Il nuovo cranio del tiranno che ha precorso i dinosauri e la deriva dei continenti

Molte cose possono succedere in 40 milioni di anni. Ma è piuttosto raro, nello studio di un processo che la scienza ha dimostrato progredire in senso lineare, che un singolo fenotipo evolutivo possa palesarsi, svanire, ritornare a palesarsi come se nulla fosse su una scala e con diffusione persino maggiori. Quale potrebbe essere, a tal proposito, la caratteristica maggiormente indicativa dei maestosi rettili che un tempo dominavano la Terra? Le dimensioni, senz’altro. Le forti zampe e gli affilati artigli. Ma più di ogni altro aspetto, un cranio duro e spesso, con mandibole potenti pronte ad azzannare le opportune fonti di sostentamento, fossero state piante o altri animali della loro epoca del tutto priva di pietà o quartiere. Immaginate dunque lo stupore dei paleontologi, quando nel fatale 2012 scovarono nel sud-est del Brasile i resti incompleti di una creatura possibilmente simile a un famelico predatore del Giurassico o del Cretaceo. Ma vissuta, dal momento della sua prima occorrenza alla probabile estinzione assieme a circa il 72% dei generi esistenti, tra 265 milioni e il termine del Permiano, un’epoca dominata da clima secco e primordiali rettili con forme arcaiche e nicchie ecologiche ancora non del tutto definite. Sarebbe d’altra parte ragionevole affermare, a tal proposito, che l’intero ambiente abitabile del pianeta Terra fosse caratterizzato da un ecosistema privo di barriere invalicabili, a causa dell’esistenza di un singolo continente, la Pangea. Fino a che punto un animale potesse, in tali circostanze, dominare sui propri pacifici coabitanti da un lato all’altro dell’oceano è stata una questione lungamente discussa, allorché la maggiore concentrazione delle creature dell’ordine dei dinocefali (“dal cranio terribile”) venne dimostrata concentrarsi nelle terre che in seguito avrebbero costituito l’Africa centrale e la Russia, all’epoca adiacenti. Il che permette di contestualizzare il primo fossile della specie chiamata Pampaphoneus biccai, con rifermento al bioma faunistico delle pampas, la sua natura predatoria e José Bicca, il proprietario della fattoria da cui venne esposto finalmente alla luce del sole, come tanto più interessante e significativo, in quanto utile a dimostrare l’estensione dell’areale di quel gruppo tassonomico ben oltre quanto avessimo originariamente sospettato. Un possibilità riconfermata dal secondo esemplare incompleto e più grande ritrovato nel 2019, ma che trova finalmente una validissima conferma, nel nuovo fossile oggetto dello studio appena pubblicato sulla rivista della Società linneana di Londra da scienziati della UNIPAMPA e l’Universidade Federal do Rio Grande do Sul (UFRGS) alle prese con un nuovo, quasi intonso esempio di cranio ritrovato tra gli strati geologici della formazione del Rio do Rasto. Il tipo di reperto in grado di cambiare totalmente le pregresse cognizioni sul funzionamento di un’intera catena alimentare…

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La chitarra nuotatrice tra il concetto di razza e squalo

Pesce cuneo, pesce freccia, pesce topo e pesce treccia. Ogni pesce ha la sua forma ed ognuna di queste ultime ricorda, per associazione, una creatura, oggetto o sentimento di noi esseri di superficie. Di strumento, d’altra parte, ce n’è uno e solamente quello: acustico, meraviglioso, triangolare portatore di stupore. E meraviglia? Dipende dalla specie a cui appartieni. Giacché piccoli molluschi o crostacei non saranno particolarmente lieti d’incontrare un membro dei Rhinopristiformes, la creatura che si aggira per i mari del Pacifico e l’Oceano Indiano sempre in cerca, sempre attenta, percependo i minimi dettagli delle circostanze. E tutto il resto è musica, direbbe qualcuno, ma la realtà è che c’è soltanto fame, a far da guida ai loro gesti e pattugliamenti eternamente ripetuti. Di un predatore come tanti, nel comportamento e come pochi nell’aspetto, giacché non è facile comprendere precisamente il tipo tassonomico cui siamo innanzi. Di un… Condritto, questo almeno è chiaro, classe di esseri marini senza ossa nello scheletro composto unicamente da parti cartilaginee, il che ha reso complesso fin dall’invenzione della paleontologia dirimere il mistero della loro discendenza. Ritenuta essere in comune per il tipico protagonista d’infiniti film di paura che si svolgono nel punto di contatto tra la terra e il mare, e il principale pesce “alato” con la forma di una grande ala che ricorda vagamente il bombardiere americano B-29. O forse sarebbe meglio affermare il contrario? Dopo tutto razze o mante esistono da lungo tempo. Ed il progresso d’implementi bellici non sempre tiene in considerazione i crismi dei suoi ormai vecchi modelli. E d’altra parte abbiamo in questo essere fin qui soltanto menzionato, il perfetto pièce de résistance o chiave di volta, o anello mancante tra le due categorie apparentemente distanti, individuabile a partire dalla forma posseduta dall’intera distintiva categoria di questi animali. Non a caso definiti per associazione razze-squalo, con riferimento alla forma piatta con in più la coda lunga e muscolosa, propria di quell’altro tipo di carnivori comprensibilmente temuti dall’uomo. Così rappresentati in questo caso da una specie soprattutto, la notoriamente minacciata e fortemente distintiva Rhina ancylostoma “dalla bocca ad arco” in forza della riconoscibile conformazione del suo apparato di fagocitazione, così efficiente in quello che più di ogni altra cosa gli riesce meglio. Risucchiare, masticare, far valere il proprio diritto alla spietatezza che conduce per quanto auspicabile alla sopravvivenza…

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Quando un finocchio taumaturgico valeva il doppio del suo peso in denarii

Tra le pietanze più pregevoli citate nel De re coquinaria, ricettario del III-IV secolo d.C. basato sull’opera e la vita di Marco Gavio Apicio, celebre cuoco dell’epoca dell’imperatore Tiberio, un ingrediente tenuto in alta considerazione sembra essere una preziosa erba proveniente soltanto da una piccola regione dalla Cirenaica, grosso modo corrispondente all’attuale Libia orientale. Tagliato a pezzi, sminuzzato, trasformato in succo o messo crudo nelle salse, parrebbe esserci davvero poco in grado di rivaleggiare con il cosiddetto silphium, quella che per inferenza parrebbe essere stata una pianta ombrellifera del genere Ferula, appartenente alla stessa famiglia del sedano, le carote ed il prezzemolo. Proprio perché rimpiazzabile con la Ferula assa-foetida o concime del diavolo proveniente dall’India, dotata di alcune proprietà comparabili ma un gusto, e soprattutto un aroma decisamente meno invitanti. Eppure in base al resoconto di Plinio il Vecchio nel suo Naturalis historia (77-78 d.C.) ad essa restavano impossibili da replicare i benefici dell’originale, che includevano la cura della pleurite, l’epilessia, le infiammazioni, la calvizie, il mal di denti e addirittura i morsi di cane o le punture di scorpione. Potendo inoltre agire se assunto in quantità copiose come afrodisiaco e al tempo stesso, anti-concezionale (o abortivo) entrambe doti particolarmente desiderabili in particolari frangenti. “Tuttavia” continuava il grande storico: “È oggi sempre più raro poter disporre di questa pianta miracolosa, i cui prati d’origine vengono acquistati dai repubblicani avidi, che vi fanno pascolare capre o pecore causandone la distruzione. Tanto che ad oggi, il prezzo del silfio si avvicina ormai a quello dell’argento.” Il che introduce a margine della questione il punto maggiormente problematico: la maniera in cui, nonostante le significative ricerche condotte sull’argomento, non sappiamo e non possiamo disporre al di la di ogni ragionevole dubbio di questo miracoloso ingrediente. Da molti considerato la prima vittima storicamente riscontrabile del sovrasfruttamento ad opera dell’uomo, che potrebbe averne causato l’estinzione a causa del suo valore percepito, coadiuvato dall’impossibilità egualmente riscontrata di coltivarlo in cattività. Se non addirittura del mutamento climatico, a causa del progressivo inaridimento dell’intera regione del Maghreb. Fino al tragico momento, anch’esso raccontato nel testo di Plinio, in cui l’ultimo preziosissimo gambo venne offerto in dono a Nerone, che lo mangiò senza eccessive cerimonie ponendo il suggello all’irrimediabile capitolo finale di questa vicenda.
Incoraggiati dalla reputazione semi-leggendaria di una simile pietanza, tuttavia, diversi studiosi d’epoca contemporanea hanno esplorato la possibilità che il silfio possa ancora esistere e che semplicemente, ad oggi, siamo diventati incapaci di trovarlo perché non abbiamo compreso esattamente la sua natura. Uno tra questi è Mahmut Miski, professore di farmacologia all’università di Istanbul, convinto di averne ritrovato un’intera colonia in prossimità del monte Hasan, nella Turchia centrale…

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Parlando dei clatrati, ovvero la prigione cristallina che trattiene sotto il mare l’ultimo respiro della Terra

Quando si pensa all’ora di un fenomeno estintivo sorgono alla mente due fondamentali tipologie di scenari: il primo è un’Apocalisse dalle origini esterne, ovvero l’impatto di un meteorite, oppure l’emissione di raggi gamma da parte di una distante Supernova, o ancora l’anomalia gravitazionale dovuta a un’improvviso passo falso nella danza dei corpi del Sistema Solare. Alternativamente, tra le nostre paure più frequentemente discusse, sussiste la casualità di un fattore di devastazione indotto da una situazione sussistente del nostro stesso pianeta, spesso di origine antropogenica, ma non necessariamente tale: una guerra mondiale, un disastro atomico, l’eruzione di un mega-vulcano. Tutte cause allo stesso modo irrisolvibili, a differenza del graduale, inesorabile riscaldamento terrestre. Un degrado che potrà durare secoli, o millenni, mentre la biodiversità dei continenti continuerà a soffrire, le risorse alimentari diminuiranno e la popolazione umana vedrà compromessa sempre più la qualità della propria esistenza. Ma che cosa succederebbe se tale fenomeno, piuttosto che richiedere generazioni, potesse accelerare al punto di giungere alle sue più gravi conseguenze nel corso di una singola vita umana? A quanti metodi o contromisure potremmo, in ultima battuta, fare ricorso nel tentativo di arginare il disastro? Questa è la tremenda contingenza, teorizzata per la prima volta nel 2003 dal paleoceanografo statunitense James P. Kennett, definita come l’ipotesi della pistola (o cannone) di clatrati, al fine di sottolineare non soltanto la sua assoluta letalità, ma il modo in cui potrebbe accadere, in termini geologici, letteralmente da un momento all’altro e senza nessun tipo di preavviso. Come, secondo lui e colleghi, potrebbe essere successo esattamente 251,9 milioni di anni fa per la grande estinzione del Permiano-Triassico, il più grave evento di questo tipo nella storia di questa Terra, che portò alla scomparsa di oltre il 57% delle famiglie biologiche esistenti. O ancora, su scala inferiore, durante il massimo del Paleocene-Eocene, quando la media di temperature su scala globale aumentò di circa 8 gradi, causando entro 1.000 anni la dipartita del 35-50% delle creature delle acque profonde, mentre si verificava una sostanziale riduzione nelle dimensioni dei mammiferi sulla terraferma. E tutto questo a causa della compromissione incontrovertibile di un delicato equilibrio tra temperatura e pressione, necessario al mantenimento dello status quo implicitamente favorevole alla nostra e altrui sopravvivenza. Il che ci porta, per l’appunto, alla descrizione di cosa sia esattamente un clatrato (o idrato gassoso) e la maniera in cui la sua eventuale cessazione dell’esistenza possa costituire un essenziale punto di non ritorno, causando l’effetto a cascata che conduce inesorabilmente alla perdizione. Suscitando il dubbio, effettivo ed innegabile, che sia davvero possibile fare qualcosa per evitarlo…

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