La ritmica costante pan-asiatica della danza tra le stecche del bambù battente

Ci sono, chiaramente, molte ragioni pratiche per andare a caccia della testa del tuo nemico. Inastata, preservata, prosciugata ed esposta nella piazza del villaggio, essa può riuscire a garantire protezione nei confronti dei disastri naturali, una rapida guarigione dagli influssi maligni, fortuna e ricchezza per tutto il clan. Molto bene lo sapeva Ontoros Antanum, l’eroe popolare che nel 1915 guidò la ribellione contro la Compagnia Brittanica del Borneo, unificando le genti sotto la credenza diffusa che potesse possedere un qualche tipo di potere mistico o destino inerente. La tipologia di oggetti incaricata di sancire un tale status, d’altra parte, è spesso accompagnata da una serie di problematiche inerenti, prima tra tutte la maniera in cui gli spiriti di chi muore in battaglia tendono a restare attaccati alla terra, andando in giro nella flebile ricerca della propria vendetta. Nulla che una serie di scongiuri pronunciati da un esperto sciamano non possa prevenire, benché esistano maniere ancor più semplici e direttamente disponibili per contrastare il presentarsi di un così fastidioso problema. Ovvero il modo in cui le rimaste prive di un corpo tendono a sussultare, venendo respinte verso il luogo da cui sono prevenute, al verificarsi di rumori forti e ripetuti, particolarmente quando accompagnati dal comportamento gioviale del gruppo di coloro che, per primi, avevano provveduto alla decapitazione. Agili guerrieri del popolo dei Murut ornati dalle lunghe piume del fagiano Argus, dunque, ma anche le loro mogli e sorelle presso l’entroterra di Sabah, nella parte settentrionale del Borneo malese. I due generi distinti egualmente suddivisi tra i compiti primari di produrre musica da una parte, e contribuire ad animarla con i propri gesti estremamente ritmici e precisi al procedere dei momenti. Al suono ben riconoscibile di strumenti come l’agung, un doppio gong metallico sospeso, ed il tagunggak, un tipo di idiofono percussivo intagliato nel legno di bambù e tenuto con l’apposita maniglia di corda. Ma anche, in maniera assai più distintiva, una serie di accoppiamenti di steli di quell’imponente pianta erbacea, della lunghezza approssimativa di un paio di metri e mezzo. Sollevati a fatti sbattere l’uno contro l’altro, una volta ogni tre colpi contro il suolo, mentre le controparti danzanti volteggiano e saltellano negli spazi temporaneamente disponibili, stando bene attenti a non sbagliare il passo. Pena il colpo potenzialmente doloroso vibrato in corrispondenza di entrambe le caviglie. Si tratta della danza guerriera chiamata Magunatip, documentata in senso antropologico almeno dal XIX secolo, sebbene caratterizzata molto probabilmente da origini ben più remote. Il che costituisce, in senso pratico, anche il fondamento del suo mistero: poiché da molto tempo ci si è interrogati sul perché, esattamente, una consequenzialità tanto distintiva di musica e gesti compaia in vari modi nell’intero vasto territorio dell’Asia, con esempi attestati in India, Indonesia e persino la parte meridionale della Cina. Per non parlare della sua versione più famosa, diffusasi nel mondo durante questo ultimo secolo della diaspora delle Filippine…

Tra le caratteristiche più continuative della danza del bambù figura l’esecuzione a piedi scalzi, naturalmente conduttiva a una maggiore precisione nell’esecuzione dei sobbalzi ed il mantenimento di un ritmo preciso al decimo di secondo.

Chiamata in quel popoloso arcipelago tinikling dal nome onomatopeico dell’uccello tikling (il rallo delle Filippine) e tutt’ora praticata con trasporto durante le feste del raccolto, i matrimoni, le riunioni di famiglia e gli spettacoli teatrali, l’accezione locale della danza del bambù appare chiaramente codificata e priva delle implicazioni ad essa attribuita nel territorio di Sabah. Egualmente basata su di un ritmo a 3/4, cadenzato dalla percussione vicendevole ed a terra delle riconoscibili aste variopinte, essa trae l’origine leggendaria da un aneddoto secondo cui un agricoltore, attorno al XVI secolo, aveva in programma di fare uno scherzo ai suoi colleghi, tentando di farli inciampare nei pezzi di legno sollevati improvvisamente al loro passaggio mentre si recavano a lavorare. Se non che questi ultimi, avendo intuito la natura dello stratagemma, saltarono agilmente oltre l’ostacolo imitando i movimenti dell’eponimo pennuto locale. Un’altra attribuzione folkloristica, decisamente meno spensierata ma anche lontana dalla logica dei popoli, vedrebbe l’origine del ballo dalla triste necessità dei lavoranti delle piantagioni, puniti durante l’epoca coloniale per un contributo ritenuto insufficiente dalla costrizione a restare in piedi tra bastoni ricoperti di spine, mossi in modo tale da colpirli sulle gambe ad ogni salto mancato per la stanchezza e lo sfinimento. Ciò detto, un qualche tipo di collegamento tra l’epoca coloniale e il ballo del tinikling sembrerebbe sussistere, visto il tipo di melodia impiegata normalmente per accompagnarlo, appartenente nella stragrande maggioranza dei casi al genere spagnolo della rondalla, prodotta mediante un’orchestra di strumenti a corda tra cui chitarra, bandurria, octavina e ukulele. Sebbene in epoca più recente, nel tentativo di coinvolgere le nuove generazioni, il tempo del ballo venga spesso cambiato ai più consueti 4/4, permettendo l’impiego di musica più moderna. Osservando la questione dall’esterno, dunque, appare chiaro come questa tradizione filippina rappresenti il tipo di ballo del bambù maggiormente famoso e praticato nel mondo, particolarmente negli Stati Uniti, dove non è inaudito che trovi l’impiego nel contesto dell’educazione fisica scolastica, nelle vesti di alternativa collettiva al più semplice salto della corda. E qualcuno ricorderà, a tal proposito, un’esecuzione particolarmente al limite di tale disciplina in una memorabile puntata del telefilm con Bryan Cranston, Malcom in the Middle, caratterizzata come stravagante usanza ereditaria della famiglia dell’inflessibile moglie Lois. Benché una simile versione trasferita alle origini degli Stati Uniti, assolutamente fantasiosa, trovi ben poca corrispondenza nella realtà lasciando molti dubbi in merito all’effettiva ragione per cui popoli distanti e culturalmente distinti, dislocati in un territorio che supera le decine di migliaia di chilometri per estensione, possano aver scelto di perseguire finalità apotropaiche nella stessa identica maniera, senza neppure la necessità di fare proselitismo o l’itinerario di un profeta viaggiante. Soltanto per… Divertimento?

Scena del 2012: durante la festa di Chapchar Kut ad Aizawl, nel Mizoram Indiano, una percentuale significativa degli abitanti del villaggio inscenano il più grande raduno di danzatori del bambù al mondo. Chissà se questo evento viene menzionato nella versione asiatica del Guinness dei Primati…

Una delle principali possibilità al vaglio degli storici, rimasta purtroppo priva di alcun fondamento documentale, vedrebbe dunque l’antico regno giavanese di Majapahit sorto all’inizio del XIII secolo nell’isola di Giava, e giunto entro un secolo e mezzo a controllare 21 stati vassalli, come possibile motore nella diffusione della danza ritmica del bambù battente. Forse come una sorta di rituale di corte trasferitosi alle istituzioni dirigenziali di ciascuna provincia, poi imitato e connotato dai diversi popoli al successivo crollo del potere centrale dopo il 1520. Un’altra ipotesi, d’altronde, vedrebbe il cosiddetto ballo dei guerrieri come utile a mettere in pratica, sotto mentite spoglie, il tipo di allenamento particolarmente utile nelle arti marziali, la cui pratica era stata rigorosamente vietata durante gli anni del potere coloniale, in quanto usanza molto problematica da parte dei popoli ormai dolorosamente assoggettati al volere degli europei. Che in alcun modo avrebbero accettato di dar spazio e indipendenza alle identità dei popoli pre-esistenti.
Così come provato sulla propria pelle dal formidabile guerriero indonesiano Antanom che in risposta alla mancanza di rispetto degli occidentali nei confronti dei capi-villaggio, guidò il popolo di Sabah armato di cerbottane, spade e lance ottenendo una miracolosa vittoria nell’aprile del 1915, scontrandosi sulle alture coi soldati britannici dotati di fucili, cavalli e cani. E molte teste furono portate nei villaggi, un’ultima volta, per danzare ancora tra i pezzi di legno con l’antica ed oltraggiata ferocia dei guerrieri isolani. Soltanto perché il condottiero si recasse pochi giorno dopo in prima persona ad una presunta “conferenza di pace” durante cui venne prontamente arrestato ed in seguito messo a morte dagli inglesi. Poiché nulla può la protezione degli spiriti, o un persistente ed internazionale senso dell’onore, contro la mancanza di alcun tipo di rispetto nei confronti di persone giudicate come un mero ostacolo da oltrepassare. Nella più totale indifferenza, tipicamente europea, nei confronti di chi tenta di dare continuità alla propria eredità distinta. Contro i valori molto convenienti della presunta “integrazione”, da vibrare un colpo alla volta con la zappa e la vanga delle piantagioni…

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