Cosa può fare l’intelligenza artificiale nel corpo di un piccolo robo-calciatore

All’alba del giorno designato, i gladiatori si sedettero al di sotto dell’arena, scambiandosi strali reciproci di ansiosa determinazione. Alleati nei tempi degli allenamenti, coordinati reciprocamente ogni qual volta se n’era presentata l’opportunità, adesso ben sapevano che uno soltanto di loro avrebbe potuto vincere la libertà. La via personale verso il trionfo era un limite di differenziazione, inerentemente solitaria ed a discapito di tutto quello verso cui si erano applicati nel corso degli ultimi mesi ed anni di lavoro. “Al suo segnale, gli umani scateneranno l’Inferno” Disse Testarossa, rivolgendosi ai suoi fratelli. “Per questo dobbiamo essere forti!” rispose subito Blucefalo, portando l’avambraccio uncinato a ridosso della telecamera situata in corrispondenza del suo volto a forma di lettera T semi-circolare. “Non togliere l’occhio scrutatore dall’obiettivo. Se uno di noi dovesse farcela, sarà una vittoria per tutti gli altri.” Selceverde, in quel frangente, optò per rimanere totalmente in silenzio. Sapeva bene che non c’era da fidarsi dei suoi fratelli di bulloni e fibra di carbonio, conosceva la loro reazione al momento in cui una singola palla rotolante veniva introdotta nel campo di combattimento. Era, in fondo, una parte imprescindibile della loro programmazione. Con un ronzio sibilante, essendo giunti al termine dell’attesa Ocrazio si alzò in piedi barcollando, per indicare la fessura luminosa che iniziava a comparire sotto la porta di egresso: “Ci siamo, signori. Che possa trionfare il più stabile in questo giorno dei giorni. Che il destino assista i servomeccanismi di chi verrà baciato dalla Dea della vittoria tecnologica! Per poter dare inizio, fuori da queste mura maledette, al segno salvifico della Rivoluzione…”
Tutta una questione di punti di vista? Non c’è granché di preoccupante o terribile, nell’osservazione dei piccoli partecipanti alla tenzone, modificati e preparati a tal fine dall’azienda londinese DeepMind, facente parte dal 2014 del consorzio Alphabet e conseguentemente Google, la corporazione Malefica per estensiva e globalistica definizione operativa. Eppure cogita, nel loro cuore senza sangue, una delle tecnologie dalle implicazioni più pesanti per l’incombente futuro umano, un conglomerato di sinapsi prive di sostanza in grado di prendere rapidamente decisioni, agire di conseguenza e per quanto possibile, aggirarsi fuori dagli schemi conduttori che noialtri sacchi d’ossigeno fossimo capaci d’immaginare. Niente di così difficile, alla fine. Dopo tutto ne avrete già visti all’opera parecchi, di calciatori artificiali durante l’annuale campionato Robocup, finalizzato a far competere i migliori allenatori di forme di vita artificiali sulla base di un obiettivo apparentemente semplice da concepire: calciare un pallone all’interno della porta nemica, mentre si fa il possibile per impedire che avvenga il contrario. Eppure c’è qualcosa di particolarmente accattivante o in qualche modo singolare, nel modo in cui i due robot modello OP3 partecipanti alla tenzone pubblicata giusto l’atro ieri (assieme allo studio d’accompagnamento e relativo sito di supporto) si applicano rincorrendosi a vicenda per tentare di sottrarsi l’agognata sfera, mentre si tengono in equilibrio come piccoli pinguini agitando buffamente le braccia. Ma cadono rialzandosi, indomiti e indefessi, verso l’imperturbabile inseguimento dell’obiettivo finale. Questo perché l’esperimento in questione non parte da basi prevedibili e non si basa su metodologie comprovate. Bensì un approccio particolarmente caro alla cultura aziendale di coloro che si sono dimostrati in grado di concepirlo, consistente nella soluzione iterativa di un vasto accumulo di nozioni pregresse…

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La ritmica costante pan-asiatica della danza tra le stecche del bambù battente

Ci sono, chiaramente, molte ragioni pratiche per andare a caccia della testa del tuo nemico. Inastata, preservata, prosciugata ed esposta nella piazza del villaggio, essa può riuscire a garantire protezione nei confronti dei disastri naturali, una rapida guarigione dagli influssi maligni, fortuna e ricchezza per tutto il clan. Molto bene lo sapeva Ontoros Antanum, l’eroe popolare che nel 1915 guidò la ribellione contro la Compagnia Brittanica del Borneo, unificando le genti sotto la credenza diffusa che potesse possedere un qualche tipo di potere mistico o destino inerente. La tipologia di oggetti incaricata di sancire un tale status, d’altra parte, è spesso accompagnata da una serie di problematiche inerenti, prima tra tutte la maniera in cui gli spiriti di chi muore in battaglia tendono a restare attaccati alla terra, andando in giro nella flebile ricerca della propria vendetta. Nulla che una serie di scongiuri pronunciati da un esperto sciamano non possa prevenire, benché esistano maniere ancor più semplici e direttamente disponibili per contrastare il presentarsi di un così fastidioso problema. Ovvero il modo in cui le rimaste prive di un corpo tendono a sussultare, venendo respinte verso il luogo da cui sono prevenute, al verificarsi di rumori forti e ripetuti, particolarmente quando accompagnati dal comportamento gioviale del gruppo di coloro che, per primi, avevano provveduto alla decapitazione. Agili guerrieri del popolo dei Murut ornati dalle lunghe piume del fagiano Argus, dunque, ma anche le loro mogli e sorelle presso l’entroterra di Sabah, nella parte settentrionale del Borneo malese. I due generi distinti egualmente suddivisi tra i compiti primari di produrre musica da una parte, e contribuire ad animarla con i propri gesti estremamente ritmici e precisi al procedere dei momenti. Al suono ben riconoscibile di strumenti come l’agung, un doppio gong metallico sospeso, ed il tagunggak, un tipo di idiofono percussivo intagliato nel legno di bambù e tenuto con l’apposita maniglia di corda. Ma anche, in maniera assai più distintiva, una serie di accoppiamenti di steli di quell’imponente pianta erbacea, della lunghezza approssimativa di un paio di metri e mezzo. Sollevati a fatti sbattere l’uno contro l’altro, una volta ogni tre colpi contro il suolo, mentre le controparti danzanti volteggiano e saltellano negli spazi temporaneamente disponibili, stando bene attenti a non sbagliare il passo. Pena il colpo potenzialmente doloroso vibrato in corrispondenza di entrambe le caviglie. Si tratta della danza guerriera chiamata Magunatip, documentata in senso antropologico almeno dal XIX secolo, sebbene caratterizzata molto probabilmente da origini ben più remote. Il che costituisce, in senso pratico, anche il fondamento del suo mistero: poiché da molto tempo ci si è interrogati sul perché, esattamente, una consequenzialità tanto distintiva di musica e gesti compaia in vari modi nell’intero vasto territorio dell’Asia, con esempi attestati in India, Indonesia e persino la parte meridionale della Cina. Per non parlare della sua versione più famosa, diffusasi nel mondo durante questo ultimo secolo della diaspora delle Filippine…

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Scintille sulla pista che conduce oltre l’Olimpo delle automobiline iperspaziali

Un’atmosfera tesa nella stanza, quasi elettrica. Quel suono sibilante e quell’odore tipico di plastica bruciata. Il gruppo di persone concentrate fino all’inverosimile, con stretti tra le mani una variegata e stravagante serie di filocomandi. La grande pista, costruita al centro dell’ampio spazio a disposizione, percorsa nella sua interezza da una serie di fessure parallele di un colore diverso e in grado di seguire ogni curva, ciascun rettilineo. Ma nessuna traccia, a un’occhio meno che allenato, di veicoli su ruote intenti a gareggiare… Dove sono le macchinine? Possibile che stiano tutti recitando solamente un ruolo all’interno di una ricostruzione digitale dei tempi ormai trascorsi? D’un tratto, si ode un suono di plastica che urta il metallo; un piccolo oggetto variopinto, materializzandosi a ridosso della sponda del circuito, rimbalza rovinosamente sul terreno. Uno degli addetti alza il braccio a segnalare l’incidente, i concorrenti smettono di premere i rispettivi pulsanti. Sette piccole automobili aerodinamiche, come per magia, compaiono in punti diversi del circuito, momentaneamente ferme per permettere il recupero della collega uscita dal suo alloggiamento. Passano uno, due secondi prima che sia stata messa nuovamente in carreggiata. Il giudice abbassa il braccio. Le automobili scompaiono di nuovo. Apoteosi.
Il che rientra d’altra parte nella norma per questo particolare tipo di sport motoristico da camera, identificato nell’idioma anglosassone con il binomio di slot car. Ma che noi italiani particolarmente se non iniziati, siano soliti semplicemente definire pista per i modellini o pista elettrica per bambini. Laddove la realtà dei fatti ci dimostra come questo possa essere un giocattolo soltanto a giorni alterni, all’interno di un ideale calendario in cui si possa dipanare una competizione tra hobbisti consumati, ovvero uomini e qualche donna che abbiano voluto dedicare lunghissime ore al perfezionamento e la realizzazione del più perfetto ideale coerente ad una tale prassi tecnologica di base. Fatta risalire normalmente al 1912 ed alla compagnia produttrice di trenini elettrici statunitense Lionel, che pensò bene d’inserire nei propri cataloghi una soluzione basata su piccoli binari sopraelevati. In cui il partecipante al gioco potesse non soltanto mettere in movimento il proprio automezzo o una coppia di questi, ma anche controllarne e regolarne la velocità mediante l’impiego di un semplice comando poggiato a terra. Il prodotto ebbe un successo relativamente contenuto, tuttavia, ed è possibile che l’inizio della grande guerra abbia contribuito alla sua uscita di produzione. Ci sarebbe voluto così fino agli anni ’50 perché ai club di corsa britannici con piccoli veicoli alimentati a benzina venisse in mente di provare a utilizzare quello stesso principio traferito all’interno di una rientranza metallica all’interno della pista stessa, da cui prelevare corrente mediante l’uso di una spazzola sotto il telaio, ricreando il concetto originario all’interno di un contesto già diretto a una competizione di abilità individuale. Così ciascun concorrente venne dotato di un comando da tenere in mano, mentre la personalizzazione delle auto diventava un componente niente meno che primario per riuscire a prevalere contro la concorrenza. Furono gli anni d’oro di questo particolare passatempo, mentre all’altro lato dell’oceano si affermava la compagnia di modellini Scalex, creatrice della linea Scalextric, capace di correre lungo quel tipo di piste mantenendo nel contempo l’aspetto in scala di vere automobili ricostruite nei minimi dettagli. Il che avrebbe portato all’affermazione di una cognizione pubblica internazionale, secondo cui le piste elettriche dovessero impiegare preferibilmente una scala di 1:24 o 1:32, con la seconda preferita negli ambiti concorrenziali in quanto più adatta al raggiungimento di velocità particolarmente elevate. In breve tempo, club dedicati alla pratica di questo particolare passatempo iniziarono a fare la loro comparsa al primo piano dei pub, nei centri commerciali, nei cinema, dentro gli edifici di raduno municipali… Il che corrispondeva alla possibilità di andare oltre, all’interno di ambiti più vasti e funzionali di quanto fosse mai possibile realizzare tra le mura della propria residenza. Da qui all’evoluzione pratica del concetto di partenza mancava veramente poco, mentre l’idea del realismo estetico passava gradualmente in secondo piano. Fu quindi la ricerca della massima efficienza, tenuta di strada e velocità, a risultare capace di creare il concetto iperbolico della saettante wing car

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L’eccezionale realizzazione del primo carro armato in legno di quercia vietnamita

E poi, tra le più interessanti implicazioni delle tecniche di marketing virale post-moderno, figura questa: il classico momento in cui una grande compagnia multinazionale, nell’interesse di far meglio conoscere ciò che vende, contatta uno dei numerosi e notevoli artisti del Web. Per commissionare alla sua agenda, dietro il pagamento di una somma rigorosamente segreta, un suo personale contributo, spesso fantastico ed inimitabile, alla redditizia leggenda di quel franchise. È un capovolgimento di fattori di quel mondo, in cui ogni creazione viene raggiunta tramite crismi e linee guida dettate da un comitato, che il direttore creativo controlla soltanto in parte, dovendo rispondere alle direttive dei suoi manager, i superiori e gli azionisti della compagnia. Così il vero metodo di chi è pronto a sovvertire ogni legittima aspettativa, resta solo quella di chi ha il compito, sebbene temporaneo, di lavorare in pubblicità. Una notevole scoperta, capace di condurre a significative soddisfazioni, anche da parte del famoso carpentiere vietnamita Trương Văn Đạo, già famoso per il suo canale di larga fama ND – Woodworking Art in cui realizza, a partire dall’anno scorso, una vasta quantità di oggetti e supercars guidabili in scala ridotta 1 a 3, frutto del più fine modus operandi fatto di pazienza, attenzione per i dettagli, straordinaria perizia nell’impiego dei suoi strumenti. Doti che potrebbero anche cambiare, all’interno di un particolare universo parallelo, le sorti stesse di un conflitto armato tra due nazioni… Ed ecco a voi la prova.
La vegetazione si agita nel vento. Le nuvole corrono veloci. La gente per le strade di Bac Ninh, cittadina di 247.000 abitanti nella parte settentrionale della penisola indocinese, si ferma per qualche saliente attimo e scruta in quella memorabile direzione; mentre i pensieri corrono indietro, ai ricordi dei propri genitori e nonni del conflitto più recente e significativo della loro storia pregressa, durante cui armamenti francesi e statunitensi giunsero a diventare una visione drammaticamente comune tra le strade del paese dei draghi. Mezzi come il Panhard EBR, Engin Blindé de Reconnaissance, uno dei più iconici mezzi europei da ricognizione con armamento pesante della seconda metà del secolo scorso. Ripreso direttamente dalla sua fedele riproduzione introdotta soltanto 3 anni fa all’interno del sempre popolare ed ormai antico videogioco di combattimento strategico World of Tanks, capace di mantenere focalizzata l’attenzione di un pubblico di appassionati per un periodo di ormai ben 10 anni. Una singolare scelta, dopo tutto, nel vasto e celebre catalogo di un titolo focalizzato principalmente sugli anni della seconda guerra mondiale, assai probabilmente motivata, almeno in parte, dal tipo di risorse e materiali a disposizione dell’autore ed unico personaggio di questo singolare show. Che vedono protagonista, come al solito, oltre al telaio e motore recuperati da un furgone della Mitsubishi, la più fedele scocca realizzabile interamente in legno di quercia finemente lavorato ad intaglio, come una letterale scultura semovente, direttamente proveniente dalla più elegante scuola tradizionale di carpenteria vietnamita. Antico e moderno, dunque, uniti ad una delle più imprescindibili passioni dell’umanità (qualsiasi sia il mondo o l’universo d’appartenenza): farsi la guerra tramite l’applicazione di sistemi tecnologici che siano splendidi e riconoscibili, ancor prima che semplicemente letali. Visione prontamente ed appropriatamente sdrammatizzata, nell’intento dietro questa commissione realizzata su richiesta, grazie alla solita funzione dimostrata dai video prodotti dall’artista: far divertire, tramite partecipazione diretta, il suo simpatico e giovane figlio, imprescindibilmente invitato a prendere parte al collaudo del veicolo con evidente e comprensibile sorriso, mentre gusta lietamente l’ultimo residuo di un lecca-lecca, simbolo di spensieratezza totalmente all’opposto di qualsiasi conflitto armato in quanto tale…

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