Quest’azzurra banana non è (soltanto) una fake news

L’espressione stanca, il volto illuminato dall’azzurro di quel logo sullo schermo, il dito che si agita mentre ripete l’essenziale gesto: scorri, scorri, click…scorri, click, click. Come siamo giunti a questo punto? Quando quasi tutto Facebook è diventato prevedibile, banale, poco interessante… Ciascun titolo di un gruppo, una condanna per inedia. Ogni foto la noiosa imposizione narcisista, dell’ennesimo lontano conoscente. Mentre il sole finalmente inizia a tramontare, giungi finalmente al punto di non ritorno, con la pagina che porta il titolo “Cose insolite che non si vedono tutti i giorni” Posso immaginarlo eccome. Una altro gatto che si arrampica sul muro. La tipica automobile con la forma di una nocciolina gigante. Il delizioso frutto dal sapore inaspettato, che dichiarano rassomigliare a quello di un gelato. Ah, ah, eh? Quella sembrerebbe proprio una… Banana! Se non fosse per la tonalità di un turchese profondo, che comincia dalla buccia e giunge fino alla morbida polpa. La perfetta comunione tra eleganza e forma naturale che raggiunge l’infinito, suggestiva di un momento di corposa e gastronomica soddisfazione. Però per puro caso, qui tendente blu cobalto. Per cui come si usava dire, agli albori della psicanalisi: “A volte una pipa è soltanto una pipa.” Ma non c’è niente di male, a controllare il marchio del produttore.
La notizia memetica, propagatasi come un batterio tra le fertili colture delle pagine tematiche dei social, è del tipo che la storica pagina di debunking delle notizie metropolitane Snopes.com classificherebbe come “parzialmente reale” ma con “foto ingannevole” proprio perché i fatti sono stati attentamente manipolati ad arte, con il fine di catalizzare l’attenzione di colui che scorre, convincendolo di aver trovato un argomento interessante. Il che rientra, tanto spesso, nell’imprescindibile comportamento della gente di Internet, così profondamente concentrata sul bisogno di far crescere il punteggio costituito dalle interazioni, visite o commenti al proprio vivere notizie dall’interpretabile veridicità. Il che non toglie che principalmente a Java, ma anche alle Hawaii, nelle Fiji e nelle Filippine, venga veramente coltivata una variante del più amato frutto che prende regionalmente il nome di Ney Mannan, Krie o Cenizo. E che il mondo anglosassone conosce più semplicemente con il soprannome descrittivo di blue banana. Che non ha propriamente l’aspetto classico impiegato nella foto oggetto di questa disquisizione, a sua volta creata dalla semplice alterazione delle tinte ad un comune casco del cultivar Cavendish, costituendo piuttosto un ibrido botanico triploide di tipo AAB, ovvero composto per due parti dalla Musa acuminata (il “platano”) ed una di M. balbisiana, la forma selvatica di tale pianta maggiormente simile all’albero da frutto domestico. Se così vogliamo chiamarlo, visto come il falso fusto di un simile vegetale sia in effetti costituito da un gambo succulento, di quella che dovrebbe costituire formalmente un tipo di erba. Di cui molto difficilmente, nelle sue plurime iterazioni, potremmo decidere da un giorno all’altro di fare a meno…

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Il significato pratico e spirituale di un incontro con il lupo nero del Minnesota

La ragione per cui la natura è giudicata “semplice” o “selvaggia” va generalmente ricercata nel rapporto molto umano tra le immagini e il pensiero, ovvero l’interpretazione pratica delle diverse contingenze situazionali, che realizzano la propria essenza nel susseguirsi delle passeggiate o escursioni di ciascun giorno della nostra vita. Con i presupposti più inimmaginabili e distinti, vedi quello dichiarato dallo stesso Conrad Tan, fotografo del cosiddetto stato dei 1000 laghi, che volendo visitare il favoloso parco naturale dei Voyageurs, dice ora di averlo fatto per lo scopo di “Poter guardare un wallpaper che lui stesso aveva creato” unendo in questo modo l’utile al dilettevole, ovvero l’informatica del mondo moderno all’ancestrale fascino della natura, intesa come il tipo di soggetti, animali e inconsapevoli, che meglio riescono a far bella figura tra le fronde digitalizzate e gli altri pixel che compongono il tipico desktop dei nostri grigi PC. Il che non toglie la possibilità, a noi persone dalle più accessibili esigenze, di apprezzare il suo lavoro e incorniciarlo in quel contesto, senza preoccuparci necessariamente della provenienza o di non disturbare con il flash l’affascinante cane… Lupo che campeggia al centro dell’inquadratura frutto di una tanto approfondita competenza fotografica ed il senso imprescindibile dell’avventura.
Poiché questo non è l’animale che semplicemente incontri nel cortile, bensì la versione originaria di quel tipo di creatura, intesa come il Canis lycaon della classificazione al tempo erronea di Linneo, proprio perché almeno in apparenza ben diverso dal C. lupus di cui Cappuccetto Rosso sembrava non conoscere la ferocissima fisionomia. Ma in merito al quale, resta chiaro, colei o colui avrebbe potuto giovarsi di un più istintivo ed immediato terrore se soltanto fosse stato nero come la notte, rispecchiando nella sua tonalità la cupa fame che riusciva a connotare ogni potenziale interazione con eventuali bambine umane. E “Che occhi grandi che hai!” avrebbe potuto rispondere l’animale stesso, dinnanzi all’espressione del celebre naturalista svedese trovatosi dinnanzi a una creatura tanto rara e preziosa. Proprio perché, contrariamente a quanto si potrebbe essere inclini a pensare, il lupo nero è una creatura ben distinta con un percorso genetico particolare, che l’ha relegata al giorno d’oggi solamente in dei particolari ambienti tra cui l’Europa meridionale (incluse parti dell’Italia, tra cui il Trentino e l’Appennino Tosco-Emiliano) ed un paio di grandi parchi nazionali statunitensi: Yellowstone e i Voyageurs. Dove ormai soltanto un numero particolarmente ridotto di visitatori ancora ricorda il vero significato dell’incontro con un Lupo dello Spirito, come tendevano a chiamarlo con indubbia deferenza gli abitanti indigeni di queste due regioni, ogni qual volta lo incontravano lungo il sentiero variabilmente onirico delle proprie peregrinazioni. Un esperienza capace di rivelarsi, ogni singola volta, trasformativa…

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Risplendi magica farfalla sussurrante, che tutti si ostinano a chiamare pipistrello

Lo gnomo Ygor si appoggiò alla radice sporgente dell’albero, mentre saliva l’irto declivio per tornare verso il villaggio segreto. “Un pericolo, un pericolo e non c’è niente da dire” Mugugnò tra se e se, pensando alla concisa profezia del suo vecchio amico, il Loris Lento dello stagno in fondo alla radura gialla: “Un giorno una creatura proveniente dalla Luna ti morderà. E volerai lontano assieme ad essa, lasciando dietro ogni persona a te cara” Ma talvolta, occorre fare il giro delle trappole in orari strani, soprattutto quando si ode rapido il frinire di una cicala. Segno imprescindibile, che un artropode perduto sta aspettando di ricevere la misericordiosa liberazione… E non si può lasciare un insetto nobile, a soffrire dentro il cappio fino alle ore tarde della sera. Calcando giù il cappello consumato, la corta spada segnata d’emolinfa rassicurante al suo fianco, Ygor tese le sue orecchie a punta per meglio capire da dove venissero i suoni poco familiari di una notte d’autunno come questa: il sommesso parlottare della civetta delle palme; il sibilo della vipera dalle labbra bianche; il richiamo insistente del barbagianni delle erbe orientale. Ma soprattutto, un sommesso rumore di passi proveniente dal suo fianco destro, dietro un gruppo di funghi abbarbicati alla corteccia ruvida di un tronco particolarmente antico. Appena il tempo di girarsi, e lei era lì: spietata e terrificante. Alta poco più di lui, 4 cm di appariscente figura coperta da uno spettacolare mantello arancione e nero, la fata lo guardava con occhi desiderosi e la bocca leggermente aperta, canini bianchissimi che s’incontravano sul fondo vermiglio. “Vieni, vieni a me” Sembrava quasi pronunciare, coi movimenti economicamente eleganti delle sue gambe affusolate, tra cui pendeva un’impossibile coda a ventaglio. Ygor, d’un tratto perfettamente immobile, pensò per qualche attimo di tentare la fuga. Ma non è possibile cambiare il tuo destino, non più di quanto si possa resistere al morso di un vampiro, primo capitolo di un cambio d’esistenza radicale. La spada cadde rumorosamente a terra. “Loris mio, ti ringrazio. Tu l’avevi sempre saputo.” Due passi avanti, il secondo un po’ titubante. Prima che fosse lei a farsi avanti, mordace.
Non c’è metamorfosi, non c’è stregoneria, non c’è mistero. Se vogliamo usare termini di paragone razionali, nel discutere la singolare faccenda del Kerivoula picta o pipistrello dipinto, o ancora traducendo in maniera letterale dalla lingua bengalese, il solo ed unico “pipistrello farfalla”. Chiamato anche il singolo mammifero volante più magnifico al mondo, grazie al possesso di una splendida livrea creata in alternanza, formata da tonalità scure contrastanti inframezzate a pelo rosso, giallo, marrone o ogni altra possibile via di mezzo visibile nell’ampio catalogo delle livree animali. Una creatura piccola e divoratrice d’insetti, come ogni altro volatore notturno del genere tassonomico Vespertilionidae, risultando capace d’apportare un contributo indubbiamente positivo per la vita umana nella parte meridionale dell’Asia, notoriamente caratterizzata da una grande quantità di vettori patogeni proveniente da quel mondo di creature che ronzano dopo l’arrivo della sera. Il che, del resto, non è stato sufficiente a preservarne l’esistenza indisturbata nel procedere dei giorni, visto l’usuale carico di problematiche superstizioni fino all’epoca moderna, e successivamente a tutto questo l’esistenza problematica di un animale tenuto in considerazione particolarmente elevata, ma soltanto dopo che è stato ucciso, preservato ed esposto all’interno di una pratica cornice da esposizione. Proprio come una farfalla, una falena, uno scarabeo dalla schiena chitinosa troppo variopinta per poter continuare a vivere indisturbato. E finisce per essere soprattutto quella, la sua condanna…

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Il policromo inferno di Wai-O-Tapu, nucleo vulcanico dell’Isola del Nord

Non appena la tribù degli Ngati Whaoa giunse con la propria grande waka di nome Arawa presso le verdeggianti coste dell’isola che sarebbe stata denominata Te Ika a Maui, il pesce del Dio Maui, capì di aver trovato qualcosa di davvero speciale. Grandi terre fertili popolate da animali mansueti, alte e svettanti montagne che incorniciavano il paesaggio. Ed a poca distanza verso l’assolato meridione, un pennacchio di fumo dalle caratteristiche davvero fuori dal comune. Mai avevano visto, queste genti di origine polinesiana, qualcosa di altrettanto utile a dimostrare la potenza inconoscibile dell’Universo. Così non ci misero molto, dopo i primi sopralluoghi esplorativi, a denominare un tale sito con il nome nella loro lingua di Wai-O-Tapu, dove Wai vuol dire acqua e Tapu, “santa” o “proibita”. Implicazione meritevole di essere sottolineata, quando si considera il probabile destino dei primi scopritori tanto folli, o imprudenti, da immergersi in tali pozze dall’odore nauseabondo, scoprendo così l’effetto posseduto sulla pelle umana da un’acqua con temperatura superiore ai 70 gradi di superficie, mescolata ad arsenico e antimonio. Oppure, per chi fosse stato ancor più (s)fortunato, direttamente composta in significativa percentuale da acido solfidrico, perfettamente funzionale oggi al fine di separare i metalli dalle scorie rimaste in seguito al processo d’estrazione mineraria. Un campo vulcanico in effetti, eppur del tutto privo di alcun tipo di svettante cono centrale, le cui veci ormai perdute lungo il corso della storia vengono rappresentate dai due antistanti monti Moungaongaonga (825 m.) e Moungakakaramea (743 m.) nella piana antistante alla moderna cittadina di Rotorua. Perfettamente conforme ai crismi paesaggistici di un tale sito geografico, almeno fino ai confini dell’odierna riserva naturale, dove le esalazioni mefitiche del profondo costituiscono ad oggi un’importante attrazione turistica e sito d’interesse scientifico, con il nome vagamente disneyano di Thermal Wonderland.
Nessun figurante in costume o buffo personaggio, d’altra parte, trova posto tra i confini di una simile località inumana, dall’apparenza nettamente prelevata presso i dintorni di un distante pianeta, a tal punto le normali regole della natura sembrano esser state qui messe da parte, per la mano di un’artista intento a ricreare i paesaggi dei suoi sogni maggiormente sfrenati. Stereotipo vorrebbe, ad esempio, che un laghetto endoreico di 65 metri di diametro appena sia una semplice pozza azzurrina in cui veder specchiato il cielo, il Sole e gli astri più lontani. Laddove quella che comunemente viene definita Champagne Pool, pezzo forte di ogni visita nel circondario, si presenta come un cerchio nebuloso con perimetro di un rosso intenso, a causa della sua particolare composizione chimica, ricoperto di un’increspatura ebulliente tale da richiamarsi alla celebre bevanda lievemente alcolica delle nostre occasioni mondane. Un abisso in grado di raggiungere i 260 gradi nel suo punto più profondo (62 m.) con un pH fortunatamente stabile di “appena” 1,5 meno del 7.0 corrispondente alla neutralità, causa l’apporto continuo di generose quantità di anidride carbonica. Non che ciò lo renda in alcun modo adatto a praticare nessun tipo di abluzione, viste le problematiche quantità di acido solfidrico, nitrogeno, metano e sostanze tossiche come orbimento e stitnite contenute al suo interno. Ma ogni visita degna di questo nome partirà immancabilmente da un diverso tipo di attrazione, essenzialmente costituita da un piccolo rilievo biancastro simile all’ingresso di un termitaio. Sito che scoprirono per primi gli abitanti della vicina colonia penale di Taupo, i quali erano soliti lavare nei dintorni i propri panni in un torrente. Così che un giorno particolarmente significativo attorno agli anni ’30 dello scorso secolo, per caso o per divertimento, ben pensarono di gettare del sapone all’interno di questo pertugio. Ottenendo l’immediato getto verticale e incandescente di un vero e proprio geyser, abbastanza straordinario da riuscire a meritarsi il nome ed una dedica alla Lady Lady Constance Gaskell née Knox, figlia del Governatore e ancella onoraria della Regina Maria di Tack. Quale magnifica opportunità…

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