Le torri indistruttibili del Terzo Reich

Che cosa devono aver provato, gli abitanti comprensibilmente preoccupati di Berlino, Amburgo e Vienna al sorgere del primo mostro grigiastro nel 1940, la vera e propria montagna di cemento concepita per costituire l’equivalente moderno di un’inespugnabile fortezza… C’è un punto, un momento neanche troppo remoto in qualsiasi grande guerra, in cui ogni preconcetto cessa di esistere, lasciando il posto al basilare istinto e ed al bisogno di un grado ragionevole di sicurezza. Credo a tal proposito che in molti, tra la popolazione civile che sperava di essere lasciata in pace, tra gli ebrei segreti e le altre potenziali vittime del regime, persino tra i pochi prigionieri di guerra trasportati fin qui dai più remoti campi di battaglia, si siano silenziosamente congratulati con colui che si era dimostrato in grado di farsi venire l’idea. Senza però sapere, perché non rientrava tra le cognizioni più frequentemente discusse, che quell’individuo altri non era che Hitler in persona. Esistono del resto i disegni, che lui stesso aveva tracciato sulla carta progettuale a guisa di castelli da incubo fuoriusciti direttamente dal Signore degli Anelli, con guglie gotiche sormontate da vertiginosi abbaini, dall’interno dei quali si affacciavano i possenti cannoni posti a difesa delle metropoli più scintillanti dell’intero territorio del Reich. Tre città, come tre coppie di torri, con tre tipi di armi, disposte geometricamente nella forma del quadrato e del cerchio. L’occultista che si nascondeva all’interno dell’uomo più spietato che il mondo abbia fin’ora conosciuto doveva trarre un sinistro piacere in tali corrispondenze numerologiche latrici di un presagio. Ma l’architetto Friedrich Tamms, uno stretto collaboratore di quel Fritz Todt che aveva diretto la creazione della linea Siegried come fortificazione al confine col Belgio, poté seguire soltanto in parte le direttive del Führer, giungendo alla conclusione che l’unico modello possibile per tali strutture fosse quello dell’architettura brutalista, in cui l’estetica si ritrovasse subordinata all’assoluta funzionalità. Ed il risultato possiamo ancora ammirarlo, per così dire, ad Amburgo e Vienna ma non più presso la capitale, dove gli Alleati attorno al 1946 e ’47, a fronte di un dispendio considerevole e svariati tentativi non riusciti di demolizione, finirono per seppellire simili giganti sotto metri cubici di terra, trasformandoli, di fatto, in colline.
Il male può essere sepolto. Ma, come ci insegnò lo stesso Tolkien, mai del tutto eliminato. E lo stesso valeva, a quanto ci è dato di comprendere, per le 16 Flaktürme, o torri contraeree, la massima espressione storica del concetto di una fortezza imprendibile, tanto che la più famosa di esse, quella dello zoo berlinese, poté resistere per quasi un mese al bombardamento dell’artiglieria e dei carri armati sovietici, fermamente intenzionati a mettere la parola fine sulla battaglia decisiva di una guerra che pareva non finire mai. Proprio così: un assedio medievale a tutti gli effetti, nel 1945, con dietro le mura asserragliate svariate migliaia dei membri residui delle SA ed SS, un contingente della gioventù hitleriana, opere d’arte inestimabili tra cui il fregio dell’altare di Zeus sottratto a Pergamo e quantità ancor superiori di civili da sfamare. Essi avevano, sostanzialmente, di tutto un po’: cibo in abbondanza, pozzi ed elettricità indipendenti, recinti sotterranei con bestiame. Ed in effetti la situazione di stallo si sarebbe estesa parecchio nel tempo, se gli ufficiali dell’esercito assediante non si fossero accordati all’interno, per non uccidere sommariamente i militari a capo dell resistenza, in cambio dell’apertura dell’imprendibile castello tedesco. Accordo che in realtà si rivelò essere uno stratagemma, quando i loro colleghi della torre di Humboldthain all’altro capo del fiume Sprea, la notte del primo maggio, approfittarono del cessate il fuoco per fuggire con un intero contingente corazzato con tanto di Tiger ancora in perfetto stato di funzionamento, poco prima che si diffondesse la notizia sulla morte di Hitler e fosse ordinata la resa totale del paese. A quel punto, tutto sembro futile, e la guerra finì.
Se le cose fossero andate diversamente, è probabile che l’unico modo di annientare le torri sarebbe stato affamare i loro abitanti. Poiché non c’era nulla nell’armamentario russo, americano e inglese salvo forse alcuni tipi di bomba sovradimensionata (incluse le atomiche, ma non scherziamo…) che potesse facilmente abbattere delle pareti di cemento spesse tra i 2 e i 3,5 metri, senza considerare l’armamento più terrificante delle Flaktürme, le quattro bocche da fuoco dei cannoni 12,8 cm FlaK 40, in grado di abbattere un bombardiere fino a 15 Km di distanza. Le quali, secondo alcune versioni della storia, all’ultimo furono puntate verso il basso e usate per forare la leggendaria corazzatura dei carri armati russi, trasformata dalla loro impressionante potenza in poco più che semplice carta velina. Wikipedia italiana cita uno studio di F. M. Puddu secondo cui ciò non sarebbe stato possibile, per l’arco di tiro limitato delle armi, mentre la sua controparte in lingua inglese riporta un articolo del War Tourist Magazine pronto a giurare sul verificarsi di questa particolare contingenza. Di certo, se ciò fosse vero, accrescerebbe ulteriormente la leggenda dei mostruosi mastodonti…

Nella versione finale del progetto delle torri, Hitler fece includere la presenza di un alto numero di finestre. Egli aveva infatti già i suoi piani per una Berlino vittoriosa e post-bellica, in cui simili edifici si sarebbero trasformati in luoghi di rappresentanza e memoriali degli eroi caduti in guerra.

In tutto, furono costruite 8 complessi di Flaktürme, nient’altro che la parte iniziale di un progetto che ne avrebbe previsto almeno tre occorrenze in ciascuna singola città della Germania. Ciascun punto fortificato, in effetti, di edifici ne aveva due: la torre Geschützturm (armata) e la torre Leitturm (di puntamento) con il colossale impianto radar Würzburg Gigant, montato su una piattaforma che poteva rientrare dal tetto, e soli armamenti leggeri, affinché le loro vibrazioni non interferissero con il rilevamento degli aerei nemici. Le due torri erano costantemente in comunicazione diretta, con gli addetti al puntamento che inviavano in remoto l’angolazione di tiro ai cannoni ed alle mitragliatrici pesanti della torre G, che dal canto suo era in grado di distruggere qualsiasi cosa con le ali. È stato in effetti stimato, sulla base di studi storici delle fonti coéve, che le torri antiaeree di Hitler non abbiano in effetti avuto di modo di combattere con particolare frequenza. Ciò perché erano un deterrente temuto a tal punto, dai generali e dagli avieri alleati, che essi semplicemente non ordinavano un alto numero di attacchi sulle città in cui esse erano presenti e operative. Mentre tutto l’opposto avvenì altrove, soprattutto successivamente allo sbarco in Normandia e durante l’offensiva delle Ardenne, quando l’aviazione tedesca non fu più in grado di offrire una copertura d’intercettazione efficiente sul territorio tedesco. A tal proposito, erano un ricordo ormai lontano le parole del supremo comandante della Luftwaffe Hermann Göring, che ebbe famosamente modo di assicurare al Führer: “Se l’inefficace aviazione alleata oserà mai colpire direttamente le città sul suolo tedesco, cambierò il mio nome in Meier” tanto che da quel giorno, con tipico sfoggio d’umorismo berlinese, la popolazione civile prese a chiamare le sirene d’allarme per i bombardamenti con il nome di Corno da Caccia di Meier. Particolarmente e tristemente famose furono le cosiddette tempeste di fuoco, eventi distruttivi conseguiti con successo dai bombardamenti alleati nelle città di Kassel, Darmstadt e Dresden, costate la vita a numerose migliaia di civili. Per non parlare di un evento simile che colpì anche la periferia di Amburgo, nonostante la presenza delle tre coppie di torri.
Ad ogni insorgere di un’emergenza, quindi, l’attività diventava febbrile nei castelli di cemento armato. I cannoni Flak 40 erano degli inamovibili implementi bellici dal peso di 17 tonnellate, ciascuno dei quali richiedeva per funzionare a pieno regime un’equipaggio di 21 uomini ed un sergente. In aggiunta ai quali, con gli utilizzatori delle armi più leggere (il 37 mm Flak 43 ed il 2 cm Gebirgsflak 38) e gli addetti ai servizi accessori si arrivava ad un totale di 160 militari ed una quantità imprecisata di membri della gioventù hitleriana, che pur non essendo ufficialmente dei combattenti avevano l’incarico di mettere una per una le munizioni sul sistema di ascensori a ciclo continuo che le sollevavano fino alla parte superiore del bunker. Una volta arrivati a regime, i quattro cannoni principali potevano raggiungere un rateo di fuoco di 11-12 colpi al minuto, ciascuno dei quali pesava 26 Kg ed esplodeva a raggiera, danneggiando gravemente gli aerei anche qualora non fosse riuscito a raggiungerli direttamente. I calibri minori, nel frattempo, facevano la loro parte.

Furono prodotte Flakturm in tre modelli distinti: il primo, sulla struttura di uno stereotipico castello, a Berlino e Amburgo. Il secondo ad Amburgo e Vienna, con l’aspetto di un semplice parallelepipedo con i cannoni in cima. E il terzo soltanto a Vienna, meno esteticamente orribile, dalla forma più slanciata di un cerchio. Le altezze della torre G erano, rispettivamente, di 70, 57 e 43 metri.

Abbiamo accennato al fatto che la demolizione delle torri si rivelò complessa. Ciò, in effetti, è un puro e semplice eufemismo: nella maggior parte dei casi, essa fu dichiarata completamente impossibile. Persino a Berlino, dove c’era un importante spinta anche d’immagine per eliminare le vestigia del defunto impero nazista, soltanto una coppia venne completamente eliminata (quella più celebre dello zoo) dopo svariati tentativi e con l’impiego complessivo di oltre 40 tonnellate di esplosivi. Si narra che all’evento per l’abbattimento della torre G, osservando gli effetti trascurabili avuti dalla dinamite sulla stessa, uno dei giornalisti chiamati per assistere avesse declamato a gran voce: “Ah, non c’è da meravigliarsi. Dopo tutto, è stata costruita in Germania!” Per quanto concerne gli altri due complessi, essi furono semplicemente sepolti. Dopo l’esplosione delle cariche, tutto quello che si era ottenuto era che le pareti si separassero l’una dall’altra, costituendo i pezzi di un cubo di Rubik colossale. Sono svariate, dunque, le torri ancora in piedi e benché non sia stato affatto facile, ciascuna delle città coinvolte ha fatto il possibile per trovargli un qualche tipo di impiego utile e moderno. Quelle nel quartiere Heiligengeistfeld di Amburgo vengono usate per delle esposizioni d’arte. Le altre rimaste in piedi, nella zona di Wilhelmsburg, sono state date in concessione a un club musicale e discoteca, lo Uebel & Gefaehrlich. È indubbio che lo spessore delle mura, in effetti, risulti alquanto funzionale dal punto di vista dell’isolamento acustico. A Vienna, nel frattempo, una delle torri è diventata un acquario, un’altra ospita degli uffici dell’Esercito d’Austria. Per quanto concerne la Flakturm VII, invece, nel quartiere di Augarten, nessun impiego è stato mai trovato. Essa giace del tutto abbandonata eppure mai del tutto silenziosa, costituendo la casa e il nido per molte migliaia di piccioni.
Sull’utilità del mantenere eretti questi edifici, la cui funzione logica è ormai decaduta e non ritornerà più attuale (così si spera) molte parole sono state spese. È indubbio che le torri, con il loro aspetto estetico inquietante, costituiscano delle vistose cicatrici su alcune delle città più affascinanti d’Europa. Esse potrebbero servire, tuttavia, a ricordare agli abitanti dell’orrore della guerra, prevenendo potenzialmente il ripetersi degli errori commessi in passato. Ma la realtà, fondamentalmente, è ancora più semplice: anche volendo realmente farlo, la demolizione delle torri comporterebbe quantità di esplosivi tale da costituire un rischio notevole per gli edifici circostanti. Soltanto in questo, dunque, riuscì infine a realizzarsi il sogno nazista: la costituzione di un complesso di mura che nessuno avrebbe mai potuto, né voluto abbattere dopo la guerra. La metafora, direi, è piuttosto chiara.

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