Dietro una solida barriera cresciuta sulla costa di querce tamarina ed allori tamanu, perfettamente visibile dal punto panoramico lungo un’arteria di collegamento stradale, si erge nella regione storica di Odisha un edificio dell’altezza di 30 metri sopra una solida piattaforma, con un tetto piramidale a gradoni successivamente sovrapposti. Ma sarà soltanto avvicinandosi a distanza più ridotta, che l’osservatore potrà scorgere l’eccezionale quantità di gruppi statuari e sculture in bassorilievo che si affollano su queste mura, raffiguranti in egual misura scene mitiche, momenti della vita quotidiana e posizioni tantriche direttamente estratte dal sacro repertorio del Kamasutra. Laddove nella parte più vicina al suolo, gli oltre 1.200 scultori coinvolti all’epoca della sua costruzione vennero incaricati di prevedere la forma immediatamente riconoscibile di 24 ruote finemente ornate, non tanto come raffigurazione del ciclo dell’esistenza e la natura ciclica dell’Universo. Bensì necessari componenti al fine di far muovere, in maniera metaforica se non pratica, l’intero torreggiante ammasso di muratura e pietra. Alimentando l’idea per cui tutto diventava possibile, nel distante e misterioso Oriente…
Con le loro armi energetiche, i veicoli spaziali, la capacità di cambiare aspetto e identità terrena, molti degli aspetti attribuiti alle divinità dell’Induismo avvicinano queste figure trascendenti alla moderna e molto più prosaica concezione di un popolo cosmico entrato in contatto in con gli umani, in un’epoca remota, finendo per essere venerato mediante crismi rituali e costruzioni tangibili capaci di restare intatte attraverso lo scorrere d’infinite generazioni. Così come l’idea del tutto mitologica, ma inerentemente influenzata da corrette percezioni di natura astronomica, che l’astro diurno fosse trasportato quotidianamente attorno al nostro mondo grazie all’utilizzo di un carro volante, le cui proporzioni si sarebbero probabilmente avvicinate a quelle del palazzo semovente di un sovrano. Un’idea riconducibile a quella del dio greco Elio, sostituito in questi luoghi da Sūrya (“Luce Suprema”) entità precedente addirittura all’elaborazione della Trimurti e che nei poemi epici del Ramayana e Mahabharata appare rispettivamente come il padre spirituale di Rama e di Karna. Il che rende alquanto atipica e di certo singolare, l’assenza generalizzata di templi dedicati a tale ancestrale divinità sebbene i pochi dislocati nell’intero estendersi del subcontinente figurino senz’altro tra i più massicci e notevoli di questo eterogeneo paese. Con uno, in modo particolare, utilizzato come termine di paragone nonché principale esempio sopravvissuto dell’originale scuola architettonica dello stile Nagara, tradizionalmente contrapposto a quello dravidico dell’India meridionale. Trattasi di niente meno, come avrete certamente già desunto dall’intestazione, che dell’iconico Sūrya Deul di Konark, situato in corrispondenza di un importante porto commerciale di scambio e laguna di approvvigionamento ittico del potente impero dei Ganga Orientali, capace di regnare nell’intera regione di Kalinga sulla costa Est dell’India senza sostanziali interruzioni dal V alla metà del XX secolo. Questo grazie all’opera continuativa dei depositari di una potente tradizione militare, ma anche l’abilità strategica e diplomatica di sovrani come Narasingha Deva I (r. 1238-1264) dimostratisi capaci di costituire una barriera invalicabile contro l’espandersi della sfera d’influenza politica, ed al tempo stesso quella religiosa, dei potenti Mamelucchi islamici di Delhi…
Non c’è dunque molto da sorprendersi se il potente sovrano che regnò in un’epoca corrispondente al nostro Medioevo, per legittimare le sue campagne come parte di una guerra sacra avesse dimostrato a più riprese l’intento di reinvestire un’importante percentuale delle sue risorse pecuniarie nella costruzione e l’ampliamento d’importanti luoghi di culto. Che oggi costituiscono alcune delle testimonianze più importanti di cui disponiamo in merito alla sua epoca distante e quali fossero le priorità maggiormente sentite dai popoli coévi. Fa dunque una certa impressione pensare che il grande tempio di Konark, molto prima di essere eletto a patrimonio dell’UNESCO nel 1984, sia stato lungamente abbandonato e circondato dalla giungla fino a cadere in rovina almeno dall’inizio del XIX secolo, probabilmente a causa dello spostamento dei riti sacri e propiziatori verso strutture maggiormente accessibili dalla non vicinissima capitale federale di Puri. Nonché l’abitudine pregressa, non così distante da quella perpetuata dai successivi eredi dell’antico mondo greco e latino, di utilizzare le antiche meraviglie architettoniche alla stregua di cave per materiali e fonti di ornamenti da utilizzare materialmente nella costruzione di edifici più recenti. Un destino famosamente toccato, in maniera particolarmente eclatante, al colonnare Aruna stambha, grande pilastro dedicato al mitico auriga del dio Sūrya, che si trovava originariamente innanzi a Sunark fino a circa 200 anni fa, quando venne spostato presso il Jagannath di Puri per volere del Maratha Brahmachari. Nient’altro che il più recente capitolo, di una lunga serie di episodi oggi largamente dimenticati, che avrebbero portato l’eccezionale complesso sacro di Konark ad una progressiva riduzione della sua magnificenza. Ciò che oggi viene identificato come “il tempio” non è infatti altro che la sua vasta sala delle udienze (jagamohana) che un tempo faceva da anticamera al sancta sanctorum principale, un’alta torre detta deula, entro cui trovava posto la principale statua della divinità. Struttura probabilmente in grado di superare facilmente i 60 metri, tanto da essere famosamente impiegata come punto di riferimento durante la navigazione sulla costa dai Portoghesi di epoca coloniale, che erano soliti chiamarla la Pagoda Nera. Un termine dovuto all’utilizzo per buona parte della sua costruzione della pietra di origini metamorfiche detta khondalite, molto vulnerabile all’erosione degli agenti atmosferici e che si sarebbe progressivamente indebolita col passare dei decenni, e quindi secoli ulteriori. Sebbene molti ed ampiamente diversificati siano i miti sulla distruzione del tempio, che includono un saccheggio da parte del generale bengalese musulmano Kalapahar nel XVI secolo, il verificarsi di un improvviso terremoto, o la leggenda secondo cui i britannici della Compagnia delle Indie avessero sottratto una gigantesca pietra magnetica portante nella struttura dell’edificio, poiché deviava le bussole portando i loro vascelli ad incagliarsi lungo le coste di Odisha.
Per quanto concerne dunque il principale edificio rimasto integro, fiancheggiato dalla sala da ballo (Nata mandira) e quella dedicata al consumo dei pasti (Bhoga mandapa) entrambe ormai prive di un tetto, di estremo interesse risultano essere le già citate ruote scolpite, che si trovano in maniera niente affatto casuale lungo i lati nord e sud dell’edificio. Ciò affinché la sua riconoscibile forma, se osservata dall’entroterra all’alba ed al tramonto, potesse profilarsi come quella di un effettivo carro che stesse materialmente trasportando l’astro solare verso le sue ben note destinazioni. Effetto ulteriormente potenziato dal posizionamento tattico di una mezza dozzina d’imponenti statue equine, oggi non più presenti, così come si sarebbero trovati nel dislocamento dell’effettivo carro del dio Sūrya.
Ruote le quali in base ad alcune delle interpretazioni attuali, avrebbero potuto costituire anche delle pratiche meridiane per l’esecuzione dei riti, grazie alla parte sporgente del mozzo centrale capace di gettare un’ombra sulla metà inferiore del quadrante, sebbene si tratti per lo più di un’idea tra le molte possibili. Non soltanto per l’orientamento poco pratico dei bassorilievi in questione, ma anche la maniera in cui i raggi della parte superiore delle ruote, posizionate verticalmente lungo le mura del tempio, non avrebbero potuto arrecare alcun vantaggio per quanto concerne tale particolare tipologia d’impiego.
Meraviglia dell’architettura senza pari nel suo periodo coévo, nonché importante punto di riferimento di natura religiosa grazie alla rievocazione sempre maggiormente popolare in situ della festa di Chandrabhaga Mela, il tempio di Konark è la pratica dimostrazione di come venisse purtroppo amministrato il patrimonio storico facente parte dell’eredità umana, prima dell’introduzione su scala globale del concetto di archeologia e conservazione dei siti. Tanto che furono in effetti proprio gli esponenti delle strutture organizzative coloniali, con particolare partecipazione della Royal Asiatic Society a partire dal 1838, ad effettuare le prime opere di restauro e puntellare le pareti più vicine al crollo dell’insostituibile, ormai purtroppo decrepita struttura indiana. Prima che una ritrovata identità, corrispondente alla rinascita di un produttivo orgoglio, permettesse a questo ed altri numerosi luoghi di tornare a perseguire l’ormai remoto splendore. Un importante punto di passaggio verso lo sdoganamento di valori estetici ormai dati per anacronistici. Nonostante la misura, estremamente significativa, in cui superassero per perizia e qualità intrinseche i vigenti crismi del cosiddetto stile architettonico internazionale.