Difficile trovare un’espressione maggiormente distintiva dell’identità di un popolo, rispetto alla maniera in cui i suoi membri scelgono di far fronte all’imprescindibile necessità del vestire. Un’esigenza che si estende per un paese dal clima tropicale, umido ed affetto dalla periodico ritorno dei monsoni all’utilizzo di un sistema particolarmente valido per proteggere la testa ed il volto, dall’inclemente sole di mezzogiorno, così come i sostanziali centimetri di pioggia che si accumulano con insistenza poco più che settimanale. Ragion per cui nella pregressa esperienza di vita delle diversificate etnie filippine, quasi ogni regione, ciascun singolo distretto ha sempre avuto una premura di distinguersi per quanto riguarda lo stile e l’ornamento dei cappelli di tipo salakot, tanto importanti in questo luogo quanto i soprabiti e le giacche dei paesi freddi, o le pelli di leoni ed altre belve nei remoti territori della savana. Con la sostanziale differenza, frutto del contesto ecologico ma anche l’eredità dell’ancestrale animismo isolano, che l’essenziale fonte in termini di materiali riesce ad essere di un tipo prevalentemente vegetale. Come nel caso del talugong fatto con le foglie di palma, il Sarùk in rattan finemente intrecciato con l’esterno in cotone, lo hallidung coperto di un resina al fine di renderlo impermeabile. O ancora il il riconoscibile kattukong degli Ilocano delle alture settentrionali, vietato per un lungo periodo come simbolo di ribellione dagli europei ma paradossalmente, oggi ritenuto uno dei principali ispiratori dell’iconico casco da esploratore o pith helmet dell’Inghilterra di epoca coloniale. Questo per la forma bombata e l’ampia tesa solida, frutto nel caso dell’originale asiatico delle specifiche circostanze della sua creazione. Giacché un simile implemento viene in genere costruito, tra tutte le alternative possibili, a partire da una tondeggiante cucurbitacea definita localmente tabungaw, la zucca che possiede il nome scientifico di Lagenaria siceraria, comunemente associata in tutta l’Asia alla propria funzione ideale di bottiglia per contenere bevande alcoliche di varia natura. Ma che lasciata crescere in maniera maggiormente proporzionale fino alla maturità, tende a disegnare con il suo profilo uno sferoide perfetto, tanto capace d’ispirare l’immediatamente riconoscibile forma della testa umana. Da qui l’iniziativa vecchia di svariati secoli, consistente nel tagliare a metà il frutto e foderarne laboriosamente la parte interna, così da renderlo perfettamente funzionale all’impiego come tipico indumento locale. Una preziosa tecnica ormai diventata rara, essendo in modo drammaticamente celebre soprattutto l’esclusivo appannaggio di una singola e ormai celebre figura professionale…
Costituendo oggi probabilmente uno degli ilocani più famosi al mondo, Teofilo Garcia è l’esperto artigiano per vocazione, nato nel 1941 ed insignito all’età di 71 anni del prestigioso titolo di Gawad Manlilikha ng Bayan (GAMABA) ovvero Tesoro Nazionale Vivente. Una qualifica non così infrequente nei paesi asiatici, per tutti quegli individui che si sono dimostrati in grado di mantenere viva una parte del cospicuo patrimonio creativo, come principio necessario alla produzione di manufatti strettamente interconnessi all’eredità dell’uno o l’altro gruppo sociale. Un traguardo raggiunto in parte anche grazie alla natura vantaggiosa del suo prodotto, in grado di raggiungere il più alto grado di esposizione e visibilità facendo esattamente ciò per cui era stato concepito: indossarlo semplicemente ogni giorno, mentre ci si reca a svolgere le proprie mansioni all’interno di un luogo ragionevolmente affollato. Per una vista diventata attraverso le decadi comune nella zona del villaggio di San Quintin presso l’isola di Luzon, fin da quanto l’intera comunità iniziò a rendersi conto di come i kattukong di Garcia fossero di gran lunga i più lucidi, meglio rifiniti ed esteticamente appaganti che avessero mai visto prima di allora. Un traguardo notevole e forse altrettanto inaspettato, per colui che aveva appreso nella maniera tipica ad assemblarli in giovane età, così come suo padre e suo nonno avevano fatto prima di allora. Un processo che necessità di notevole pazienza ed attenzione ai dettagli, dalla piantumazione delle zucche tabungaw all’inizio di giugno durante l’apice della stagione piovosa. Per poi procedere a raccoglierle tra febbraio e marzo, previa preparazione di uno spazio appropriato per un periodo variabile da qualche settimana a svariati mesi, sulla base dello spessore e qualità del guscio esterno del prezioso tesoro vegetale. Un tempo durante il quale l’effettivo svuotamento della polpa avviene grazie all’efficiente partecipazione di aiutanti biologici, le formiche fatte entrare da appositi fori per lasciare intatta soltanto la dura scorza esterna, destinata a costituire la struttura del copricapo. Segue il delicato taglio e conseguente lisciatura con addizionale applicazione di un lucido protettivo nella parte esterna, sebbene eventuali irregolarità della scorza vengano generalmente lasciate intatte, così da enfatizzare la creazione naturalmente istrionica del pezzo finale. Molti artigiani lasciano, tra cui lo stesso Garcia, scelgono a questo punto di lasciare intatto anche il picciolo sulla sommità, indotto conseguentemente ad assumere il ruolo mantenuto da piume, nastri o punte metalliche decorative nel caso di adiacenti tradizioni dell’antico cappello salakot. Ultimo passaggio, ma non certo in termini d’importanza, è a questo punto l’inclusione dell’imbottitura interna ricavata tramite l’impiego di rattan intrecciato, prassi che implica essa stessa una perizia niente affatto trascurabile, visto l’impiego degli schemi geometrici esteriormente appagati preferiti dai più esperti cappellai locali.
Solido e resistente, l’oggetto completato rappresenta un esempio di perizia oriunda che persino l’odierna tecnologia industriale fatica a riprodurre. Con celebri esempi di kattukong rimasti perfettamente integri al passaggio da una generazione verso quella successiva, previa implementazione di adeguate misure di conservazione attraverso il passaggio delle decadi ulteriori. Una durevolezza che, paradossalmente, potrebbe esulare dal futuro prossimo di questa preziosa tecnica creativa, vista la rarità crescente di persone inclini ad imitare l’arte di Garcia, sebbene proprio quest’ultimo sia celebre per i suoi frequenti seminari e le lezioni tenute presso gli istituti scolastici della zona di Cagayan, nel tentativo d’ispirare una nuova generazione di potenziali eredi creativi. Con un successo variabile, nonché condizionato dalla crescente mancanza di materia prima, data l’espansione progressiva dei centri urbani e conseguente riduzione degli spazi disponibili per la coltivazione agricola delle cucurbitacee.
Con l’unica parziale consolazione che un domani potremo fare affidamento, per lo meno, sulle molte fotografie e testimonianze videografiche di quanto avremmo altrimenti dimenticato. Nella fievole speranza che per quanto concerne la tradizione di pregevoli cappelli ed altro, in molti diversi luoghi da una parte all’altra del pianeta, le cose possano andare a finire diversamente.