Tujia: la memoria di un popolo che canta il cuore della Cina

Stolidamente capace d’incedere verso il progresso e protetta dallo scudo impenetrabile di un rigido guscio, dal quale spuntano zampe scagliose ed artigli acuminati: questo è l’aspetto della Sapienza, almeno nella sua personificazione quadrupede su questa Terra, rappresentata dall’immagine immensamente popolare della tartaruga. Che dopo aver percorso i sentieri del mondo per almeno 100 anni ed aver incontrato una dipartita del tutto naturale, o almeno così si credeva, essa poteva costituire l’elemento al centro di un preciso rituale finalizzato a prevedere l’andamento degli eventi futuri, tante volte messo in atto dai profeti al servizio dell’antica dinastia Shang (ca. 1600 a.C. – ca. 1046 a.C.) anche detti praticanti dell’arte altamente specifica della piromanzia. Che consisteva, essenzialmente, nel sottoporre tali umili resti animali all’incandescente effetto di una fiamma viva, affinché su di essi venissero a formarsi una serie di crepe, attraverso le quali sarebbero state tratte le conclusioni ritenute opportune, più o meno specifiche a seconda del volere del sovrano. Ma questo non prima che, secondo la tradizione, sulle ossa e il carapace fossero state incise le cronache altamente dettagliate delle ultime successioni dinastiche, le più importanti battaglie, scambi commerciali ed eventuali carestie del raccolto. Così che tali oggetti, ritrovati millenni dopo dai contadini all’inizio del secolo scorso, hanno costituito delle precise capsule temporali, capaci di darci un’idea estremamente precisa di quelle che furono le remote origini dell’odierna Cina.
Per molto tempo, tuttavia, fu impossibile associare il nome piuttosto generico comparso su uno di questi ritrovamenti di Lin, a un particolare capo delle tribù dell’area dell’Hunan occidentale, che tra queste montagne aveva unificato una serie di sette tribù, capaci di contrapporre la propria esistenza a quella degli altrettanti regni nei quali, ben presto, il solido impero si sarebbe trovato diviso e da cui sarebbe emersa la figura di un possente e inarrestabile conquistatore. Esiste una precisa letteratura contemporanea dunque, coadiuvata da molte dicerie popolari, secondo cui il popolo degli Han sotto la guida di Qin Shi Huangdi, “primo” Imperatore, costruttore della Grande Muraglia e dell’Esercito di Terracotta, avesse nei fatti costituito un amico diplomatico dei discendenti stessi di costui, che aveva assunto il potere dopo una serie di prove di forza e di coraggio, diventando il solo ed unico sovrano del regno tribale di Da, prima di trasformarsi nella tigre bianca venerata tutt’ora, come totem animistico del proprio popolo senza tempo.
Vicinanza, questa, destinata a durare nel tempo fino alle ben più recenti dinastie Ming (1368–1644) e Qing (1644-1912) durante cui l’elite governante cinese prima, e di etnia manciù nei tre secoli successivi, si sarebbe assai dimostrata propensa ad affidare gli interessi del proprio dominio tra le montagne nelle sapienti mani di quegli amministratori detti Tujia (“popolo locale” contrapposto a quello degli Hakka, “popolo ospite” o migratorio), che in cambio di tale indipendenza erano soliti inviare presso la capitale schiere di abili soldati, utili a sedare le cicliche rivolte destinate a sconvolgere i mari incostanti della storia cinese. Dopo gli anni di sofferenza e fame trascorsi come effetto collaterale della rivoluzione maoista, che con il suo Grande Balzo in Avanti aveva messo in atto riforme per marginalizzare l’economia delle campagne, gli odierni nove milioni circa di persone capaci di riconoscersi in questa etnia riguadagnarono l’orgoglio nell’eredità culturale del proprio popolo, riconosciuto ufficialmente come una delle 54 minoranze del più vasto paese dell’Estremo Oriente. Fino a comparire occasionalmente, assieme ai loro vicini e storica controparte nei commerci dei Miao (aree occupate: Guizhou, Yunnan, Sichuan…) in numerosi documentari o spezzo televisivi finalizzati a far conoscere al mondo il ricco tessuto della vita e cultura ereditaria della Cina. Sussistono tuttavia alcune sostanziali differenze, tra le rispettive identità, che molto spesso il fruitore non-nativo tende a soprassedere, abbagliato dai fantastici colori dei loro costumi, copricapi e le affascinanti tradizioni tutt’ora praticate dai rispettivi rappresentanti. Tali da poter definire, in un certo senso, i Tujia come il popolo maggiormente “musicale” o “danzante” dell’intero entroterra d’Asia…

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L’isola sopravvissuta secoli nutrendosi di palme velenose

L’anno era il quattordicesimo dell’era Keicho (1609 d.C.) non troppo dopo l’inizio del regno dell’Imperatore Katahito e a seguito dell’epocale battaglia sulla piana di Sekigahara, costata la vita alla parte significativa di un’intera generazione di nobili e popolani. Ancora una volta Tamaki guardò fuori dalla finestra della sua nuchijaa in legno con tegole di terracotta, avendo cura di non affacciarsi in maniera troppo evidente per i sorveglianti con le due spade. Mentre accarezzava pensierosamente il bastone con l’anima di ferro, arma ereditaria della sua famiglia, si rivolse quindi alla propria consorte Beniko “Puah, samurai! Non riesco ad immaginarmi nulla di meno giapponese” Smettendo per un attimo di percuotere con enfasi il mochi dalla strana consistenza che stava preparando in un pentolone, lei ebbe appena il tempo di rivolgergli uno sguardo preoccupato, prima che i ricordi sopraffacessero entrambi. Di un epoca capace di sembrare lontana di anni ed anni, prima che le navi dai vessilli verdi del clan Shimazu sbarcassero sulla verdeggiante isola di Amami, permettendo ai loro occupanti di dichiarare le terre emerse del sub-arcipelago delle Ryukyu come un proprio territorio per il concetto quasi-universale del destino manifesto, sopra cui imporre la dura legge e tassazione di un distante daymyo nel suo castello, circondato da tesori dell’arte e incalcolabili ricchezze della nostra Era. “Marito, metti via l’hanbō per favore. Sai cosa è successo al nonno e se soltanto l’uomo là fuori dovesse sospettare un intento di ribellione da parte nostra, ordinerà di nuovo ai suoi sottoposti di erigere i pali. Se dovessi finire crocifisso, non sopravviverei…” Parole tremule, ma un’espressione risoluta. Di guerrieri, navigatori, ecclesiastici disallineati. Per lunghe generazioni, all’insaputa dei sedicenti Shōgun di Heian-kyō (Kyoto) prima e i signori della guerra della guerra civile, la gente di Amami aveva commerciato e conversato con i mercanti provenienti dalla Corea, Cina e altre terre lontane, apprendendo norme della tecnica e della scienza precedentemente inusitate. Assieme alle storie di un uomo vissuto, morto e resuscitato oltre un millennio e mezzo fa in Galilea. Ed era proprio in suo nome che adesso, esisteva una simile possibilità: “Vorresti dirmi che non abbiamo altra scelta? Dare via il nostro raccolto e soffrire, per l’ennesima volta, il tormento del sotetsu jigoku?” Fu allora che un suono distante sembrò risuonare nel loro giardino: era la Shishi-odoshi, canna di bambù dondolante che colpiva la pietra sonora posta alla sua estremità. “Niente affatto, mio caro. Ti sto consigliando di assaporarlo, preparandoti a un’ora della riscossa che potrebbe anche non giungere mai!”
Sotetsu (ソテツ in alfabeto sillabico, non esistono kanji per definirla) è una “palma” del gruppo delle cicadofite, in realtà parte di quell’antichissima gruppo di gimnosperme (piante dal seme nudo) che da oltre 300 milioni di anni sopravvivono e si propagano a dismisura, nella maggior parte dei biomi tropicali e non solo. Mentre jigoku (地獄) significa, letteralmente, inferno. Un’associazione o metafora, questa, quanto mai appropriata soprattutto all’epoca, per definire l’ultima risorsa disperata di un intero popolo isolano costretto più volte a fare la fame, prima per l’occasionale verificarsi di periodi di magra e catastrofi naturali, quindi per le dinamiche sociali imposte da un crudele corso della storia. E più volte viene narrato, nella letteratura locale, di quanto terribile fosse, in origine, consumare i frutti, le foglie e persino il tronco specie locale della Cycas revoluta, basso e tarchiato arbusto dalle foglie lanceolate, naturalmente in grado di produrre la cicasina, una sostanza a base di glucosio capace di causare conati, nausea, diarrea e gravi conseguenze sull’integrità dei reni e del fegato umano. Questo almeno finché la gente dell’isola di Ashima non scoprì, forse accidentalmente, che lo stesso fungo impiegato per trattare la soia allo scopo di farla fermentare nella preparazione del miso, l’Aspergillus oryzae o più semplicemente koji (麹) poteva sortire un effetto quasi mistico sulla polpa ridotta in polvere dell’amata-odiata pietanza vegetale. Separando il principio attivo dalla parte commestibile durante la fermentazione in maniera sufficiente perché fosse possibile, a quel punto, passare alla fase successiva di una complessa e importantissima procedura…

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Il senso del burro preistorico sepolto nelle torbiere inglesi

L’aspetto a cui molti non pensano guardando il cartone animato de “Gli Antenati” (a.k.a, The Flintstones) è che sebbene immaginare pterodattili che migliorano la ricezione della TV, pellicani lavapiatti, spazzole coniglio e così via dicendo appartenga decisamente alla metà meno coerente dello spettro del possibile, l’intento creativo dietro a simili soluzioni tecnologiche non era del tutto scevro di riferimenti a una possibile grande realtà: che prima di possedere metodi avanzati per imbrigliare e mettere al proprio servizio la natura, l’umanità non poteva far altro che sfruttarla per quello che era, addomesticando più o meno letteralmente i processi alla base del suo effettivo funzionamento. Il che costituisce soltanto un ulteriore modo per dire che si, c’è una macchina invisibile che governa il moto essenziale di cause ed effetti di questo mondo, ed il suo funzionamento, pur essendo spesso contro-intuitivo, può essere previsto mediante l’impiego delle giuste risorse analitiche o mentali. Ed è proprio questa, la fonte dei dogmi previsti nelle antiche discipline o filosofie religiose, molto più pragmatiche di quanto si possa pensare: tu indosserai vestiti, poiché in questo modo il tuo corpo sarà meno vulnerabile alle malattie; tu non mangerai carne di un determinato animale, poiché se si tratta di cibo che proviene da lontano, rischieresti d’introdurre nel tuo organismo batteri pericolosi; tu renderai omaggio al clero (questa è un’assoluta costante di tutte le culture); ed infine, una volta emulsionata e separata la parte semi-solida della sostanza alimentare di provenienza generalmente bovina e chiamata latticello, la rinchiuderai all’interno di un involucro di legno, pelli o corteccia, per procedere quindi in un sacro rituale di “offerta agli Dei”. O almeno, questo è quello che è stato ritenuto a lungo dagli archeologi, sulla base del comune processo d’iterazione che conduce spesso ad attribuire a motivazioni di carattere religioso o in qualche modo folkloristico tutte quelle attività, per una ragione o per l’altra attribuite all’uomo preistorico, la cui funzione appare massivamente poco chiara.
Un “burro di palude” (ammesso e non concesso che si possa usare la forma singolare di questo nome plurale indicante una quantità) è nei fatti un ammasso di sostanza cerosa solidificata e attentamente inscatolata, prevalentemente a base di grassi dalla chiara provenienza animale, ripescato più o meno accidentalmente dalle profondità di una palude di torba dell’isola inglese o d’Irlanda, in merito a cui datazione al carbonio permette di attribuire un periodo di origine tra i 1.500 e i 2.000 anni a questa parte, variabile a seconda dei singoli casi. Sepolto dagli abitanti di queste terre attorno alla tarda Età del Bronzo, probabilmente nei periodi di maggiore opulenza e in cui l’esistenza di un surplus permetteva di separarsi, anche soltanto temporaneamente, da copiose quantità di un fluido tanto prezioso. Sappiamo per certo in effetti, grazie a frammenti letterari e trattazioni risalenti all’epoca Medievale, di come il burro, lo strutto e il sego (alternativo prodotte dalla carne dell’animale stesso piuttosto che la sua secrezione naturalmente nutritiva) venissero comunemente utilizzati per produrre candele, impermeabilizzare le abitazioni e mescolato alla ghiaia e sabbia, al fine di creare una sorta di rudimentale cemento. Il che in aggiunta alla sua funzione alimentare, lo rendeva anticamente una merce di scambio piuttosto ambita, benché a differenza del sale o le spezie provenienti da terre lontane, avesse un problema di gravissima entità: dopo un periodo relativamente breve, diventava rancido, maleodorante e incommestibile. A meno che…

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Larve di vespa: piatto forte di un insolito Giappone

Molto del successo che la cucina dell’arcipelago è riuscita ad acquisire attraverso le ultime generazioni della gastronomia internazionale deriva, con conclamata evidenza, dall’abilità e il fascino della presentazione tipica di taluni piatti, che nutrono il nostro senso estetico ancor prima dell’organismo perennemente in cerca di nuovi metodi per garantirsi il sostentamento. Chi non conosce, soltanto per fare qualche esempio, l’aspetto invitante del sushi attentamente arrotolato nell’alga nori, la composizione artistica del pasto da asporto bento nella sua scatolina tradizionale in legno, oppure l’armonia di colori dei wagashi (dolci nazionali) con l’impasto di mochi (pasta appiccicosa di riso) o fagioli azuki, o ancora l’aspetto corroborante di un piatto di ramen o somen, pasta lunga con l’accompagnamento di una varietà d’ingredienti straordinariamente vari e diversificati tra loro. Potrebbe dunque certamente lasciare basiti sedersi all’interno di un ristorante alla moda di una grande città come Tokyo e ordinare un misterioso piatto di hachinoko (蜂の子) soltanto per vedersi portare una pietanza che non sfigurerebbe certamente in una qualsiasi puntata degli show di sopravvivenza dell’ex-soldato delle forze speciali inglesi Bear Grylls, famoso per nutrirsi di cose che in molti non si azzarderebbero neppure a chiamare “cibo”. Perché il problema vedete, è che l’occidentale medio può anche apprendere in linea teorica il significato di una combinazione d’ideogrammi ma il più delle volte, tenderà a interpretare le cose in maniera più o meno letterale soltanto in base alla situazione e il contesto. Ragion per cui difficilmente, qualora si trovasse a ordinare una pietanza denominata “figli (ko – 子) di (no – の) ape/vespa (蜂 – hachi)” egli penserà di stare per mangiare effettivamente, le larve di alcune delle più note impollinatrici vegetali, con tutto l’accompagnamento di orrore potenziale che ciò comporta. Ma la pressione sociale, reale o percepita, può portare a fare molte cose. E nell’ambiente formale di una simile situazione, circondati da un’atmosfera di assoluta serietà professionale, si può persino giungere a scoprire il fascino di un nuovo sapore…
Ora quando un giapponese usa il termine hachi, può in effetti riferirsi ad un vasto ventaglio di specie artropodi, grossomodo corrispondenti al clade tassonomico ancora non ufficialmente riconosciuto degli Anthophila, ovvero tutti quei particolari imenotteri, volanti per la maggior parte della propria vita, che sopravvivono utilizzando un apparato boccale succhiatore perfezionato per estrarre sostanze nutritive dai fiori. Nel momento in cui in Giappone ci si approccia all’argomento da un’ambito alimentare, tuttavia, è altamente probabile che l’insetto preso in considerazione sia la Vespula flaviceps, un calabrone tipico dell’Asia Orientale temuto da secoli per il dolore causato dal potente veleno del suo pungiglione. Ed assai amato, nel contempo, per il sapore notoriamente gradevole dei suoi neonati vermiformi, particolarmente apprezzati in prefetture come quelle di Nagano, Gifu ed Aichi, dove la distanza dalle coste rendeva assai difficile, soprattutto in epoca pre-moderna, poter disporre del principale cibo invernale dell’arcipelago, il pesce. È soltanto nel momento in cui si dovessero finalmente lasciare le ombre degli alti grattacieli metropolitani, meta di una soverchiante percentuale del turismo interessato a quel paese distante, che sarà possibile scoprire tutte le più profonde e complesse ramificazioni di una simile fonte d’alimentazione. Nonché una marcata propensione giapponese, certamente insospettata da molti, verso il campo apparentemente nuovo dell’entomofagia…

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