Il nuovo castello dell’arte contemporanea, una torre d’acciaio nel cuore della Provenza

L’idea che un centro abitato popolato da “appena” 50.000 abitanti potesse possedere un castello oppure una cattedrale appariva meno stridente nell’epoca medievale, o ancor prima della caduta degli antichi imperi, e non soltanto per le diverse scale di riferimento in tema di densità demografica e tutto ciò che questo comporta. Per cui il committente, detentore di un potere temporale o religioso, decretava il desiderio che un qualcosa di monumentale venisse creato a partire dal nulla. Gli stessi lavoranti, reclutati al fine di costruirlo, si sarebbero poi stabiliti alla sua ombra, dando inizio ai presupposti di un convivere sereno e produttivo, variabilmente instradato verso la costituzione di una realtà urbanistica o persino metropolitana. E nessuno potrebbe mai dubitare, a tal proposito, che la cittadina costiera del meridione francese possa essere stato questo, nel corso dei suoi quasi 2.500 anni di storia a partire dall’insediamento celtico e fino alla trasformazione in capitale della provincia Romana della Gallia. Eppure oggi, dinnanzi all’imponente e ottimamente conservata arena di quei distanti giorni, un diverso tipo di cilindro sorge ai margini del centro storico dove s’incontrano le strade locali: un oggetto di vetro e metallo, sormontato dalla doppia forma di un cuboide monolitico e quello che potrebbe sembrare a tutti gli effetti un foglio d’alluminio accartocciato da un’aspirante artista le cui spalle raggiungono le cime delle montagne. Ma è con l’incedere del giorno, e soprattutto l’ora del tramonto, che un simile edificio (perché è di questo che si tratta) tende ad assumere l’aspetto desiderato dal suo creatore, riflettendo ed instradando la luce solare in una pletora di forme dall’aspetto fantastico e cangiante. Il profeta canadese dei rivestimenti di lamiera e delle recinzioni di filo metallico, più comunemente noto al mondo col suo nome di battesimo: Frank Gehry. Architetto sempre più vicino al secolo di vita ogni giorno che passa, il cui amore pluri-decennale per l’arte scultorea, unito alla cognizione non del tutto priva di fondamento che il “95% dell’architettura prodotta al giorno d’oggi è una Mer*a” sembrerebbero averlo portato sulla strada stranamente avanguardista del cosiddetto Decostruttivismo. Una “corrente”, se così vogliamo definirla, creata proprio con lo scopo di classificare colui e coloro che non hanno il desiderio di essere inseriti all’interno di una categoria, perseguendo la liberazione dalle forme geometriche facenti parte della convenzione e funzionalità comune degli edifici. Date a quest’uomo carta bianca (e fondi sufficienti) in altri termini, ed egli realizzerà una commistione inesauribile di strutture interconnesse, superfici piane o curve, visioni pseudo-escheriane prelevate senza preconcetti dalle regioni più assolutamente oniriche dell’immaginazione umana. Un assegno questo, sia tangibile che metaforico, per niente dissimile da quello strappato nel 2014 dalla ricca ereditiera, documentarista e critica d’arte svizzera Maja Hoffmann, una degli attuali titolari dell’incommensurabile fortuna della famiglia e multinazionale farmaceutica Roche. A lei spesa propriamente al fine di creare quattro anni dopo il cambio di millennio la famosa fondazione LUMA, un “centro culturale e piattaforma di proposte” concentrata sulla relazione tra arte contemporanea, cultura, diritti umani ed ecologia. Una realtà concentrata per esplicito volere della fondatrice nella zona limitrofa francese della Camargue ed in modo particolare presso il comune della stessa Arles, previo l’acquisto di un’ampia zona industriale originariamente utilizzata per la costruzione delle locomotive. Dove si è provveduto all’operoso ed utile riallestimento di spaziosi capannoni e simili strutture, ma cosa poteva essere un complesso come questo, senza la dotazione di un reale pièce de résistance, capace di posizionarlo fermamente al centro delle mappe concettuali e guide turistiche della regione? Qualcosa di simile alla già soprannominata “torre” che dopo diversi anni di lavoro, ha finalmente raggiunto l’inaugurazione verso la metà del giugno scorso…

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La tartaruga sputafuoco incaricata di custodire il cuore segreto della Provenza

E se qualcuno tentasse di convincervi che il concetto di conservazione ecologica è nato in epoca moderna, non dovrete far altro che portare il seguente esempio: qualche anno prima del 30 d.C. un colossale serpente, giunto nuotando fin dall’Asia, si accoppiò con un animale in Francia. E da una simile congiuntura nacque la creatura che avrebbe condannato, per un’intera generazione, il popolo drammaticamente impreparato della Provenza. Il nome del mostruoso rettile era Leviatano, così come veniva chiamato anche nella Bibbia e secondo quanto minuziosamente narrato da Jacopo da Varazze, frate domenicano e vescovo di Genova, nel 1298 all’interno della sua Leggenda Aurea, testo sulla storia della natura e dei santi. Mentre la sua consorte, a quanto ci viene qui spiegato, apparteneva alla specie ormai da tempo estinta dell’Onachus, una sorta di mucca in grado di dar fuoco a qualsiasi cosa ne toccasse direttamente il corpo, oppure gli escrementi. Così che in una stretta gola del fiume Rodano, chiamata dai locali Tarusco, venne avvistato per la prima volta l’infernale pargolo simile a un drago, ma che appariva chiaramente come un qualcosa di totalmente nuovo: sei zampe, un alto carapace ricoperto d’aculei, il volto simile a quello di un leone con folta criniera e sul retro, una ricurva coda di scorpione. Il frate non indica mai in maniera esplicita la dimensione di quella che avrebbe preso il nome popolare di Tarasque (in italiano, Tarasca) e perciò i resoconti divergono in materia, benché dovesse necessariamente trattarsi di una creatura piuttosto imponente, data la sua assoluta predilezione per il vorace consumo di carne umana. E il ruolo che avrebbe assunto, in una leggenda particolarmente importante per il patrimonio culturale dell’Europa medievale, inerentemente affine a quella di San Giorgio e il drago. Così come il guerriero impugna la spada, simbolo maschile per eccellenza, allo scopo di ferire o uccidere la bestia, fu sempre insito nella mentalità e morale umana che lo stesso risultato potesse venire raggiunto con le buone, mediante un approccio tipico dell’altra metà del cielo. Il che ci porta, a stretto giro di corsa, verso la figura lungamente celebrata di santa Marta, sorella di Lazzaro resuscitato e Maria che potrebbe essere, ma probabilmente non era, la Maddalena. Citata nei vangeli come la donna che tanto era assorta nelle faccende domestiche, durante la visita di Cristo in persona presso la sua casa, da non riconoscere istantaneamente l’importanza del suo messaggio, un errore a seguito del quale si sarebbe redenta per poi diventare una delle sue seguaci maggiormente devote. Senza mai perdere, tuttavia, l’inclinazione al problem-solving che avrebbe caratterizzato, nel racconto folkloristico alla base della leggenda, la sua successiva avventura provenzale. Pare infatti che ella fosse lì giunta, assieme ai suoi familiari, qualche decade dopo la seconda e finale dipartita del Maestro, per sfuggire alle crudeli persecuzioni dei romani. Per incontrare quindi, in una contingenza particolarmente (s-)fortunata, l’orribile bestia del Tarusco mentre si recava a lavare i panni presso le scroscianti acque del fiume Rodano. Ora l’effettivo inquadramento di una tale casistica, nelle diverse interpretazioni della faccenda, varia sensibilmente, poiché secondo alcuni la santa aveva fatto la scelta cosciente di liberare il mondo terreno da una creatura particolarmente insidiosa, mentre nell’opinione di altri ella volle soltanto, in qualche modo, tentare di salvarsi la vita. Fatto sta che mentre stava per essere divorata dal mostro, Maria si mise istintivamente a recitare più volte il Padre Nostro, e ogni volta che giungeva alla fine della preghiera, la Tarasca diventava più piccola, fino a ridursi a proporzioni comparabili a quelle di un piccolo alligatore sudamericano, benché pur sempre dotato di un alito capace di annientare almeno un paio di cavalieri in armatura. In alcune versioni, Marta asperse anche la creatura con l’acqua santa contribuendo ulteriormente ad ammansirla, benché non sia chiaro esattamente se fosse sempre stata sua abitudine averne copiose quantità nel suo bagaglio di viaggiatrice. Assistendo alla scena surreale da una rispettosa distanza di sicurezza, a quel punto fatale, un abitante del villaggio chiamò a raccolta sedici forti giovani armati di lance ed asce, per approfittare della lieta occasione e finalmente, liberarsi della belva improbabile che per tanti anni aveva trasformato in pasto i loro padri, fratelli ed altri validi connazionali. Otto di loro, nonostante tutto, finirono per perdere la vita, verso l’ottenimento di una vendetta ampiamente giustificata ma che viste le premesse, non può che lasciare un senso di perdita nella storia pregressa dell’eterno conflitto tra uomo e natura…

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La cupola che condensa l’aria umida della Provenza

Un Colosseo alieno. I comignoli della ridente cittadina di Trans-en-Provence, sita a 30 Km nell’entroterra dalle celebri spiagge della Costa Azzurra, si susseguivano nella composizione del panorama, costruendo la prospettiva di un intrigante dipinto. Dalla cima della collina Hermitage Clos, l’ingegnere civile Achille Knapen scrutava l’alto muro della sua più desiderata creatura, alta 13 metri, perforata da oltre 100 piccole finestre rettangolari. Il capo del cantiere, suo amico di vecchia data, attendeva istruzioni in merito a una comprensibile incertezza sul prossimo passo da compiere, verso la realizzazione dell’imperscrutabile obiettivo. “Si, la malta e il cemento per la cupola vanno bene. Ma secondo i miei calcoli, simili materiali non riusciranno a dissipare una quantità sufficiente di calore. Dovremmo ricoprire anche la parte superiore con dei mattoni d’ardesia. Ne ordinerò un’altra tonnellata.” Certo, niente sembrava scoraggiare quest’uomo dalla doppia laurea, apparentemente dotato di risorse monetarie infinite. Il suo successo sulla scena francese e belga, del resto, era stato sancito dall’invenzione di un particolare sistema per preservare dall’umidità i palazzi e gli antichi monumenti, il sifone Knapen, concepito come un tubo d’argilla verticale in grado di estrarre l’aria attraverso le pareti. Ma questo grande successo, impiegato nell’anno del nostro Signore 1930 presso rinomati siti come l’Abbazia di Chaise-Dieu, il Grand Trianon e la stessa reggia di Versailles, era ormai rimasto addietro nella sua mente di fervido inventore. Che ricercando nuovi metodi per migliorare il mondo, si era riorientata su un’altra domanda: “E se…Fosse possibile invertire il processo?” Una fonte inesauribile, come un bricco sovrannaturale fuoriuscito dal corpus leggendario dell’antica Grecia. Acqua per tutti, in qualsiasi momento, utile a irrigare i campi nelle regioni aride, fornire sostentamento agli assetati, abbeverare le bestie, gli uccelli e le piante… Un qualcosa che in determinati luoghi, avrebbe potuto cambiare le prospettive stesse e l’aspettativa di vita per molte migliaia di persone. Il “pozzo” aereo, cosa c’è di meglio!
Annuendo in maniera enfatica, il manovale esperto del vicino paese di Puget-sur-Argent fece un cenno al ragazzo che stava trasportando i mattoni verso il cilindro traforato, non ancora dotato di un tetto. A quanto pare, la giornata di oggi si sarebbe conclusa senza fare ulteriori progressi. Era chiaro che Mr. Knapen, come suo solito, aveva un’idea precisa nella costruzione dell’edificio, benché fosse difficile intuirla. Di strutture simili, attraverso la sua lunga carriera, lui ne aveva costruite almeno altre tre, sopra e sotto la Provençale, principale arteria stradale che unisce la grande città di Marsiglia a Nizza, importante porto del Mediterraneo. Si trattava, secondo la classificazione professionale del suo mestiere, di nient’altro che follies, sul modello delle antiche decorazioni dei giardini barocchi francesi e inglesi, spropositate curiosità mirate ad intrattenere gli ospiti con il loro aspetto improbabile che alludeva alle fiabe. La torre avrebbe costituito una vista decisamente insolita dagli ampi spazi della villa, con oltre 200 mq di terrazzi colpiti di traverso dal sole. Lui di certo, c’era da ammetterlo, non ne aveva mai vista una così: larga e tarchiata, ben diversa da qualsivoglia castello o fortezza fatata, risultando piuttosto simile a un torreggiante alveare. E poi, c’era l’interno… Secondo il preciso progetto del rinomato ingegnere, i suoi operai avevano dovuto edificare un’alta colonna con un tubo metallico al centro, integralmente ricoperta di protrusioni di cemento, resa intenzionalmente ruvida da una vasta serie di solchi. Tutto sembrava mirare a una funzione, uno scopo per lui misterioso… Ma ben presto, l’oggetto sarebbe avrebbe ricevuto la sua copertura finale. Ed allora, non sarebbe più stato un SUO problema!

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