Gatti cosmici miracolosi, un miagolio propizio dalle ceneri del “nuovo” Giappone

Infiniti mondi possibili e altrettanti valichi tra i loro confini, spazi e intercapedini tra la semplice visione razionale dell’Universo. Tutto ciò il tipico felino domestico, nell’opinione popolare di molte culture indipendenti, può riuscire a percepire ed interpretare tramite il potere innato di relazionarsi con l’ineffabile, impercettibile, trasversale realtà immanente. Luoghi dove il rapporto tra le dimensioni contrapposte di creature ed oggetti, spesse volte, trasformano l’assodato in semplice apparenza, permettendo a simili creature di diventare progressivamente più grandi e trasfigurarsi, fino a raggiungere l’aspetto di strane e memorabili decorazioni urbane. Felini… In tuta spaziale… Alti 2 metri e 50, che osservano il passaggio della gente in vari luoghi della cittadine di Hakata (Fukuoka) e Nihonmatsu (Fukushima) sorvegliandone l’aspetto più traslucido e gli inconoscibili pensieri. Quasi come se l’estranea energia accumulata durante le ore diurne, successivamente al tramonto dell’astro solare, potesse permettergli l’accumulo energetico inerentemente necessario. Per accendersi e risplendere, come fari di speranza in un oceano di potenzialità vanificate, strade senza sbocco nel tristemente frainteso stradario del tempo. L’errore che denuncia e denunciava nei suoi trascorsi, in modo ancor più enfatico, l’autore di una simile scultura Kenji Yanobe, che della sua particolare interpretazione della pop-art contemporanea ha fatto una sorta di bandiera, utilizzabile per coniugare certi aspetti della comunicazione giapponese con la presa di coscienza del nostro presente, avvenire e quello stato di casualità incombente che prende il nome di “passato-futuro”. Così come, per tornare alla visione sempre propedeutica di strani mondi in strane linee temporali, il mondo negli anni ’90 potrebbe essere stato devastato dall’occorrenza della spesso paventata Catastrofe Nucleare. Relegando gli uomini, donne, bambini e i loro animali domestici a vivere all’interno d’indumenti o rifugi protettivi, del tipo a cui l’autore fu associato per svariate decadi attraverso la sua caratteristica produzione d’artista. Mentre le sue più recenti sculture feline, di cui esistono una mezza dozzina di versioni cromaticamente distinte, dislocate a partire dal 2017 in diversi luoghi tra lungomare portuali, centri cittadini, un ostello della gioventù ed il Dannohorin-ji buddhista di Kyoto parlano se non altro di una possibile rinascita e visione di speranza, nella maniera largamente esemplificata dal titolo dell’opera seriale: Ship’s Cat (il Gatto della Nave) dove l’auspicabile battello, impreziosito e reso interessante dalla presenza del peloso e antico amico dell’umanità, si presenta nella guisa prevedibile di una creazione in grado di vagare non soltanto per i mari terrestri, ma anche e soprattutto oltre i permeabili confini dell’atmosfera, fino a potenziali nuovi luoghi di scoperta e realizzazione dove, almeno questa volta, vorremmo riuscire a non introdurre accidentalmente le voraci piccole zanne del ratto nero. Facile? Probabilmente no. Magari persino impossibile. Ma tutto resta sempre possibile, nel favoloso & variopinto regno dell’immaginazione…

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L’isola da sogno dove le colline paiono costruite con la cioccolata

Un toponimo dal tono singolare è spesso l’espressione delle aspirazioni popolari o il corpus leggendario di un antico insediamento abitato, piuttosto che la letterale descrizione del luogo che è stato creato a rappresentare. Nessuno si aspetta, tanto per cominciare, di trovare il re dei metalli preziosi sulle pendici dei Colli d’Oro, incontrare animali defunti lungo le strade di Strangolagalli o Affogalasino né fare strane quanto memorabili esperienze lungo le pendici del Tumbledown Dick Head, montagna nello stato americano del Maine. In certi casi particolarmente interessanti, allo stesso tempo, un termine di tale tipo può derivare dall’intento descrittivo o in qualche modo intellettuale ispirato dall’aspetto del paesaggio ivi tangibile, evocando ad esempio il suo colore: vedi Monte Bianco, Rosa, Giallo (nel Montana) o la Hongshan (let. M. Rosso) del territorio cinese. Vi sono d’alta parte soltanto pochi luoghi al mondo, in cui la perfetta unità di meriti esteriori ed un profondo significato metaforico s’incontrano per dare luogo alla definizione prototipica perfetta, come nel caso filippino delle Mga Bungtod sa Tsokolate/Tsokolateng Burol, universalmente note con la traduzione letterale della stessa chiara espressione in lingua cebuana o tagalog. Poiché non è semplicemente possibile, tentare in alcun modo di soprassedere all’originale quanto significativa somiglianza delle coniche strutture preminenti presso l’isola e provincia di Bohol, parte centro-meridionale dell’arcipelago, con un’ordinata distesa a dimensioni maggiorate del tipico cioccolatino cilindrico e bulboso, noto su scala internazionale con il termine di “bacio” o “kiss“. Tanto che non sembrerebbe totalmente irragionevole pensare, da un punto di vista prettamente locale, che l’originale ditta cui viene attribuita l’invenzione di tale forma, la Hershey statunitense, possa aver trovato ispirazione proprio presso questi lidi remoti, al termine di un viaggio di meditazione e scoperta. Un’impressione ulteriormente accresciuta verso il termine della stagione secca, quando l’erba che ricopre le circa 1.260/1.776 insolite formazioni geologiche inizia a mutare la propria tonalità verso un marrone corposo, ancor più simile alla forma lavorata del popolare seme commestibile della pianta del cacao. Ecco come nasce, a questo punto, la leggenda di quella che potremmo annoverare a pieno titolo tra le principali attrazioni della regione, se non l’intero paese, raffigurata in innumerevoli cartoline, gadget e persino un dolce tradizionale a base di sesamo, considerato il perfetto pasabulong (dono da riportare ai propri amici o conoscenti al ritorno dal proprio itinerario di scoperta). E non che i locali sembrino aver mancato di apprezzare questo aspetto d’unicità ed attrazione quasi magnetica, con il primo decreto atto a proteggere la conservazione dell’intera regione risalente al 1994, come punto di partenza per la sua graduale trasformazione in vera e propria trappola per turisti, dove intere schiere delle corriere decorate jeepney, create a partire da mezzi militari americani per costituire i principali mezzi di trasporto pubblico nell’entroterra delle Filippine, si fermano al capolinea scarrozzando letterali migliaia di stranieri ogni giorno. Permettendogli d’intraprendere l’ultimo tratto di 214 scalini fino al punto d’osservazione più elevato, da cui scrutare un’immagine potenzialmente destinata a rimanere profondamente impressa nel repertorio fotografico della loro immaginazione…

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L’inesorabile maledizione per tre volte ridestata della pietra che ammazza i cinghiali

Una notizia datata all’inizio della seconda settimana di dicembre, ma che potrebbe risalire a un’epoca lontana: oltre cinque secoli dopo, è successo di nuovo. Lungi dal disperdersi con il trascorrere delle generazioni, quasi un anno dopo che l’odio accumulato in quel particolare sito ha ritrovato l’energia di spezzare la sua prigione e scatenarsi nel mondo, l’orribile possenza della pietra colpisce ancora. Mietendo in un sol colpo otto vittime incolpevoli, dagli zoccoli fessi ed il folto manto peloso, che auspicabilmente non mancheranno a nessuno. Ma mentre ritorniamo a immaginare una vendetta che ricada ai danni di possibili vittime umane, la mente ritorna alla memoria di particolari e imprescindibili contromisure…
Nel settimo anno dell’era Ōei (1401 d.C.) l’imponente monaco Genno Shinsho, accompagnato dai suoi due attendenti facenti parte della setta Shingon presso il tempio di Jingen-ji, fece il suo ingresso nella radura lavica costellata di grandi pietre. Il caratteristico samue blu, veste simbolo del suo ordine, veniva agitato dal vento sotto il più pesante rakusu, composto da 16 strisce di stoffa intessute assieme a preghiere protettive contro gli spiriti maligni, ricadeva rigido sopra le spalle, ricordando in quel particolare contesto all’armatura di un samurai. Adesso che si stava avvicinando all’oggetto maligno della sua missione, una folata si accanì improvvisamente in senso contrario alla marcia, sollevando dal capo il cappello conico di paglia che portava e mandandolo a rotolare ai margini del sentiero. Ma lui del tutto impassibile, rispose soltanto con un gesto imperioso della mano destra, all’indirizzo dell’esponente più giovane del trio ecclesiastico presente in quel fatale mattino d’estate, che rispondendo a precise disposizione si avvicinò al suo fianco, sollevando faticosamente la custodia in legno di pawlonia dentro cui era situata la reliquia più importante del loro tempio. Togliendone il coperchio in un solo fluido movimento, quindi, Genno impugnò quel pesante martello di ferro dalla testa sferica ed il manico d’avorio con un senso del dovere e di profonda aspettativa, mentre concentrava lo sguardo all’indirizzo della Pietra dell’Uccisione. L’ultima esponente di una problematica categoria: quella di oggetti troppo antichi, troppo potenti, troppo carichi di un karma ponderoso e malefico per poter rimanere nello stato corrente… Tanto da richiedere, previa una corretta decisione della comunità locale, l’intervento di particolari figure investite del potere ultraterreno di cambiare le cose. Così avvicinandosi al macigno alto approssimativamente quanto una persona, l’uomo sollevò l’attrezzo benedetto sopra la testa. E dopo alcuni attimi di profonda meditazione all’indirizzo di tutti gli Spiriti Volpe di questa Terra, lo calò rovinosamente nel punto più debole dell’indefesso agglomerato di basalto e granito!
Fu un momento topico, un fragoroso attimo di riscossa. Nei confronti di una problematica particolarmente antica ed indesiderata; avete presente? Quel momento in cui un’antico e immortale demone, venuto dall’India dopo aver gettato scompiglio tra le schiere della dinastia cinese dei Tang, giunge fino al tuo arcipelago e senza alcun tipo di provocazione tenta di avvelenarne l’Imperatore. Il che tende a richiedere, nella maggior parte delle circostanze, l’intervento di figure professionali specializzate…

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Dalla Cina il bianco fungo che facilita l’intramontabile ricerca della bellezza terrena

Potrebbe sembrare strano avvicinarsi all’antica e vasta disciplina della Medicina Tradizionale Cinese con le aspettative dogmatiche tipiche di un culto religioso, considerando le profonde implicazioni per lo meno pseudo-scientifiche necessariamente facenti parte di qualsivoglia procedura mirata alla conservazione, o la riconquista del benessere dell’organismo umano. Eppure non sarebbe del tutto erroneo individuare in un particolare testo redatto nel periodo culturalmente importantissimo della dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.) il ruolo di effettivo libro sacro, e nell’autore alle origini dell’ancestrale tradizione orale da cui deriva quello di un effettivo nume tutelare ed imperituro. Sto parlando chiaramente del Ben Cao Jing (本草经 – Canone delle Erbe Mediche) di Shennong (神農 – Il contadino divino) semi-leggendario dio-antenato e Imperatore Rosso vissuto attorno a 5.000 anni fa, cui viene attribuita un’ampia gamma di nozioni relative alla coltivazione e l’utilizzo dei tesori della terra come tramandate da un’insigne ed operosa posterità cinese. Trattazione parzialmente basata su atti di fede e preconcetti, oggi facilmente superati dalla scienza moderna, benché in altri casi le due discipline abbiano trovato, inaspettatamente, significative ragioni di concordia in merito a particolari argomenti. Ed ingredienti: vedi per l’appunto il caso dell’Yin’er shu (银耳属 – Orecchio d’argento) trattato nel capitolo sulla salvaguardia dell’energia oscura dello Yin, ovvero la specie fungina correntemente nota come Tremella fuciformis, una specie parassita dai caratteristici corpi fruttiferi candidi come la neve, simili nella forma a dei voluminosi fiori o da un’altra angolazione, piccoli cervelli abbarbicati alla corteccia degli alberi della foresta. “Andate a coglierli in inverno nelle foreste d’abeti.” Recitava l’antica trattazione, in assenza di una metodologia evidente per poter riuscire a coltivarne significative quantità all’interno di situazioni controllate artificialmente. Almeno finché molti secoli dopo, attorno al XVIII-XIX secolo, le prime fattorie iniziarono a perseguire una produzione seriale di questa particolare specie, mediante l’utilizzo di tronchi sezionati e fatti marcire negli spazi cupi ed umidi di apposite foresterie. Un procedimento ulteriormente migliorato, in epoca più recente, tramite l’acquisizione della tecnica per il trapianto intenzionale del micelio o spore di questo fungo, sebbene anche un tale approccio sembrasse lasciare nel processo dei significativi margini di miglioramento. Questo perché ancora mancava la presa di coscienza, risalente essenzialmente all’epoca contemporanea, della necessità dell’ingrediente di crescere a discapito di altre specie usate come base fertile, da cui trarre il necessario apporto di sostanze nutritive per la crescita: varie specie dall’ascomicete Hypoxylon, tra cui soprattutto quella successivamente riclassificata nella specie Annulohypoxylon archeri, oggi mescolata preventivamente all’interno di un apposito additivo, contenente anche la forma generativa del fungo Tremella. Per quella che è giunta progressivamente a costituire un’industria gastronomica e di portata quanto meno asiatica, mentre niente meno che globale riesce ad essere quella consistente nella creazione di creme e trattamenti cosmetici prodotti con sostanze di questa natura, con un’effetto misurabile d’idratazione della pelle paragonabile a quello dell’acido ialuronico. O persino superiore, in base a certi parametri, ad un simile prodotto dell’odierna tecnologia clinica, dimostrando una solida base per l’originale utilizzo da parte delle classi privilegiate della Cina pre-moderna, tra cui quella più importante di tutte: la corte stessa dell’Imperatore…

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