figure ecclesiastiche, amministratori di governo e simboli della cultura e della sapienza. Con una certa, preponderante impressione di virilità latente, così chiaramente esemplificata dall’inclusione in talune figure di falli enormi. Dopo tutto, dovrà pur esserci stato un motivo, se l’originale autore pubblicava sotto lo pseudonimo anagrammatico di Alcofribas Nasier…