L’enigma oceanico dell’albero impiegato per intrappolare le persone

AD 1790: Waru camminava curvo sotto il peso delle catene, quelle che i coloni provenienti dalle terre oltre il mare avevano assicurato alle sue spalle, al collo e ai polsi dopo che i giovani del suo villaggio si erano ribellati ad un fato eccessivamente crudele. Il guardiano capofila della carovana, composta in numero maggiore di membri del popolo Miriuwung Gajerrong della regione di Kimberley, amici, lontani parenti, compagni di caccia, stavolta condotti da coloro che amavano farsi chiamare nella propria lingua blackbirders ovvero “[catturatori] di uccelli neri”. I pirati anglofoni senza nessun tipo di quartiere per coloro che potevano servire, in qualche modo, ai loro sinistri scopi. Il che tendeva a rivelarsi doppiamente vero per coloro che facevano parte della generazione di Waru, tanto problematici nei confronti del loro dominio, con mazze, boomerang ed altre armi di una dura ribellione, quanto potenzialmente utili, una volta trasportati lungo le coste australiane fino alla baia di Kuri e Wallal Downs, località famose per la quantità di ostriche da perle presenti naturalmente sui loro fondali. Un letterale tesoro, pronto da cogliere ed almeno in circostanze ideali, soprattutto considerata la rinomata presenza di squali, lavoro perfettamente idoneo ai rappresentanti della sottomessa etnia. Mentre il gruppo procedeva sotto il pungolo di lance e canne di fucile, quindi, Waru riconobbe la sagoma che stava comparendo all’orizzonte: quella del gadawon quasi del tutto privo di foglie in questa stagione, anche chiamato l’albero sacro o albero bottiglia, per il prezioso contenuto d’acqua e le sostanze nutritive nascoste sotto la dura scorza dei propri frutti, simili a noci giganti. Due dei carcerieri si scambiarono quindi alcune parole, che a loro insaputa il guerriero Miriuwung riuscì a comprendere alla perfezione: “Tutti e 12 non entreranno sulla nostra barca. Mettine… Quattro là dentro e scegli una guardia. Torneremo a prenderli più tardi.” Oh, sacrilegio! Pensò Waru, scambiandosi uno sguardo con il suo compagno di sventura più vicino, stringendo i pugni finché le sue nocche assunsero il pallore dei morti. Perché sapeva cosa stava per succedere: molti gadawon, infatti, possiedono una cavità interna. Abbastanza grande per farci entrare un certo numero di malcapitati, nella più totale noncuranza della loro effettiva funzione nei rituali funebri e per il benessere del grande Spirito dei villaggi…
Fatto, verità storica, ipotesi o una semplice allegoria? Che l’albero-prigione di Derby, o quello quasi identico di Wyndham, cittadina situata quasi 1500 Km a nord-est, siano stati effettivamente utilizzati come prigioni temporanee per gli aborigeni costretti ad una vita di schiavitù dai coloni europei d’Australia, resta oggi una vicenda totalmente priva di conferme oltre a quella del sentito dire. Benché in effetti, sia perfettamente lecito pensare a un simile utilizzo per questi due rappresentanti della specie Adansonia gregorii, anche detta del boab o baobab d’Oceania. Un albero tendenzialmente più basso, ma per il resto quasi indistinguibile dal proprio omonimo subsahariano, noto per la sagoma riconoscibile in tante foto sudafricane. Ed in funzione di ciò dotato non di un singolo tronco bensì quello che viene generalmente definito il caudex, ovvero lo “stelo” risultante nello specifico caso da una serie di controparti verticali derivanti dallo stesso ammasso di radici, la maggior parte delle volte in grado di fondersi assieme ad anello, formando uno spazio vuoto e ombroso, accessibile soltanto attraverso un piccolo pertugio. Il quale, in realtà, poteva servire a molti possibili scopi…

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Il bianco pipistrello che costruisce la sua tenda tra i rami

Guardatevi, aspiranti visitatori di regioni centro-americane, dalla guida forestale honduregna che dovesse raccomandarvi di “cogliere il bianco frutto della pianta di heliconia“. Arbustiforme o erbacea dalle caratteristiche infiorescenze a cascata, spesso situate nella tipica configurazione della brattea, ovvero subito al di sotto delle sue grande foglie. Tanto che non sarebbe apparso niente affatto assurdo, per non dire improbabile, che quel caratteristico piccolo assembramento di forme tondeggianti e candide, ricoperte di peli, dovessero costituire l’equivalenza locale di un kiwi, pesca o rambutan. Provate soltanto ad avvicinarvi a questo ammasso, tuttavia, per scorgere qualcosa di assolutamente fuori dagli schemi previsti: un indistinto, diffuso senso di movimento e non del tipo indotto da un’accidentale folata di vento. Bensì paragonabile al moto indotto da una qualche specie artropode simbiotica o parassitaria, come bruco, vespa o bestia similare. Se non che, all’analisi più approfondita, scoprirete come sia in effetti TUTTO il “frutto” a muoversi, non soltanto la sua scorza brulicante come nel caso di un fico, ancorché si tratta, nella sua interezza, di un qualcosa che dei fichi è solito mangiare la sua giusta dose. Un vero, bianco, irsuto pipistrello! Con il naso a foglia di un colore giallo paglierino (non per niente sono soliti chiamarlo Ectophylla alba) come le sue orecchie, così replicato in (minimo) cinque o sei esemplari, che all’avvicinarsi della vostra mano male informata, potrebbe anche scegliere di sollevarsi in volo. In quanto insolito rappresentante, con i suoi massimo 50 mm di lunghezza, dell’unico ordine di mammiferi a cui l’evoluzione abbia insegnato a farlo.
Mentre ciò che non tendiamo ad associare verso simili creature della notte, è l’innata propensione a costruire un qualche tipo di struttura, il più basico strumento di una qualsivoglia specie aviaria: il nido che protegge, nasconde e qualche volta, offre riparo, a queste latitudini battute dalla pioggia per moltissimi, umidi centimetri ogni anno. Ciò soprattutto perché, contrariamente ai tipici pennuti con i loro aguzzi becchi, non depongono le uova e non necessitano quindi del canestrello di rami e sterpaglie, in genere sostituito dal soffitto sdrucciolevole di una caverna. Ma che dire del pipistrello bianco dell’Honduras, che proprio in funzione della sua regione geografica di provenienza, non dispone di una simile opportunità? Si potrebbe persino affermare che il suo metodo sia l’UNICO possibile: librarsi fino al trespolo di una delle succitate foglie, lunghe generalmente tra gli ottanta centimetri ed il metro e venti. E quindi cominciare, con i propri denti piccoli ma aguzzi, a masticare lungo l’estendersi della sua venatura centrale. Finché quest’ultima, ormai del tutto priva dell’originale solidità strutturale, non finisca per piegarsi su se stessa in forza della gravità terrestre. Formando quella che viene definita in gergo una “tenda” ovvero il più perfetto rifugio dalle intemperie e in molti casi, anche lo sguardo pericolosissimo dei predatori. Senza mai dimenticarsi, ad ogni modo, del proprio ruolo nell’economia dinamica di tali circostanze…

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Svelata l’origine dell’uccello più Inaccessibile al mondo

“Preso, finalmente!” Sembra quasi di udire ancora tra i ventosi promontori, situati a picco sul mare, dell’isola il cui nome contiene una dichiarazione programmatica d’intenti. Inaccessibile, anche nei fatti a causa della sua particolare posizione geografica, le condizioni meteorologiche e la natura delle coste non propriamente favorevoli all’approdo. A parlare, fu il biologo e naturalista Martin Stervander dell’Università di Lund in Svezia, rivolgendo l’esclamazione all’indirizzo dell’invisibile mist net alias “rete giapponese”, usata in tutto il mondo dai suoi colleghi per catturare esemplari di uccelli di vario tipo. Il che dovrebbe convenzionalmente indicare, il più delle volte, creature volanti. Ragione per cui l’apparato presenta delle apposite tasche situate a diverse altezze della sua estensione, in cui le creature in questione possano ricadere senza riportare alcun tipo di danno prima di essere esaminate con tutte le perizie del caso. Ma poiché la sua missione, in quel particolare caso, assumeva connotazioni assolutamente diverse dalle aspettative usuali, persino una simile impresa aveva richiesto uno sforzo maggiore del previsto. E ad agitarsi tra le maglie della trappola, coadiuvata da un registratore con il verso di un pigolante invasore del territorio, un coraggioso piccolo uccello, la cui funzione ecologica locale potrebbe essere paragonata a quella di un topo. Il che significa, in altri termini, che il rallo denominato Atlantisia rogersi (o semplicemente “dell’isola Inaccessibile”) non può assolutamente volare, passando piuttosto le sue giornate nascosto tra l’erba, andando a caccia d’insetti, vermi e altri artropodi, del tutto inermi dinnanzi ai suoi temibili 15 cm di altezza.
Creaturina marrone scuro che, per le implicazioni inerenti della sua stessa esistenza, ha costituito fin dall’epoca della sua prima descrizione scientifica un enigma assolutamente non trascurabile. Com’era effettivamente possibile, si chiesero nel 1922 i membri della spedizione Shackleton–Rowett, prima dei tempi moderni a passare da queste parti, che una creatura non volatile né tanto meno migratoria fosse riuscita a giungere fino a questa particolare isola dell’arcipelago Tristan da Cunha, nel mezzo del nulla a 2.432 Km di oceano da Città del Capo, e 3.486 dall’arcipelago delle Falklands a largo dell’America meridionale? La prima ipotesi è contenuta nel nome stesso Atlantisia, costituendo un chiaro riferimento all’esistenza di antichi paesi sprofondati per l’avanzare di una singola, devastante onda di marea. Dovete considerare che all’inizio del secolo, prima che l’ipotesi di di Alfred Wegener sulla deriva dei continenti fosse realmente accettata dalla comunità scientifica, si credeva che l’esistenza di specie animali simili agli angoli opposti del pianeta fosse essenzialmente dovuta alla presenza pregressa di antiche nazioni che avrebbero svolto la funzione di ponti di terra, come Lemuria, Mu e per l’appunto Atlantide, notoriamente citata da Platone nei dialoghi Timeo e Crizia nel IV secolo a.C. L’evidenza provava, tuttavia, che se davvero l’esistenza del rallo si era svolta in totale isolamento per un periodo misurabile in molti milioni di anni, la sua divergenza evolutiva e genetica da altre specie isolane dell’Atlantico avrebbe dovuto essere maggiore, inducendo gli scienziati a teorizzare un’ipotesi alternativa: gli antenati dell’A. rogertsi (appellativo derivante dal reverendo H. M. C. Rogers, che spedì il primo campione dell’uccello al Museo Naturale di Londra affinché potesse essere analizzato) si presentavano con un aspetto e capacità notevolmente diverse, essendo riusciti a giungere fin quaggiù sulla forza delle loro stesse ali a partire dalle terre emerse più vicine, ovvero quelle del Vecchio Continente. Ma se ci spostiamo in avanti di qualche generazione, fino all’epoca di Internet e dei cellulari con navigatore satellitare, possiamo facilmente renderci conto di come non tutti fossero convinti da quest’idea. Nella coerente formazione di un gruppo di opinionisti all’interno del quale figurava, per l’appunto, anche l’intraprendente svedese Stervander, al punto da ritrovarlo quaggiù nel settembre del 2011, armato di rete giapponese e gli altri attrezzi utilizzabili per catturare un uccello-topo. Ma non lasciatevi trarre in inganno: il suo studio è stato pubblicato soltanto all’inizio di questo novembre 2018 sulla rivista Molecular Phylogenetics and Evolution. Una cosa, per lo meno, è sicura: questo tipo di studi richiedono tempi piuttosto lunghi…

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Ibis eremita: cosa occorre per salvare l’uccello più raro d’Europa

Ogni anno ad agosto, in un susseguirsi d’articoli entusiasti sulle principale testate giornalistiche italiane, si ripete l’acquisizione concettuale da parte della cognizione pubblica dell’esistenza di una strana bestia. L’uccello nero dal becco a falce, con la testa nuda tranne per la cresta di piume sulla nuca, stranamente simile ad un copricapo dei nativi americani. Un passaggio ipotetico verso l’Africa settentrionale e il Vicino Oriente, ormai sovrascritto dalla selezione di località più geograficamente prossime al loro luogo di provenienza: lo zoo di Vienna. Questo per l’esistenza di un’importante oasi presso la laguna di Orbetello, in Provincia di Grosseto, scelta più volte da uno dei pochi gruppi della specie rimasti allo stato semi-libero, per svernare nel corso della loro migrazione annuale. Di sicuro, è un caso eccezionale: poiché il Geronticus eremita, il più raro esponente della famiglia dei Threskiornithinae (comunemente detta degli ibis) ha ormai da tempo immemore perduto quell’abilità che usava caratterizzarlo, quando veniva tra le altre cose impiegato dai pellegrini musulmani come letterale bussola dei cieli, durante il loro pellegrinaggio verso la Hajj. Le caratteristiche visive del paesaggio, in origine, forse coadiuvate dal campo magnetico terrestre, o il moto stesso delle nubi e dei venti. Prima che tali volatori della lunghezza di 80 cm e l’apertura alare di 135, a causa dell’aumento medio dell’umidità e temperatura dei loro luoghi di soggiorno mitteleuropeo, diventassero progressivamente stanziali, perdendo uno dei tratti evolutivi più importanti per la loro sopravvivenza. Così cacciati senza tregua dai bracconieri, le loro uova divorate da gatti, corvi e altre creature, oggi ne restano attualmente allo stato brado non più di 250 esemplari, principalmente concentrati in Marocco, mentre la popolazione in cattività se la cava decisamente meglio con oltre 1.000 uccelli tenuti complessivamente negli zoo di tutto il mondo. Una disparità potenzialmente proficua, questa, che ha origini decisamente remote: tra tutte le creature oggi a rischio d’estinzione, in effetti questo uccello è forse quella con la più lunga storia di conservazione ecologica, a partire da quando l’arcivescovo Leonhard di Salisburgo promulgò una legge, nel 1504, che ne vietava la caccia a tutti tranne i nobili d’Austria e potenzialmente d’Europa. Ma il declino della popolazione complessiva, già da allora, era chiaro ed evidente nella rarità con cui simili ali della premonizione sorvolavano i campanili delle chiese e i bastioni dei castelli, dove un tempo erano soliti costruire i loro nidi. Perciò appariva chiaro che dell’ibis eremita, entro un certo numero di generazioni, non si sarebbe ricordato più nessuno.
È una questione largamente nota ad ogni modo, che il corso dei progetti umani segue spesso una strada imprevedibile, disegnata dai fattori contingenti sulla mappa topografica della storia. Dunque avvenne che a partire dal 1977 in Turchia, per il ruolo sacro ricoperto da questi animali nella cultura e religione locale, trovò l’inizio il primo programma al mondo per la riproduzione controllata del maestoso volatore, condotto tramite l’impiego di voliere finalizzate ad impedire lo spostamento migratorio incontrollato in autunno, verso località storicamente problematiche per la sopravvivenza di questi uccelli. Un poco alla volta apparve tuttavia chiaro, attraverso la progressiva diminuzione degli esemplari, come questo tipo di vita non fosse propedeutica ad un ripopolamento efficace dell’ibis: tenuto in cattività per lunghi periodi, questa misteriosa creatura tende infatti a sviluppare problematiche ulcerazioni della pelle, mentre l’aumento implicito degli agi e della durata di vita (si stima da circa 15 ad oltre 30 anni complessivi) sembra diminuire ulteriormente il suo già basso tasso riproduttivo. Il che ci porta, senza ulteriori esitazioni, al moderno progetto in corso dall’ormai remoto 2002, consistente nel liberare undici individui provenienti dalla colonia tedesca affiliata allo zoo viennese e guidarli annualmente tramite il volo di un’ultraleggero, un po’ come fatto dal celebre fotografo Christian Moullec con le sue amiche oche, verso i territori africani della loro origine ancestrale. Peccato per loro che, come fatto da tante altre star dell’opinione internazionale, tanto spesso provenienti dal mondo splendido del cinema hollywoodiano, i pennuti abbiano assunto spontaneamente l’abitudine di fermarsi presso i lidi della penisola dal cielo notoriamente azzurro, terra più felice ed accogliente di quanto negli ultimi tempi molti di noi tendano, purtroppo, a pensare.

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