Ogni anno ad agosto, in un susseguirsi d’articoli entusiasti sulle principale testate giornalistiche italiane, si ripete l’acquisizione concettuale da parte della cognizione pubblica dell’esistenza di una strana bestia. L’uccello nero dal becco a falce, con la testa nuda tranne per la cresta di piume sulla nuca, stranamente simile ad un copricapo dei nativi americani. Un passaggio ipotetico verso l’Africa settentrionale e il Vicino Oriente, ormai sovrascritto dalla selezione di località più geograficamente prossime al loro luogo di provenienza: lo zoo di Vienna. Questo per l’esistenza di un’importante oasi presso la laguna di Orbetello, in Provincia di Grosseto, scelta più volte da uno dei pochi gruppi della specie rimasti allo stato semi-libero, per svernare nel corso della loro migrazione annuale. Di sicuro, è un caso eccezionale: poiché il Geronticus eremita, il più raro esponente della famiglia dei Threskiornithinae (comunemente detta degli ibis) ha ormai da tempo immemore perduto quell’abilità che usava caratterizzarlo, quando veniva tra le altre cose impiegato dai pellegrini musulmani come letterale bussola dei cieli, durante il loro pellegrinaggio verso la Hajj. Le caratteristiche visive del paesaggio, in origine, forse coadiuvate dal campo magnetico terrestre, o il moto stesso delle nubi e dei venti. Prima che tali volatori della lunghezza di 80 cm e l’apertura alare di 135, a causa dell’aumento medio dell’umidità e temperatura dei loro luoghi di soggiorno mitteleuropeo, diventassero progressivamente stanziali, perdendo uno dei tratti evolutivi più importanti per la loro sopravvivenza. Così cacciati senza tregua dai bracconieri, le loro uova divorate da gatti, corvi e altre creature, oggi ne restano attualmente allo stato brado non più di 250 esemplari, principalmente concentrati in Marocco, mentre la popolazione in cattività se la cava decisamente meglio con oltre 1.000 uccelli tenuti complessivamente negli zoo di tutto il mondo. Una disparità potenzialmente proficua, questa, che ha origini decisamente remote: tra tutte le creature oggi a rischio d’estinzione, in effetti questo uccello è forse quella con la più lunga storia di conservazione ecologica, a partire da quando l’arcivescovo Leonhard di Salisburgo promulgò una legge, nel 1504, che ne vietava la caccia a tutti tranne i nobili d’Austria e potenzialmente d’Europa. Ma il declino della popolazione complessiva, già da allora, era chiaro ed evidente nella rarità con cui simili ali della premonizione sorvolavano i campanili delle chiese e i bastioni dei castelli, dove un tempo erano soliti costruire i loro nidi. Perciò appariva chiaro che dell’ibis eremita, entro un certo numero di generazioni, non si sarebbe ricordato più nessuno.
È una questione largamente nota ad ogni modo, che il corso dei progetti umani segue spesso una strada imprevedibile, disegnata dai fattori contingenti sulla mappa topografica della storia. Dunque avvenne che a partire dal 1977 in Turchia, per il ruolo sacro ricoperto da questi animali nella cultura e religione locale, trovò l’inizio il primo programma al mondo per la riproduzione controllata del maestoso volatore, condotto tramite l’impiego di voliere finalizzate ad impedire lo spostamento migratorio incontrollato in autunno, verso località storicamente problematiche per la sopravvivenza di questi uccelli. Un poco alla volta apparve tuttavia chiaro, attraverso la progressiva diminuzione degli esemplari, come questo tipo di vita non fosse propedeutica ad un ripopolamento efficace dell’ibis: tenuto in cattività per lunghi periodi, questa misteriosa creatura tende infatti a sviluppare problematiche ulcerazioni della pelle, mentre l’aumento implicito degli agi e della durata di vita (si stima da circa 15 ad oltre 30 anni complessivi) sembra diminuire ulteriormente il suo già basso tasso riproduttivo. Il che ci porta, senza ulteriori esitazioni, al moderno progetto in corso dall’ormai remoto 2002, consistente nel liberare undici individui provenienti dalla colonia tedesca affiliata allo zoo viennese e guidarli annualmente tramite il volo di un’ultraleggero, un po’ come fatto dal celebre fotografo Christian Moullec con le sue amiche oche, verso i territori africani della loro origine ancestrale. Peccato per loro che, come fatto da tante altre star dell’opinione internazionale, tanto spesso provenienti dal mondo splendido del cinema hollywoodiano, i pennuti abbiano assunto spontaneamente l’abitudine di fermarsi presso i lidi della penisola dal cielo notoriamente azzurro, terra più felice ed accogliente di quanto negli ultimi tempi molti di noi tendano, purtroppo, a pensare.
L’ibis eremita, come uccello, ha sempre avuto una valenza mistica probabilmente dovuta al suo aspetto sovrannaturale e ultramondano. Raffigurato originariamente sui geroglifici egizi, assieme al più famoso e diffuso ibis sacro (Threskiornis aethiopicus) esso condivideva con lui il ruolo di psicopompo, ovvero traghettatore delle anime verso le regioni dell’aldilà. In epoca successivo, esso avrebbe assunto la denominazione scientifica di γέρων (vecchio) connotata dall’espressione ἐρημία (deserto) come chiaro riferimento ai climi aridi inerentemente preferiti dagli appartenenti all’insolita specie. In Germania, invece, viene ancora chiamato waldrapp, un termine che vuole dire “corvo di foresta” benché le corrispondenze concettuali con una tale interpretazione della specie appaiano decisamente limitate e superficiali. L’ibis eremita risulta essere in effetti, tanto per cominciare, piuttosto silenzioso e socievole, con gli unici richiami gutturali e poco penetranti emessi all’atterraggio di un compagno nel territorio della colonia o durante la stagione degli accoppiamenti. Altra caratteristica priva di corrispondenze nel suo stesso gruppo familiare dei Threskiornithinae, è quella di sopravvivere cercando il cibo non tanto in territori umidi o basse paludi, quanto piuttosto in zone completamente asciutte, dove piantare il proprio becco falciforme nella terra alla ricerca di insetti come gli scarabei, uccelli che nidificano a terra, piccoli mammiferi, scorpioni e ragni. Il che costituisce, nei fatti, un ulteriore margine di vulnerabilità. Soprattutto quando si considera che l’ibis ha bisogno, per sopravvivere, di un territorio molto particolare, privo di vegetazione e dal suolo sufficientemente friabile, affinché possa mettere in atto il suo specifico metodo di foraggiamento.
Per quanto concerne la riproduzione, questa avviene normalmente in primavera, quando i maschi di circa 3-5 anni d’età iniziano a inscenare una strana danza, muovendo la cresta ed emettendo suoni, affinché una possibile consorte possa notarli e rispondere positivamente alla proposta. Una volta accoppiati, questi uccelli intraprendono i passi che li porteranno a vivere assieme tutta la vita, dando inizio alla difficile costruzione del nido, generalmente costituito da una serie di rametti trasportati in un luogo alto, come una cornice rocciosa o qualche tipo di struttura costruita dall’uomo. Talmente è specifica la loro preferenza, in tale scelta di un’abitazione adeguata, che negli ultimi anni presso il parco marocchino di Sous-Massa interi gruppi di scalatori si sono assunti l’incarico di “scolpire” letteralmente nel fianco dei massicci d’arenaria spazi adibiti al loro utilizzo. Prontamente occupati dalle coppie in età riproduttiva, che qui hanno deposto, in media, tra le due e le quattro uova annue, di una tonalità blu chiaro tendente gradualmente al marrone nel corso dell’incubazione, fino all’auspicabile fuoriuscita del del pulcino e dei suoi fratelli 24-25 giorni dopo. Per i quali, nel corso della fase successiva, entrambi i genitori lavoreranno a turno, portando gli scampoli di prezioso cibo di cui avrà bisogno per crescere ed intraprendere, un giorno, la sua prima migrazione. Oltre a quelle già citate in Germania, Turchia e Marocco, è esistito una quarta comunità di ibis eremita mirata alla reintroduzione in natura, presso il deserto di Palmyra in Siria. Dove fu scoperta, nel 2002, una minuscola colonia selvaggia popolata da sette di questi uccelli, successivamente inserita in un assiduo programma di protezione e riproduzione assistita, fino al trionfale raggiungimento di una stagione con 24 pulcini in ottima salute. Successivamente liberati, confidando nella loro abilità di dare seguito alle stesse lunghe migrazioni che, attraverso i secoli, gli avevano permesso di continuare a esistere senza l’aiuto degli umani. Peccato che, con somma delusione e dispiacere dei loro custodi, l’anno successivo soltanto uno degli uccelli avrebbe fatto ritorno al luogo di nascita, rendendo se possibile ancor più evidente la necessità di seguire ed assistere questi animali in estrema difficoltà.
A partire dal 2008 in Spagna ha invece avuto inizio il cosiddetto Proyecto Eremita, mirante alla reintroduzione in natura della prole di alcuni esemplari appartenenti agli zoo, con risultati che si stanno rivelando ottimi in prospettiva: attualmente, nella penisola iberica esistono circa 78 uccelli suddivisi in due colonie, gelosamente chiuse al pubblico e protette da ogni possibile intrusione predatoria. Questi ibis, tuttavia, non migrano e conoscono soltanto un tipo di libertà fittizia, necessariamente resa incompleta dalla loro chiara vulnerabilità. E nessuno può realmente dire quanto a lungo ancora, questo stile di vita che è soltanto l’ombra di quello condotto un tempo, dovrà continuare a condizionare gli stregoni dal lungo becco, un tempo venerati come solenni rappresentanti della stirpe dei dominatori dei cieli.
Stregoni, spiriti guida, veri e propri totem di un mondo non-totemico, eppure inerentemente infusi di un valore sovrannaturale, grazie alla loro estetica al di fuori della cognizione relativa al “cosa” effettivamente dovrebbe essere, un uccello. L’eleganza evolutiva dell’ibis eremita si nasconde, volendo, nel suo stesso ruolo di astuto cacciatore del suolo di un pianeta ormai crepato per l’assenza dell’umidità. Forse verrà un giorno, non troppo lontano, in cui il mutamento climatico porterà di nuovo questi uccelli alla ribalta, assieme ai loro ultimi parenti treschiornitidi su questa Terra, gli ibis calvi (Geronticus calvus) del Sudafrica, Lesotho e Swaziland. Ed allora scopriremo, davvero, quale sia il nascosto potenziale dei sedicenti “corvi di foresta”, una volta tolto il corvo, che non c’entra nulla. E le foreste.