Dornier Do 335: l’insolita freccia scagliata due volte negli ultimi giorni del Reich

Se solo fosse stato completato in tempo… Il paradigma in grado d’invertire la tendenza… Un’arma fuori dal contesto di quell’epoca e per questo totalmente priva di contromisure efficienti: l’interpretazione storiografica della tecnologia tedesca per tutto il corso della seconda guerra mondiale, ma soprattutto verso l’epilogo di quel conflitto, appare letteralmente piena di quelle che sarebbero state definite retrospettivamente Wunderwaffen o “armi meravigliose”, implementi bellici talmente sofisticati e moderni, almeno nell’idea dei loro progettisti, da poter riuscire a dominare i campi di battaglia contro le forze ormai numericamente superiori che avevano circondato la Germania, validando un laborioso e disperato sforzo necessario a preservare ciò che ancora rimaneva dei sogni di conquista del grande Reich. Rimasti largamente allo stato di prototipo, o addirittura un semplice progetto sui tavoli da disegno, simili veicoli, aerei, cannoni ed altre armi, talvolta furono capaci di concretizzarsi con una produzione in serie, destinata tuttavia a rivelarsi meno rivoluzionaria di quanto sperato; vedi il caso del carro armato Panzer VI Tiger II, semplicemente troppo pesante e inaffidabile per riuscire a raggiungere efficientemente i luoghi in cui far uso della sua potenza di fuoco, o il primo caccia a reazione Me 262, che pur essendo velocissimo e imprendibile, poteva decollare solamente da un basso numero di basi dotate di piste asfaltate, finendo per attirare su di se tutti i bombardamenti delle forze alleate. Vi sono poi taluni casi di creazioni, potenzialmente valide, capaci di raggiungere lo stato di pre-produzione in serie con svariate decine di esemplari. E che avrebbero probabilmente dato un qualche tipo di valida prova in combattimento, se soltanto ci fosse stato il tempo necessario a implementare le nuove, complesse catene di montaggio a margine di una tale idea.
Dornier Do 335 Pfeil (“Freccia”) fu un bimotore progettato dall’omonima compagnia di Friedrichshafen, presso il lago di Costanza, sulla base di una particolare inclinazione progettuale dello stesso industriale e in precedenza ingegnere aeronautico allievo del grande Ferdinand von Zeppelin, Calude Dornier. Il quale aveva avuto modo di sperimentare, durante il corso del primo conflitto mondiale, la maniera in cui un idrovolante potesse trarre beneficio dall’impiego di una serie di motori disposti a coppia, in cui uno spingesse e l’altro tirasse i due rispettivi lati di ciascun pilone di sostegno. Il che permetteva di ottenere una configurazione non soltanto più compatta, e per questo in grado di trovare posto ben lontano da eventuali schizzi o il flusso dell’acqua in fase di decollo ed atterraggio, ma anche funzionale a ridurre la naturale tendenza dell’aereo ad inclinarsi lateralmente, per l’effetto della terza legge di Newton (“Ad ogni azione, corrisponde una reazione uguale e contraria.”) Ma ancor più notevolmente, a parità di numero d’impianti sporgenti verso l’alto consentiva di ridurre la quantità di barriere capaci di ridurre le prestazioni aerodinamiche del velivolo, incrementandone esponenzialmente la velocità. Con l’aumento progressivo di potenza disponibile ai fini delle macchine aeronautiche, quindi, tale merito passò progressivamente in secondo piano, mentre una quantità di un massimo di quattro motori riuscì a dimostrarsi sufficiente, nella maggior parte delle circostanze, a trasportare il carico a destinazione. Ma c’era un particolare tipo d’implemento bellico, tra tutti, che poteva ancora beneficiare di un sistema affine: l’intercettore pesante o zerstörer (distruttore) come erano soliti chiamarlo in territorio tedesco, aeroplano concepito per abbattere i sempre più numerosi bombardieri nemici, oltre a combattere occasionalmente contro i più agili caccia monomotore schierati in grande numero dagli avversari nella guerra d’Europa. Il che iniziò a prendere forma con il P.59 che fu sottoposto agli ultimi perfezionamenti nel 1939, finché l’anno successivo Hermann Göring non diede l’ordine di porre fine al progetto a lungo termine, causa l’ideale conclusione della guerra che lui riteneva prossima al completamento, pur riconoscendo i meriti di quell’atipico posizionamento dei motori. Il che avrebbe permesso, al trascorrere di ulteriori due anni, a Dornier di riproporre un apparecchio simile, come risposta al progetto per un incursore/bombardiere veloce (schnellbomber) rispondente a simili caratteristiche, quello che sarebbe emerso dagli hangar sperimentali con il numero di fabbrica CP+UA, aprendo la strada ad un nuovo possibile sentiero e soluzione tecnica per l’intera storia futura dell’aviazione.

Poche sono le riprese d’epoca disponibili di un aereo tanto raro e utilizzato in una quantità limitata di circostanze. Il che rende improbabile, a conti fatti, che la “freccia” di Friedrichshafen potesse costituire un simbolo capace di ridar fiducia allo sforzo militare, in un paese ormai fiaccato nelle sue un tempo notevoli potenzialità produttive.

Il Do 335, come sarebbe stato chiamato successivamente, è un figlio naturale della sua epoca inteso come soluzione concepita per incrementare al massimo le prestazioni di un aereo spinto da due semplici motori a pistoni, prima che i jet diventassero sufficientemente affidabili e privi di problemi tecnici evidenti; ed ancor più di ciò, per la sua appartenenza da un’intera categoria d’aeroplani che di lì a poco sarebbe diventata irrimediabilmente obsoleta. E dal punto di vista della mera logica applicata, lo era forse già da parecchio tempo, soprattutto quando si considera la spesso deludente storia operativa del Messerschmitt Bf 110, il bimotore dalla doppia coda che avrebbe dovuto bombardare, intercettare e persino combattere al tempo stesso contro gli agili caccia monoposto degli Alleati, finendo per rivelarsi passabile in ciascuna di tali possibili e disparate circostanze, ma mai davvero eccelso in alcuna. Il che costituiva una concettuale equivalenza a dire che, nella maggior parte degli ingaggi, finiva per dimostrarsi inferiore alle creazioni maggiormente specializzate. Nonostante questo, un’ideale versione prodotta in serie della nuova creazione di Dornier avrebbe potuto idealmente sovvertire tali limiti, grazie a un incremento esponenziale di velocità, maneggevolezza e semplicità d’uso, soprattutto nel caso sempre possibile in cui uno dei motori dovesse subire un’avaria. L’idea era in effetti piuttosto semplice, benché rivoluzionaria e destinata a rimanere del tutto priva d’evoluzioni successive: disporre i due motori usati per far volare l’aeroplano, in questo caso dei massicci e potentissimi Daimler-Benz DB 603 da 1.800 cavalli ciascuno, l’uno davanti, e l’altro dietro alla cabina di pilotaggio, a ridosso di un atipico timone di coda a forma di croce, come l’impennaggio di un dardo scagliato dall’ideale arco di una divinità guerriera. Lo Pfeil, qualche tempo dopo il primo volo ad opera del pilota sperimentale della Henkel, Hans Dieterle, si dimostrò quindi fin da subito dotato di una caratteristica del tutto fuori dal comune: una velocità raggiungibile in volo livellato di 763 Km/h, sensibilmente superiore a quella di qualsiasi altro aereo con motore a pistoni prodotto fino a quel momento, incluso il temibile P-51D Mustang americano, con suoi 703 Km/h. E soprattutto replicabile idealmente in grandi quantità, con un costo unitario e problematiche future sensibilmente inferiori a quelli della “rondine a reazione”, quel già citato Me 262 problematicamente incline a prendere improvvisamente fuoco durante l’utilizzo, senza particolari segnali d’allarme nei confronti del malcapitato pilota. La freccia coi motori in linea dunque, prodotta in varie iterazioni successive fino ai 10 esemplari in configurazione da battaglia completati attorno al maggio del 1944, furono considerati essenziali per lo sforzo bellico da Hitler stesso, che diede l’ordine d’investire considerevoli risorse nella costruzione di un gran numero di tali aeroplani. Il classico caso di troppo tardi, troppo poco, se è vero che l’unico ingaggio di questo aereo registrato dalla storia, se così possiamo giungere a chiamarlo, si sarebbe verificato nell’aprile dell’anno successivo, quando nella parte settentrionale della Germania quando una squadriglia di potenti Hawker Tempest guidati dal pilota francese Pierre Clostermann giunse ad avvistare un singolo esemplare di Pfeil lanciato a gran velocità all’altezza degli alberi, semplicemente troppo rapido perché si potesse anche soltanto pensare d’intercettarlo.
Come aereo, dunque, il Do 335 presentava caratteristiche fuori dal comune ma anche nuove sfide e problematiche del tutto prive di precedenti. Come quella relativa a come permettere al pilota, idealmente, di salvarsi in caso di abbattimento, senza finire per urtare l’elica posta dietro l’abitacolo stesso. Ragion i successivi esemplari prodotti, che si ritengono esser stati, a seconda delle fonti, tra i 30 ed i 40, sarebbero stati dotati di un originale sistema di esplosivi a controllo remoto, capaci di far saltare il motore posteriore e l’intero impennaggio di coda, prima che un seggiolino d’eiezione pneumatico facesse ciò per cui era stato incluso nelle dotazioni di bordo. Se un simile sistema fosse mai stato messo alla prova durante un’effettivo test, non possiamo effettivamente saperlo. Un altra questione a cui prestare la massima attenzione era non tirare eccessivamente la cloche in fase di decollo, non soltanto per la sostanziale fragilità di un carrello particolarmente alto (per ovvie ragioni) ma la facilità con cui l’elica posteriore poteva urtare il suolo e danneggiarsi, anche in presenza dell’apposita pinna verticale inferiore, idealmente funzionale a fornirgli un qualche ragionevole livello di protezione.

La versione biposto del caccia pesante, dotato di seconda cabina di pilotaggio per situazioni d’addestramento, sarebbe stata soprannominata dai suoi utilizzatori tedeschi Ameisenbär (formichiere) a causa del suo lungo muso.

Non è perciò impossibile immaginare, in un ideale ed a quel punto auspicato prolungarsi della guerra in territorio tedesco, scenari in cui il Do 335 avrebbe potuto rendersi un tenace avversario per i piloti alleati, benché ogni ipotesi relativa alle ipotetiche “inversioni di tendenza” fosse necessariamente un sogno di portata pindarica e del tutto privo di alcuna base logica apparente. L’aereo, oltre ad essere particolarmente veloce era infatti anche bene armato, con la versione A-1 dotata di due mitragliatrici MG 151 da 15 mm e un cannone automatico MK 103 da 30 mm, oltre ad un considerevole totale di 1.000 Kg di bombe. Alcune delle interpretazioni successive sulla base delle caratteristiche dell’aeroplano, tuttavia, sono giunte a sospettare una sostanziale instabilità di quest’ultimo in fase di picchiata, rendendone impreciso lo sbarramento di fuoco. In un ipotetico combattimento, inoltre, il fatto che presentasse un parte vitale come uno dei due motori sia davanti che dietro rendeva estremamente difficile per un inseguitore mancare il proprio bersaglio, rendendolo una facile vittima d’artiglieri anche non particolarmente esperti.
Considerazioni meramente speculative, per quella che avrebbe finito per costituire l’ennesima spettacolare arma in grado di cambiare ogni cosa, tranne le condizioni in essere di un mondo totalmente indifferente alla sua presunta magnificenza. Per non parlare dell’onda di marea dei tempi, che poco dopo il termine della guerra avrebbe finito inevitabilmente per accettare l’utilità imprescindibile dei motori a reazione, rendendo conseguentemente inutilizzabile la suggestiva disposizione concepita da Claude Dornier.
Eppure, gli autori di fantascienza e vagheggianti epopee steampunk sono i primi ad affermarlo: da qualche parte, in un tempo possibile, esiste una versione alternativa degli anni ’40 in cui le Wonderwaffe avrebbero potuto fare la differenza. Ed eliche anteriori e posteriori, girando all’unisono ed in direzioni opposte, distorcono agilmente il flusso d’aria inconsapevole del mondo.

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