La Tokyo imprevedibile delle ragazze di Harajuku

Decora Girls
Shigoto, shigoto; nakama, nakama. Devi lavorare, ganbare! Impegnarti, onorare i tuoi insegnanti, la famiglia, i genitori. Dal momento in cui una bambina, o un bambino giapponese giungono alla scuola media, spesso si attiva un meccanismo, fatto di aspettative sociali, convenzioni, lo stesso stile di vita imposto dalla collettività, che mira a condurre queste piccole persone lungo una strada attentamente definita, come quella di un moderno samurai. Non per niente, coloro che falliscono gli esami di ammissione e devono studiare in proprio, vengono chiamati in via informale rōnin, alla stregua dei guerrieri itineranti dell’epoca medievale e pre-moderna, che rimasti senza un clan, dovevano vagare per il paese come gli spiriti dei trapassati, soffrendo quotidianamente la fame, la solitudine, la mancanza di una posizione chiara. E ripensando alla più celebre vicenda collegata nell’immaginario collettivo alla questione qui citata, sarebbe difficile non citare ciò che fecero, prima dell’ultima battaglia, i Sette Samurai di Kurosawa: prima di rischiare la propria vita per difendere un villaggio, occorre aver dipinto una bandiera! Sulla quale, sei cerchietti ed un triangolo, perché Kikuchiyo, dopo tutto, rimaneva un contadino. Ma la costituzione del gruppo supera i confini imposti dalla società. Perché permette, all’individuo, di trovare validato il suo pensiero, in un qualsivoglia modo che la grande società non può, o non vuole fare. Naturalmente, perché avvenga un’integrazione pari a quella dei compagni che annientarono i briganti del riso, è vantaggioso cancellare totalmente le reciproche distinzioni, di carattere e/o predisposizioni. E quale miglior modo, per farlo, che indossare un’uniforme?
Il Giappone, che ama la moda giovanile almeno quanto gli altri paesi del primo mondo, in cui tale forma d’espressione è per lo meno possibile in potenza, l’ha sempre fatto in modo trasversale, obliquo e fuori dagli schemi. Ciò perché, come sappiamo da infiniti manga, anime & intrattenimenti interattivi, non importa che frequenti un istituto pubblico o privato: se sei un uomo, dovrai vestire con la giacca militare e i pantaloni neri, in uno stile mai cambiato fin dall’epoca della riforma Meiji. Se invece sei una donna, ancora meglio, c’è già pronta per te la gonna quadri alle ginocchia, la camicia bianca, il soprabito alla marinara. E non scordarti il cravattino! Seifuku (制服) questo è il nome. Si tratta di un punto d’orgoglio, non un obbligo. O così, del resto, ci viene fatto credere con enfasi e completa convinzione. Tu sei quello che vesti, ed in funzione di quello che sei, diventi forti. Ciò è letteralmente la premessa, ad esempio, della recente quanto rinomata serie di Hiroyuki Imaishi, Kill la Kill. In cui i diversi club di un apocalittico liceo futuro, a seconda del vestiario intriso di un potere misterioso, acquisivano poteri oltre l’umano. Nel Giappone tangibile del sushi e sashimono, naturalmente, questo non succede. Ma il senso d’identità, rafforzato nello spirito samuraico del vestire, resta un punto fermo a cui si appoggia il metodo delle generazioni.
Una questione tanto efficacemente messa in mostra nel presente video del canale Refinery29, in cui la conduttrice Asha Leo viaggia fino a un polo fondamentale del mondo del vestire tokyoita, il celeberrimo quartiere di Harajuku. Dove incontra, a fargli da Virgilio, la giovane stilista e condottiera Kurebayashi, che l’introduce al mondo variopinto ed improbabile del Decora. Uno stile ultra-moderno, evolutosi in questi anni a partire da un trend degli ultimi anni ’90, che consisteva nel connotare un abbigliamento relativamente sobrio con una ricca collezione di accessori, fermagli, borse, pupazzetti e così via. Che grazie all’applicazione reiterata è diventato infine, come spesso capita, qualcosa di davvero estremo.

Esiste da tempo immemore, al centro del concetto stesso di buon gusto giapponese, un concetto che può essere tradotto con il termine “armonia”. Secondo cui niente può raggiungere la vera eccellenza, senza il giusto grado di sobrietà: per questo, i santuari dello shinto e i templi buddhisti devono essere attraenti, ma non eccessivamente sfarzosi. La casa da tè un ambiente attentamente calibrato, con opere d’arte disposte ad arricchire l’esperienza della comunione con il mondo superiore, ma comunque, inevitabilmente, semi-vuota. Il troppo è inopportuno. Persino un vialetto che sia stato completamente privato delle foglie morte, risulta estremamente poco interessante. Proprio in risposta questo, una vera ragazza Decora dovrebbe indossare almeno una dozzina di spillette con curiosi personaggi, una decina abbondante di fiocchetti, perline colorate ai polsi, al collo, alle caviglie, tingersi i capelli ed indossare sciarpe, turbanti, cappellini con le orecchie. E poi vestirsi a strati, con un primo che è magari una maglietta gialla, sopra la quale trova posto un gilé viola, ricoperto, a sua volta, da una mantellina a strisce verdi e bianche. Davvero ciò che torna in mente, è la panoplia protettiva del sempre temibile guerriero a cavallo, colui che unificò il paese tra gli scoppi dei cannoni e i colpi delle lance sotto l’ombra dei cespugli minacciosi. Sempre, così terribilmente, carichi d’invidia…

Shironuri Girls
Nel XIX secolo, Kawanabe Kyōsai realizzò la serie di stampe dedicata alla leggendaria Hyakki Yagyō, la parata dei mostri notturni condotta dal loro supremo signore, un vecchio dalla testa enorme dal nome di Nurarihyon. Probabilmente egli non immaginava in che maniera, nel suo remoto futuro, tale essenza si sarebbe trasformata in verità. La corrente delle Shironuri (“dipinte di bianco”) è un’applicazione della prassi delle geisha, che si truccano per dare un risalto ultramondano al proprio volto.

Naturalmente, Decora non è che una delle molte possibilità a disposizione. Se c’è una cosa che viene offerta, dal semplice contesto pregresso, alle giovani ed ai giovani giapponesi in cerca di un valido stendardo d’appartenenza, è la possibilità di scelta. Più per impossibilità di impedirne la presenza manifesta, che per gentile concessione degli “adulti”. Una delle correnti più interessanti e di vecchia data, assieme a quella ormai arcinota delle Lolita (gotiche o d’altro tipo) è lo stile multiforme e variegato delle gyaru (dal termine inglese girls). Ciascuna appartenente a questo gruppo, contrariamente alle ragazze delle alternative citate fino ad ora, non rifiuta o nasconde la propria sensualità, ma piuttosto la riconosce e tenta di enfatizzarla attraverso una variegata serie di espedienti. Le gyaru, normalmente, seguono pedissequamente le ultime mode provenienti dagli Stati Uniti e dall’Europa, benché non disdegnino l’impiego di accessori fuori dal contesto, come braccialetti hawaiani, sarong o improbabili fermagli floreali. Un sottogenere di questo possente corpo d’armata, piuttosto popolare negli ultimi anni, è riconoscibile nello stile del ganguro (contrazione di gangankuro – ガンガン黒, estremamente scuro) le cui esponenti di spicco tendono a spendere una fortuna nei solarium, per scurire all’inverosimile la propria pelle grazie all’abbronzatura. Costoro, quindi, indossano un trucco pesante e molto chiaro, per creare una sorta di spiazzante ragione di contrasto. Nel caso più diametralmente opposto alla convenzione, queste gyaru vengono occasionalmente definite Yamanba, dal nome della strega di montagna che allevò il bimbo forzuto Kintarō, destinato a diventare un celebre guerriero al servizio del clan dei Minamoto.
In tali casi, la loro tenuta include capelli tinti nei colori del neon e acconciati in stile rasta, cerchiatura argentata o color oro degli occhi, pupazzi di peluche a profusione e fiori d’ibisco. Gli accessori di tipo polinesiano in questo caso, tuttavia, risultano meno frequenti. Peccato.

Bosozoku Girls
Non tutte le cattive ragazze diventano Bōsōzoku, ma tutte le Bōsōzoku diventano cattive ragazze. È proprio insito nella categoria. Certo, paragonare lo stile femmineo delle gang motociclistiche a quello delle ragazze in età scolare può apparire inappropriato. Ma considerate come, molto spesso e in valide maniere, siano proprio le seconde ad imitare le prime.

Chi visita in prima persona il quartiere di Harajuku, sulla linea ferroviaria di Yamanote, a Shibuya, dove in un tempo ormai remoto vivevano i servitori più poveri dello shogunato, tende a riportare un’impressione di dislocazione nello spazio-tempo e nel contesto situazionale. In questa zona, resa un simbolo delle mode di strada nipponiche anche grazie all’opera di riviste come l’intramontabile FRUiTS, il cui editore viene visitato non a caso da Asha Leo nel video di apertura, popolose tribù dei tipi più diversi si incrociano tra loro, salutandosi a vicenda e senza nessun tipo di conflitto. Sembra quasi una positiva modificazione del concetto delle gang giovanili, che private della possibilità di trasgredire in modo deleterio, con droghe, estorsione o rapine, si sono finalmente modernizzate, scegliendo di produrre un qualcosa che comunque, nonostante le potenziali critiche dei grandi vecchi del settore, creature mitiche quanto gli arhat buddhisti, è in qualche sottile modo, pura arte. Del tipo più prezioso, perché vissuto nel costante quotidiano. Nessuno può davvero negarlo: guardate il successo internazionale di un artista come Takashi Murakami, che allo stile della controcultura giovanile si è ispirato, nei suoi trascorsi, in molte valide maniere…
Ed è veramente curioso, e in qualche maniera deludente, vedere come fra tutte le multiformi maniere creative di abbigliarsi del mondo dei giovani giapponesi, l’unico ad aver attecchito fuori dai confini dell’arcipelago sia quello del cosplay (コスプレ). Che consiste, essenzialmente, nel copiare in modo fedele l’estetica dei personaggi della fantasia commercializzata, siano questi protagonisti dell’ennesimo fumetto, film o videogioco. Quando vestirsi da Superman, Batman, One Punch Man o Ezio Auditore da Firenze, non è molto più creativo che acquistare l’ultimo LP di una boyband, per ascoltarlo con gli amici.
Mentre gli strumenti, a questo capo dell’Eurasia come lì nella distante patria della ribellione variopinta, sono sempre pienamente a disposizione. Manca soltanto, in ultima analisi, chi abbia voglia di suonarli.

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