Il vortice ingegnoso che corrobora e infeltrisce la lana dell’Est Europa

L’invenzione della lavatrice ha per lungo tempo costituito una di quelle meraviglie della tecnica capaci di cambiare la società in maniera trasversale ma profonda, liberando le persone dalla reiterata incombenza di una serie di gesti e operazioni particolarmente ripetitive, inclusa la trasferta fino al torrente o fiume più vicino. E ciò senza neppure calcolare il tipo di problematiche che tendevano a derivare dal vecchio metodo, con la contaminazione arrecata da sostanze saponate, dalle origini più o meno naturali, liberate in quantità commisurata dalle comunità crescenti del mondo civilizzato contemporaneo. Ma se volessimo effettivamente risalire all’invenzione di un simile strumento, anche tralasciando il requisito caratterizzante dell’elettricità, il vapore o altro ausilio energizzante utilizzabile a comando, difficilmente potremmo andare oltre l’anno 1752, con il primo brevetto del professore, naturalista ed ingegnere tedesco Jacob Christian Schäffer, consistente essenzialmente in un barile fornito di apparecchiatura di mescolamento con pratica maniglia disposta verticalmente. Sottintendendo un risultato ragionevolmente efficace, sebbene derivante dall’investimento di copioso olio di gomito e minuti ed ore delle proprie preziosissime giornate su questa Terra. Un punto debole apparentemente imprescindibile, finché non si prende come riferimento un singolare approccio professionale dell’industria tessile della Romania, i cui produttori avevano scoperto e utilizzato, a quel punto ormai da secoli, il vantaggio offerto da una delle forze maggiormente universali a questo mondo, già studiata dai filosofi dell’Antica Grecia: la tendenza delle acque a scorrere verso il basso, attirate dalla gravità terrestre. Gravità, ne avete mai sentito parlare? Come quella veicolata in modo partecipativo, tramite l’impiego di canali e scivoli degni di una fontana rinascimentale, all’esterno dell’edificio principale del mulino meccanizzato di La Vâltori nelle vicinanze del villaggio di Brașov, presso il corso del fiume Lisa nel bel mezzo della Transilvania. Con una scena diventata virale su Internet negli ultimi giorni, forse tramite una gif animata condivisa su Reddit, in cui vengono mostrati alcuni abiti o coperte gettate senza troppe cerimonie all’interno del recipiente di assi di legno in fondo al suddetto sentiero delle tubazioni. Dove, per l’effetto di una dimensione attentamente calibrata, ruotano spontaneamente ancora e ancora, mentre l’acqua viene rimpiazzata e defluisce con un flusso continuo. Coronamento posto al termine di una serie di passaggi degni della migliore tecnologia in stile Rube Goldberg, con la lana pronta per la tessitura che viene districata automaticamente tramite un rullo sospeso sopra un letto di chiodi. Capite le reali implicazioni di tutto questo? Siamo in un’epoca in cui si studia il calcolo matematico e la programmazione informatica. Eppure sono pronto a scommettere che la stragrande maggioranza degli individui iscritti al Mensa International, posti dinnanzi alla saliente problematica, faticherebbero ad elaborare una soluzione altrettanto efficiente. Questo perché la sapienza popolare, come una creatura frutto dell’evoluzione terrestre, nasce e cresce per il tramite delle generazioni, rafforzandosi grazie al passaparola fino all’eliminazione pressoché totale di qualsiasi inefficienza o principio di spreco. Poiché è importante sottolinearlo: di “lavatrici” come questa, l’intera Romania rurale riesce ad esserne letteralmente piena…

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Anomalia orografica dell’enorme cumulo di abiti nel deserto dell’Atacama

Lui umile impiegato, lei casalinga. Tre figli. Nella vita quotidiana degli Anderson, la soluzione semplice della questione tessile di ogni famiglia. Per cui Benjamin, figlio maggiore, ricevette abiti nuovi ogni qual volta se ne presentava la necessità, indossandoli per tutto il corso della prima, seconda e terza elementare. Finché il bisogno condiviso a distanza di tempo dal più giovane Owen, non avrebbe portato i loro genitori ad acquistare una mera parte del suo vestiario, facendo affidamento sul principio secondo cui quello che andava bene per il fratello maggiore, poteva ancora servire al suo scopo nella vita del secondo. Gli avanzi, nel frattempo, troppo vecchi o rovinati, venivano dati in beneficienza. Ma sarebbe stato il più giovane abitante della casa, il fratellino Joseph, a pescare la pagliuzza meno conveniente in questa ruota ricorrente del Fato, potendo usare soltanto i golf natalizi, t-shirt della squadra del cuore, calzoni o giacche che entrambi i suoi fratelli, anni prima, avevano già portato. Egli non avrebbe mai potuto scegliere secondo la sua preferenza… Né mettere piede all’interno di un negozio d’abbigliamento. Così che, stanco infine di dover sottostare alla tirannica imposizione, iniziò a costituire un grande cumulo in giardino con le cose che non voleva. Anno dopo anno, il cumulo cresceva finché un giorno, esso diventò più alto della recinzione ai confini casa. Fu soltanto allora che la gente iniziò a notarlo e puntare il dito. “Irresponsabile! Non pensi all’ambiente? Sei come un paese in via di sviluppo del continente Sudamericano!”
Strano come la vita imiti… La vita ma su scala maggiore, evidenziando i corsi e ricorsi della Storia in questi strani giorni contemporanei; per cui l’unica ragione per produrre qualsiasi cosa, nell’imprescindibile realtà dei fatti, è trasformarla in occasione di profitto individuale e comunitario, preferibilmente a vantaggio di un’ampia quantità di persone. Pensate, per esempio, alla fiorente industria della moda rapida, per cui quello che compriamo al fine d’indossarlo dura appena 6 o 12 mesi, prima di essere del tutto soverchiato da nuove versioni degli stessi identici indumenti. Cos’è dopo tutto una scarpa, cosa un paio di jeans oppure una felpa con il cappuccio, se una trascurabile serie di presupposti, fatti convergere nella vincente commistione di necessità e virtù. La seconda intesa come il merito del tutto soggettivo di avere per il semplice gusto di avere, ovvero avere quello che permette di sentirsi in qualche modo superiori, o maggiormente benestanti, della moltitudine che circonda nell’umano progredire dei giorni. Perciò non vi è alcun dubbio, in merito all’identità dei tre fratelli: Benjamin è il primo mondo o l’attuale “blocco” al vertice della piramide, inteso come Europa Occidentale, Stati Uniti, le grandi città Australiane ed una piccola (relativamente?) parte d’Asia. Owen è la Russia, la Cina rurale, l’Indonesia… E Joseph, naturalmente, l’Africa ed il Sudamerica, volendo generalizzare. Per cui l’esatta posizione di quel cumulo, in effetti replicato in vari luoghi all’interno di tali due masse continentali, possiamo oggi ricondurla ad un notevole altipiano noto come Alto Hospicio, poco distante dalla città costiera di Iquique, nella parte settentrionale del paese. Dove le montagne un tempo aride che fanno da sfondo ad ogni inquadratura paesaggistica verso l’entroterra di quel paese, si colorano del più improbabile arcobaleno variopinto e fuori luogo, acceso, imprevedibile, spesso sbiadito dalla forza instancabile del Sole. Ma mai infranto o disgregato totalmente, in primo luogo perché qui non piove quasi mai. E secondariamente, perché c’è un grande ricambio dei suoi singoli elementi costituenti. Ciascuno derivante da una differente storia pregressa di produzione, acquisto, invecchiamento ed infine umile beneficienza. Per il più valido e apprezzato beneficio delle moltitudini… Eccome.

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La Tokyo imprevedibile delle ragazze di Harajuku

Decora Girls
Shigoto, shigoto; nakama, nakama. Devi lavorare, ganbare! Impegnarti, onorare i tuoi insegnanti, la famiglia, i genitori. Dal momento in cui una bambina, o un bambino giapponese giungono alla scuola media, spesso si attiva un meccanismo, fatto di aspettative sociali, convenzioni, lo stesso stile di vita imposto dalla collettività, che mira a condurre queste piccole persone lungo una strada attentamente definita, come quella di un moderno samurai. Non per niente, coloro che falliscono gli esami di ammissione e devono studiare in proprio, vengono chiamati in via informale rōnin, alla stregua dei guerrieri itineranti dell’epoca medievale e pre-moderna, che rimasti senza un clan, dovevano vagare per il paese come gli spiriti dei trapassati, soffrendo quotidianamente la fame, la solitudine, la mancanza di una posizione chiara. E ripensando alla più celebre vicenda collegata nell’immaginario collettivo alla questione qui citata, sarebbe difficile non citare ciò che fecero, prima dell’ultima battaglia, i Sette Samurai di Kurosawa: prima di rischiare la propria vita per difendere un villaggio, occorre aver dipinto una bandiera! Sulla quale, sei cerchietti ed un triangolo, perché Kikuchiyo, dopo tutto, rimaneva un contadino. Ma la costituzione del gruppo supera i confini imposti dalla società. Perché permette, all’individuo, di trovare validato il suo pensiero, in un qualsivoglia modo che la grande società non può, o non vuole fare. Naturalmente, perché avvenga un’integrazione pari a quella dei compagni che annientarono i briganti del riso, è vantaggioso cancellare totalmente le reciproche distinzioni, di carattere e/o predisposizioni. E quale miglior modo, per farlo, che indossare un’uniforme?
Il Giappone, che ama la moda giovanile almeno quanto gli altri paesi del primo mondo, in cui tale forma d’espressione è per lo meno possibile in potenza, l’ha sempre fatto in modo trasversale, obliquo e fuori dagli schemi. Ciò perché, come sappiamo da infiniti manga, anime & intrattenimenti interattivi, non importa che frequenti un istituto pubblico o privato: se sei un uomo, dovrai vestire con la giacca militare e i pantaloni neri, in uno stile mai cambiato fin dall’epoca della riforma Meiji. Se invece sei una donna, ancora meglio, c’è già pronta per te la gonna quadri alle ginocchia, la camicia bianca, il soprabito alla marinara. E non scordarti il cravattino! Seifuku (制服) questo è il nome. Si tratta di un punto d’orgoglio, non un obbligo. O così, del resto, ci viene fatto credere con enfasi e completa convinzione. Tu sei quello che vesti, ed in funzione di quello che sei, diventi forti. Ciò è letteralmente la premessa, ad esempio, della recente quanto rinomata serie di Hiroyuki Imaishi, Kill la Kill. In cui i diversi club di un apocalittico liceo futuro, a seconda del vestiario intriso di un potere misterioso, acquisivano poteri oltre l’umano. Nel Giappone tangibile del sushi e sashimono, naturalmente, questo non succede. Ma il senso d’identità, rafforzato nello spirito samuraico del vestire, resta un punto fermo a cui si appoggia il metodo delle generazioni.
Una questione tanto efficacemente messa in mostra nel presente video del canale Refinery29, in cui la conduttrice Asha Leo viaggia fino a un polo fondamentale del mondo del vestire tokyoita, il celeberrimo quartiere di Harajuku. Dove incontra, a fargli da Virgilio, la giovane stilista e condottiera Kurebayashi, che l’introduce al mondo variopinto ed improbabile del Decora. Uno stile ultra-moderno, evolutosi in questi anni a partire da un trend degli ultimi anni ’90, che consisteva nel connotare un abbigliamento relativamente sobrio con una ricca collezione di accessori, fermagli, borse, pupazzetti e così via. Che grazie all’applicazione reiterata è diventato infine, come spesso capita, qualcosa di davvero estremo.

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