Un castello samurai fatto di cartone

Upunushu

Quanti giorni di assedio potrà mai sopportare un castello alto 40 cm? Probabilmente moltissimi, purché si tratti della precisa riproduzione di una delle più famose fortezze dell’epoca Sengoku (1478-1605), quel turbolento periodo al termine del quale la moderna nazione giapponese emerse dalle polveri di oltre un secolo di scontri tra i diversi clan samurai, attraverso guerre civili e difficili alleanze. Il castello di Matsumoto, anche detto bastione del corvo, venne costruito nel 1504 ed è ormai da tempo considerato un tesoro nazionale per i suoi notevoli meriti estetici e funzionali. Oggi eccolo lì, come se niente fosse, sul tavolo da pranzo di Upunushu, ragazza straordinariamente abile nel campo dei pepakura (modellini di carta incollata). Svettante, con tutte le sue feritoie yazama e teppozama al posto giusto, pronte ad ospitare rispettivamente gli arcieri e i fucilieri del clan Ogasawara, coloro che all’epoca regnavano nella regione dello Shinano. Un territorio decisamente difficile da difendere, tanto che la loro splendida residenza fortificata, piuttosto che sorgere in cima ad un colle impervio o in altri luoghi inaccessibili al nemico, era stata collocata nel mezzo di una palude, rientrando nel genere di castelli detti hirajiro, ovvero di pianura. Ma per compensare a tale inerente limitazione, poteva contare su alcuni significativi punti a suo vantaggio: tre vasti fossati pieni d’acqua, ovviamente assenti nella versione ridotta di Upunushu (gli si sarebbe squagliato il bastione). Una ricca dotazione dei cannoni lunghi Hazama, recentemente importati dai mercanti europei. Mura spesse e resistenti, percorse da vasti corridoi periferici, adatti al passaggio veloce dell’intera guarnigione in armatura, ulteriormente appesantita dalle armi e dalle insegne del clan che l’aveva edificato. Uno dei molti, purtroppo, destinati a perdersi tra le accidentate vie della storia.

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Ricrea nell’iPad la ragazza con l’orecchino di perla

Seikou Yamaoka

Doveva succedere prima o poi: Seikou Yamaoka si è dato alle riproduzioni delle grandi opere del passato. Ecco l’ultima impresa dell’eccezionale artista giapponese che usando le dita e un dispositivo touch, come un piccolo tablet o un iPod touch, riesce a simulare l’effetto realistico dei tradizionali colori ad acquerello. Chissà che avrebbe detto Johannes Vermeer, il pittore olandese che dal distante 1600 seppe trasmetterci l’enigmatica bellezza della ragazza con il turbante e l’orecchino, uno dei volti più famosi del Secolo d’Oro e forse dell’intera storia dell’arte. Per quell’artista così fortemente affascinato dalla luce in ogni suo aspetto e conseguenza, poter disegnare in digitale sarebbe stato davvero incredibile. Niente più costosi pigmenti da ordinare a caro prezzo presso i mercanti di Delft. La possibilità di effettuare i suoi numerosi esperimenti sul tema dell’inquadratura e della messa a fuoco in altrettante versioni di un singolo quadro, istantaneamente duplicato in decine di files indipendenti, da stampare tutti insieme alla fine. E soprattutto, più di ogni altra cosa, lavorare con una “tela” che non è fatta di mera carta o tessuto, ma nasce dalla moderna matrice a cristalli liquidi di un LCD retroilluminato, in grado di rendere vivido e sgargiante ogni singolo riflesso delineato nel quadro, quasi come ci si trovasse davvero là, nello stesso luogo in cui l’immagine era stata tracciata, dalla sua abile mano, a beneficio della posterità.

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Cameriere, c’è un gatto nel mio cappuccino

Kazuki Yamamoto2

“Non si preoccupi, può berlo.” Risposta inevitabile: “Ma è troppo KA-WA-IIIIiiii!” In tale classica espressione deliziata, generalmente gridata in falsetto dagli amanti del Giappone di ogni età e parte del mondo, c’è un amore spontaneo che nasce dal comprensibile entusiasmo per qualcosa di speciale. Kawaii (かわいい) vuol dire carino. Dolce. Adorabile. Grazioso. Tenero…Qualcuno tempo fa decise che, per meglio trasmettere l’unicità di questo termine così esclusivo anche in lingua italiana, si dovesse usare il terribile neologismo PUC-CIO-SO, accompagnato da un’espressione estatica e dal gesto assai nipponico delle dita a V, possibilmente accennato appena, in una sorta di scatto nevrotico che però impegni entrambe le mani allo stesso tempo. E io mi vedrei un pò così, tipico turista beota occidentale, seduto al bancone di questo incredibile bar della città di Osaka. Il posto in cui lavora Kazuki Yamamoto, sovrano incontrastato nel sublime campo della latte art, ovvero quel procedimento che consiste nel creare immagini sulla schiuma del cappuccino. Come si può restare impassibili di fronte a tutto ciò? Costui non crea semplici figure, usando stuzzicadenti o cucchiaini per disegnare forme vagamente simili al soggetto da rappresentare, ma scolpisce letteralmente piccoli gatti, panda, giraffe e altri animali sulla sommità spumeggiante di quella semplice tazzina, mediante un procedimento che sembrerebbe assomigliare alla più mistica stregoneria. Miao! Apprezzato il gustoso aroma, bevuto il caldo e gradevole estratto del chicco di caffè, verrebbe quasi da aspettarsi l’imprevisto. Che dentro il bicchiere rimanga, magicamente, il candido gattino che tanto ci aveva intenerito col suo sguardo kawaii. Tutto bagnato e miagolante, destinato presto a squagliarsi e tornare in quei luoghi eterei da cui era provenuto. Concreto e al tempo stesso impermanente, come del resto ogni cosa bella della vita.

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Divorati dai giganti, alternativa giapponese al planking

Attack on Titan 0
Via

State cercando un modo nuovo di distinguervi su Facebook? Vi siete stancati di fare le belle statuine distesi a terra o sul prato, con le braccia rigide e parallele ai fianchi? Sui feed sociali della grande rete non c’è più spazio per aspiranti gufi, virtuosi dell’hadouken e tutti coloro che danzano sull’alternativa newyorkese alla taranta. Per gli esperti di Internet aggiornati sulle ultime meme e follie collettive, c’è ormai un solo territorio inesplorato: il Giappone. E da lì proviene questa serie di fotografie illusorie, in cui si gioca con la prospettiva per farsi mangiare dai giganti. Si chiama Shingeki no Kyojin gokko (進撃の巨人ごっこ) ovvero, appropriatamente, “Fingere di essere ne L’Attacco dei Giganti”, un riferimento all’ultima serie animata tratta da un manga di successo, il capolavoro del giovane Hajime Isayamaconosciuto su scala internazionale con il titolo inglese di Attack on TitanCome i giovani protagonisti del racconto, gli aspiranti fautori del relativo trend assumono, nella finzione, proporzioni relativamente minute, mentre un loro complice si mette in primo piano nell’inquadratura, diventando enorme. Poi a seconda dei casi, ci si dispone in una fra due possibili pose: la prima è quella del combattimento. Impugnando spade immaginarie i piccoli “umani” tentano d’inscenare un momento delle terribili battaglie raccontante nel manga, in cui si osteggia strenuamente l’invasione di questi esseri imponenti. Oppure, molto più di frequente, si mostrano le conseguenze di un orribile trionfo da parte della spaventosa creatura. Parzialmente ingoiati, in corso di masticazione, i soggetti della foto sono ormai cibo in fase di digerimento. Il loro sacrificio verrà scritto negli annali di Internet, a perenne memento di quel che siamo disposti a fare per un qualche attimo di celebrità.

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