Dall’Italia alla Cina, l’incredibile palazzo forato di Canton

Potrebbe certamente destare un qualche lecito diritto alla sorpresa, se io vi raccontassi dell’esatta provenienza del Guangzhou Circle Mansion, comunemente detto “il Cerchio alto 33 piani” costruito come sede dello Hong Da Xing Ye Group, importante mercato borsistico di polimeri, materiali plastici e altre industriali amenità. Questo letterale enorme Stargate, o ciambella dai bordi netti e squadrati, che una propensione alla metafora più prettamente italiana potrebbe anche ricondurre alla caramella Polo, il cui incarto forma con scaltrezza quel cilindro in cui lo spazio vuoto equivale a circa un terzo dell’intero insieme. Eppur corrobora, e in qualche modo riconferma, il fascino della particolare forma sempre ricondotta a un senso rinfrescante di soddisfazione. Opinione nazionale quest’ultima, che potremmo definire tanto maggiormente rilevante sulle rive del Fiume delle Perle, di quanto potremmo essere indotti a pensare, poiché un simile costrutto non è in effetti il solito prodotto di un qualche disegnatore del più grande paese comunista al mondo, bensì la risultanza diretta di un lungo processo di studio e approfondimento effettuato da niente meno che Joseph di Pasquale, rinomato architetto nato a Como e residente a Milano, in qualità di fondatore e titolare di uno studio dai notevoli interessi internazionali.
Ed è in effetti la nascita stessa dell’insolito edificio ad assumere i toni sfocati di una vera e propria leggenda. Iniziando dalla presentazione effettuata durante un concorso pubblico risalente al 2009, in occasione del quale i partecipanti di provenienza regionale si presentarono a Canton con i soliti rendering e progetti mentre Di Pasquale, tra i pochi occidentali presenti, ebbe l’idea e l’iniziativa di sfruttare la sua esperienza pregressa nel campo della realizzazione registica di brevi segmenti, durante la sua esperienza di studio alla New York Film Academy. Ed è così che nacque un cortometraggio (purtroppo non pubblicamente reperibile) in cui il pastore Niulang e la tessitrice Zhinu, amanti di una storia folkloristica risalente a un paio di millenni a questa parte, vennero allontanati l’uno dall’altra per l’intervento divino dell’immortale Dea da cui ella discendeva, senza tuttavia riuscire a separarli del tutto. Poiché lui, per ulteriore intercessione sovrannaturale, sarebbe diventato la stella di Altair, mentre lei quella di Vega, e il bue che era solito accompagnarli durante le scampagnate avrebbe ricevuto la forma immateriale dell’enorme via Lattea, il ponte che compare periodicamente per riunire gli innamorati. Così nella versione decisamente più terrena di questo racconto, l’architetto mostrava i due incontrasi sulle rive del principale lungofiume della Cina meridionale, in un abbraccio trasformato nel vasto cerchio della sua proposta, riuscendo a colpire profondamente colpiti gli ufficiali della compagnia. Per una ragione più di qualsiasi altra, che forse non era stata neppure al centro (anche filosoficamente “vuoto”) dell’idea: l’importanza di una tale forma nel contesto Cinese ed in senso più specifico, la zona un tempo occupata dalla prima dinastia imperiale degli Zhou (XII – III secolo, secondo le cronache ufficiali).
Inizierà dunque ad apparire chiaro ciò di cui stiamo parlando: in lingua cinese questa esatta tipologia di cerchio prende il nome di bi (璧) un termine normalmente usato per riferirsi anche alla giada di cui è spesso costituito, come importante emblema portafortuna e letterale strumento di connessione alla divinità. Un’emblema collegato fin da principio alla figura del re, quindi l’imperatore, soprattutto nella sua accezione doppia e sovrapposta esteriormente riconducibile alla cifra del numerale arabo “8”, per una mera coincidenza eternamente suggestivo del concetto di ricchezza in Cina. Siamo quindi di fronte a un edificio straordinariamente propizio, sopratutto nel momento in cui la sua immagine trova l’occasione di riflettersi nelle acque antistanti, le quali dovrebbero idealmente simboleggiare l’arrivo di copiose quantità di denaro. Le stesse monete d’oro dell’epoca pre-moderna, in maniera tutt’altro che casuale, venivano fabbricate in maniera tutt’altro che casuale con un buco in mezzo (serviva in effetti ad infilarci uno spago che agiva in vece del portafogli). Riuscite in effetti ad immaginare un’analogia portatrice di maggiori meriti, per la sede centrale di una qualsivoglia compagnia commerciale?

Leggi tutto

Le case che galleggiano quando si verifica un’inondazione

Come ogni anno, con l’avvicinarsi della stagione delle piogge un senso d’aspettativa e terrore latente inizia a pesare sulla vita quotidiana di coloro che abitano attorno al delta del Mekong. Il grande fiume vietnamita, fornitore di acqua per l’irrigazione fin dall’epoca del ferro e per tutta la durata dell’impero millenario dei Khmer, un tempo associato unicamente a un lungo elenco di connotazioni positive. Ma che oggi, a causa del mutamento climatico e l’aumento di livello delle acque terrestri, è solito dare il benvenuto ai monsoni straripando copiosamente, per andare a sconfinare con estrema prepotenza negli spazi maggiormente cari agli umani. Il che comporta, il più delle volte, gravi conseguenze immediate per le piccole comunità e i villaggi della zona, occupati da una fascia di popolazione che possiede molto poco, in aggiunta alla singola e modesta abitazione familiare. È una terribile incertezza realizzata dalla meteorologia, tutto questo, di un disastro annunciato quanto irrimediabile, in grado non soltanto di avere un prezzo in termini di vite animali ed occasionalmente, persino umane.
Secondo le ultime notizie divulgate dalla GRP (Global Resilience Partnership) una cooperativa internazionale di enti a scopo umanitario finanziata in parte dalla Zurich Foundation, la situazione potrebbe andare presto incontro a un cambiamento positivo. Questo grazie al concorso recentemente indetto per gli enti di ricerca e le aziende interessate, intitolato Water Window Challenge e concepito allo scopo di stanziare 10 milioni di dollari, per un progetto in grado di arginare i danni da inondazione subiti dalle popolazioni svantaggiate di una buona metà del mondo. Missione che parrebbe ormai quasi certamente assegnata alla Prof. Elizabeth English del Water Institute presso l’università di Waterloo, in Canada, per la sua acclarata capacità di trasferire in simili contesti operativi un concetto particolarmente efficace: la cosiddetta casa anfibia o casa (talvolta) galleggiante. Che non è, sia questo immediatamente chiaro, una sorta d’imbarcazione o altro costoso implemento, bensì l’effettiva equivalenza della biblica Arca di Noè, costruita sulla terra ferma per lasciarla, sollevandosi verticalmente, nel momento stesso in cui quest’ultima dovesse trovarsi a scomparire sotto il pelo dell’acqua.
È un approccio semplice, ed al tempo stesso estremamente risolutivo, all’annosa e problematica questione. Non per niente mutuato direttamente da un paese occidentale che le inondazioni ha avuto modo di conoscerle fin troppo bene attraverso il verificarsi della sua storia antica e recente: l’Olanda. Per quanto riguarda la documentazione online in lingua inglese sull’argomento, tutto quello a cui si trova riferimento è l’opera della compagnia di costruzione Dura Vermeer di Dick van Gooswilligen, che attorno al 2005 ebbe modo di costruire un’intero villaggio composto da 37 di questi edifici, presso la piana alluvionale del fiume Maas. E benché qualcosa di simile fosse stato tentato come approccio anche dagli architetti inglesi dello studio londinese Baca, per un’insolita casetta panoramica sulle rive del Tamigi (Richard Coutts, Robert Barker) appare evidente come questa applicazione marcatamente umanitaria del progetto possa rivelarsi nei prossimi anni non soltanto la più meritevole d’encomio, ma anche quella a maggiore diffusione ed utilità risolutiva di un qualsivoglia scopo.
Sopratutto per la capacità, dimostrata dal team degli accademici operativi in-sito, di fornire ai nativi un approccio valido a riconvertire le loro case tradizionali pre-esistenti, facendone un letterale punto d’approdo nel mezzo dell’annunciata tempesta stagionale…

Leggi tutto

L’invenzione norvegese dell’unico skilift per ciclisti al mondo

Quando s’inizia ad andare a lavoro in una grande città, avvengono alcuni cambiamenti negli schemi mentali di chi guida che lo portano, per la prima volta, ad invidiare concetti e situazioni del tutto nuove. È impossibile dimenticare ad esempio la prima volta in cui, bloccati temporaneamente a un semaforo, ci si ritrova affiancati da colui o colei che può definirsi tanto eccezionalmente fortunato/a, da poter vivere il proprio pendolarismo a bordo di un velocipede a pedali. Chiusi nella propria letterale capsula di metallo, dietro un parabrezza raffreddato con l’aria condizionata, rivolgere il proprio sguardo verso chi, di suo conto, possiede ancora il coraggio e il diritto di affrontare il clima, le intemperie, quel salutare sforzo dei muscoli finalizzato a raggiungere una meta (assai meno) distante. Un’eventualità che appare tanto più probabile, quanto maggiormente ridotta è la dimensione dell’agglomerato urbano in cui si trascorrono i lunghi anni della propria vita, nel sempiterno rispetto di una curva probabilistica che non può che diminuire col progressivo aumentare di due fondamentali “D”: la Distanza ed il Dislivello.
Così per chi vive a Trondheim nel Trondelag, regione relativamente popolosa della Norvegia, un’estensione di “appena” 341 Km e circa 187.000 abitanti assicurano a una percentuale relativamente elevata di potersi recare spostare facendo ricorso esclusivamente ai pedali e la propria energia muscolare. Tranne che per un piccolo, importante problema: le pendici dell’alto monte Storeya, che gettando le proprie radici verso la parte occidentale del centro abitato, garantiscono un sollevamento discontinuo del territorio fino al di là del tortuoso fiume Nidelva. Il che colloca, esattamente in corrispondenza del Ponte Vecchio (Gamble Bybro) una ripida salita che conduce, tra tutte le mete possibili, alle porte del quartiere Bakklandet dove si trova l’Università. Cinque metri più in alto di dove si era partiti. Ora quando si è studenti o insegnanti in un centro abitato di dimensioni medio-piccole, molto spesso la bicicletta diventa un mezzo talmente pratico e conveniente da risultare praticamente obbligato. Se non fosse per quel singolo tratto di strada il quale, ogni giorno, portava i percorritori a raggiungere l’obiettivo con un residuo senso d’affanno e latente sfinimento.
Fortuna volle tuttavia che, nei primi anni ’90, questo stesso tragitto facesse anche parte dell’esperienza personale di Jarle Wanvik, fondatore e presidente della società ingegneristica Design Management AS, il quale aveva un’idea e a conti fatti, il coraggio di arrivare a vederla realizzata. Ragione per cui, stanco per l’ennesima sudata primaverile o estiva (dopo tutto, da queste parti possono fare FINO A 18-20 gradi!) decise di andare dal sindaco o il suo assessore di turno, proponendo ciò che aveva prodotto l’ultima volta che si era seduto al tavolo da disegno: una sorta di nastro trasportatore da seppellire sotto il cemento cittadino, finalizzato a far muovere un lungo susseguirsi di piccoli vagoni. Alcuni dei quali dotati, ad intervalli regolari, di quello che poteva essere soltanto un appoggio per piedi umani. Nasceva così la prima versione di Trampe, ascensore per biciclette, dispositivo capace non tanto di abbreviare le distanze di un quotidiano tragitto, quanto di eliminare, letteralmente, l’ostacolo che riusciva in qualche modo a tagliarlo in due. A patto di aver richiesto al comune l’apposita scheda perforata, dal costo che possiamo soltanto presumere assai ragionevole visto che dal 2013, come parte di una manovra inclusiva e democratica, è stato completamente ridotto a zero.

Leggi tutto

La macchina capace di trasformare in musica 2 Km di filo

Mentre l’odio dell’umanità nel confronto dei propri vicini stava raggiungendo l’apice, con l’Europa semi-distrutta, il Pacifico in fiamme e le moltitudini soffrivano massacri inusitati a causa di questo o quell’ideale, come nell’ultima strofa di un poema mitologico anche i fantasmi vennero messi in condizione di dire la loro. I primi furono gli Alleati, con la costituzione nel 1942 della cosiddetta Ghost Army, un gruppo di forze speciali americane incaricate di far comparire eserciti immaginari sulle mappe logistiche dei propri nemici. Carri armati gonfiabili, manichini e i suoni inconfondibili della guerra, riprodotti attraverso dei grossi altoparlanti amplificati. Mentre dall’altra parte delle barricate del Reich, con l’evidente realizzazione che la guerra non sarebbe stata facile né breve fino al punto a cui era stata fin’ora pubblicizzata, i discorsi del führer stavano diventando sempre più frequenti. Ma ciò che riusciva, più di ogni altra cosa, a coinvolgere il popolo era come un simile personaggio riuscisse a parlare quasi contemporaneamente in luoghi estremamente distanti, lasciando sospettare che avesse in qualche modo guadagnato il dono dell’ubiquità.
Entrambe situazioni che sarebbero state assai difficili da decifrare per i rispettivi ufficiali di intelligence, se ciascuna delle due controparti non avesse potuto disporre di un tipo di stregoneria speculare, parimenti finalizzata all’immagazzinamento e riproduzione elettronica del suono. O per essere più precisi, niente che assomigliasse direttamente al vecchio sistema inventato da Thomas Edison, il fonografo risalente al 1877 coi suoi grossi e delicati cilindri di cera, né tanto meno l’alternativa piatta e larga in vinile. Perché dico, ve l’immaginate un soldato col giradischi o il grammofono, in marcia tra i pericoli del campo di battaglia? No, ciò che gli schieramenti avevano riscoperto, portandolo fino alle sue più estreme conseguenze attraverso strade sostanzialmente diverse, era il segreto per cristallizzare la voce (o i suoni) attraverso il magnetismo. L’evoluzione diretta di quanto messo assieme, per la prima volta, da un’altra figura di scienziato assai meno noto alle a livello internazionale, forse perché di provenienza “soltanto” europea: Valdemar Poulsen di Copenaghen, con il suo rivoluzionario telegraphone del 1898, quello che viene generalmente descritto dalle cronache ingegneristiche come il registratore a filo.
Strade alternative o possibili della storia, come narrato dal tipo più classico di ucronia. Che cosa sarebbe successo se gli Alleati avessero vinto la guerra… Della registrazione audio? Già perché dal punto di vista tecnologico, c’era in effetti molto che la Germania potesse insegnare al resto del mondo, se soltanto non avesse avuto una leadership tanto ferocemente nazionalista, ed il sistema del registratore magnetico impiegato dagli agenti dello Zio Sam era di un tipo che oggi può far sorridere, per il suo funzionamento arcaico e limitato. Antecedente, persino, all’invenzione del sistema superiore del nastro. Come appare più che mai chiaro da questa dimostrazione pratica ad opera dell’appassionato di elettronica vintage Techmoan, già autore d’innumerevoli brevi documentari sulla storia moderna della tecnologia. Il quale sembrerebbe aver ritrovato dopo “oltre due anni di ricerche” un esemplare perfettamente funzionante di Webster-Chicago modello 18 risalente alla metà degli anni ’50. Nient’altro che la versione perfezionata, e ad uso preferibilmente civile, di quanto aveva saputo dimostrarsi strategicamente utile nel corso della seconda guerra mondiale. Ed emerge chiaramente dopo pochi significativi minuti, quel senso di trovarsi di fronte a un letterale capolavoro d’ingegneria e design, capace di lasciare il segno nel corso della sua epoca di commercializzazione almeno quanto sono riusciti a farlo in epoca più recente il CD-Rom ed il formato digitale MP3. Se soltanto non fosse stato importato subito dopo, tra gli altri trofei di guerra, l’approccio d’un sistema innegabilmente migliore…

Leggi tutto