Il policromo inferno di Wai-O-Tapu, nucleo vulcanico dell’Isola del Nord

Non appena la tribù degli Ngati Whaoa giunse con la propria grande waka di nome Arawa presso le verdeggianti coste dell’isola che sarebbe stata denominata Te Ika a Maui, il pesce del Dio Maui, capì di aver trovato qualcosa di davvero speciale. Grandi terre fertili popolate da animali mansueti, alte e svettanti montagne che incorniciavano il paesaggio. Ed a poca distanza verso l’assolato meridione, un pennacchio di fumo dalle caratteristiche davvero fuori dal comune. Mai avevano visto, queste genti di origine polinesiana, qualcosa di altrettanto utile a dimostrare la potenza inconoscibile dell’Universo. Così non ci misero molto, dopo i primi sopralluoghi esplorativi, a denominare un tale sito con il nome nella loro lingua di Wai-O-Tapu, dove Wai vuol dire acqua e Tapu, “santa” o “proibita”. Implicazione meritevole di essere sottolineata, quando si considera il probabile destino dei primi scopritori tanto folli, o imprudenti, da immergersi in tali pozze dall’odore nauseabondo, scoprendo così l’effetto posseduto sulla pelle umana da un’acqua con temperatura superiore ai 70 gradi di superficie, mescolata ad arsenico e antimonio. Oppure, per chi fosse stato ancor più (s)fortunato, direttamente composta in significativa percentuale da acido solfidrico, perfettamente funzionale oggi al fine di separare i metalli dalle scorie rimaste in seguito al processo d’estrazione mineraria. Un campo vulcanico in effetti, eppur del tutto privo di alcun tipo di svettante cono centrale, le cui veci ormai perdute lungo il corso della storia vengono rappresentate dai due antistanti monti Moungaongaonga (825 m.) e Moungakakaramea (743 m.) nella piana antistante alla moderna cittadina di Rotorua. Perfettamente conforme ai crismi paesaggistici di un tale sito geografico, almeno fino ai confini dell’odierna riserva naturale, dove le esalazioni mefitiche del profondo costituiscono ad oggi un’importante attrazione turistica e sito d’interesse scientifico, con il nome vagamente disneyano di Thermal Wonderland.
Nessun figurante in costume o buffo personaggio, d’altra parte, trova posto tra i confini di una simile località inumana, dall’apparenza nettamente prelevata presso i dintorni di un distante pianeta, a tal punto le normali regole della natura sembrano esser state qui messe da parte, per la mano di un’artista intento a ricreare i paesaggi dei suoi sogni maggiormente sfrenati. Stereotipo vorrebbe, ad esempio, che un laghetto endoreico di 65 metri di diametro appena sia una semplice pozza azzurrina in cui veder specchiato il cielo, il Sole e gli astri più lontani. Laddove quella che comunemente viene definita Champagne Pool, pezzo forte di ogni visita nel circondario, si presenta come un cerchio nebuloso con perimetro di un rosso intenso, a causa della sua particolare composizione chimica, ricoperto di un’increspatura ebulliente tale da richiamarsi alla celebre bevanda lievemente alcolica delle nostre occasioni mondane. Un abisso in grado di raggiungere i 260 gradi nel suo punto più profondo (62 m.) con un pH fortunatamente stabile di “appena” 1,5 meno del 7.0 corrispondente alla neutralità, causa l’apporto continuo di generose quantità di anidride carbonica. Non che ciò lo renda in alcun modo adatto a praticare nessun tipo di abluzione, viste le problematiche quantità di acido solfidrico, nitrogeno, metano e sostanze tossiche come orbimento e stitnite contenute al suo interno. Ma ogni visita degna di questo nome partirà immancabilmente da un diverso tipo di attrazione, essenzialmente costituita da un piccolo rilievo biancastro simile all’ingresso di un termitaio. Sito che scoprirono per primi gli abitanti della vicina colonia penale di Taupo, i quali erano soliti lavare nei dintorni i propri panni in un torrente. Così che un giorno particolarmente significativo attorno agli anni ’30 dello scorso secolo, per caso o per divertimento, ben pensarono di gettare del sapone all’interno di questo pertugio. Ottenendo l’immediato getto verticale e incandescente di un vero e proprio geyser, abbastanza straordinario da riuscire a meritarsi il nome ed una dedica alla Lady Lady Constance Gaskell née Knox, figlia del Governatore e ancella onoraria della Regina Maria di Tack. Quale magnifica opportunità…

Propaggini della vegetazione, residui di quella che un tempo era la più vasta foresta neozelandese, si estendono al di sopra delle pozze dalle esalazioni quasi irrespirabili. Ma parecchie cose sono cambiate, nel corso degli ultimi 160.000 anni.

Puntualmente ogni giorno alle 10:00/10:15 di mattina, la meraviglia perciò si ripete, non per un’inclinazione naturale come nel caso dell’Old Faithful del parco di Yellowstone, bensì per l’uso artificiale di generose quantità di sostanze tensioattive, di fronte allo sguardo colpito dei visitatori giunti per visitare il parco. Diversamente da quanto accadeva, secondo i resoconti storici, con i geyser ormai scomparsi del circondario tra cui quello di Wai-Mangu ovvero le “Acque Nere”, che cessò di eruttare in un momento imprecisato dello scorso secolo, prima di poter essere immortalato per i posteri mediante i grandi archivi d’Instagram e Facebook. Non che gli attuali visitatori disposti a percorrere i circa 250 Km che separano questo luogo unico dalla più vicina grande città di Auckland siano inefficienti nel recuperare il tempo perduto, con la loro propensione a muoversi ed avvicinarsi al pericolo lungo le molte staccionate poste attorno ai laghi acidi di Wai-O-Tapu, coadiuvati da innumerevoli cartelli di divieto e quello, particolarmente inquietante, che invita a lasciare il parco in tutta fretta nel caso in cui “una sirena dovesse suonare per più di 30 secondi”. Auspicabilmente non prima di aver proseguito la visita, fino all’altro dei due laghi maggiormente celebri che bagnano queste antiche terre, quello di circa 15 metri appena di ampiezza ed oggi noto con il termine davvero suggestivo di Devil’s Bath. Luogo degno di Lucifero non solo per l’odore, perfettamente allineato a quello delle uova marce per la generosa componente di zolfo, ma anche per l’assurdità del suo colore verde fluorescente, garantito dall’effetto delle acque super-riscaldate sui minerali ferrosi presenti sul fondale, che sciogliendosi affiorano e tingono con favolosa efficienza la superficie perfettamente liscia di questo perfetto specchio dell’anima instradata verso la sua stessa condanna. E di nuovo soltanto uno stolto, potrebbe pensare di bagnarsi in queste acque vista la composizione altamente tossica ed il pH sufficiente a far sparire una lattina di Coca-Cola nel giro di un pomeriggio o due. Il che del resto e in modo tutt’altro che insolito, non può che essere risultato attraente per una certa quantità di microrganismi estremofili capaci di sfruttare tale nicchia inadatta a qualsiasi altra forma di vita, come appurato formalmente anche nel caso della Champagne Pool, entro la quale gli scienziati hanno ritrovato tracce del batterio Venenivibrio stagnispumantis, perfettamente in grado di resistere, o persino prosperare nel mezzo della più assoluta corrosione.
Per chi preferisse, d’altra parte, ammirare un qualcosa di più chiaramente e indubitabilmente letale, il giro turistico potrà condurre fino alle pozze di fango che confinano con il parco, a circa 2 Km dal centro visitatori. Residuo evidente di un antico vulcano, che alcune fonti risalenti ai primi del Novecento descrivevano come caratterizzato da un’altezza di 3,5 metri, mentre alti affermavano misurarne oltre il triplo. Almeno finché l’erosione, proseguendo ininterrotta lungo il volgere delle decadi, non avrebbe provveduto a rimuoverne qualsiasi traccia di rilievo, fatta eccezione per queste ribollenti sabbie (letteralmente) mobili, per le quali, almeno stavolta, nessun tipo di richiamo all’ordine testuale pare essere necessario. Chi mai potrebbe scegliere di avvicinarsi, d’altra parte, a una provincia immediatamente riconoscibile delle più profonde bolge ustionanti descritte nell’Inferno dantesco? Completano l’offerta un certo numero di pozze più piccole, la cui variazione cromatica tra il giallo, l’arancione, il bianco, il verde, il viola ed il nero hanno garantito la denominazione di “Tavolozza dell’artista”. Un’ideale demiurgo delle profondità vulcaniche, la cui stessa presenza, se non denominazione teorica, dev’essere risultata in grado di popolare le antiche e misteriose storie dei Maori.

Il geyser di Lady Knox, diversamente da altri pennacchi più famosi, non è in grado di generare naturalmente la forza necessaria ad eruttare ogni giorno. È del tutto incerto d’altronde, causa l’alta mutabilità delle condizioni geologiche locali, se anticamente ciò potesse risultare altrettanto vero.

Lo studio dei fenomeni geologici, magnifico e capace di colpire l’immaginazione, può perciò costituire oggi una finestra verso questioni scientifiche di sicuro ed importante rilievo. Utili non soltanto alla comprensione dei processi che hanno costituito l’origine di questo mondo, ma anche innumerevoli altri, nonché la chiave stessa che potrebbe aver contribuito, in modo tutt’altro che collaterale, alla prima manifestazione del concetto stesso di vita. Ma l’analisi teorica e filosofica dei processi non è, in effetti, l’unico vantaggio che possiamo trarre dalla geologia. Essendo noi stessi parte di una progressione storica lungo il corso della quale, sommovimenti, tremori e devastanti eruzioni potrebbero aver contribuito più volte, per quanto ci è dato comprendere, alla nascita e la fine della civiltà. E sono soltanto due le reazioni possibili, o in qualche modo giustificabili, dinnanzi a qualcosa di tanto eccezionale come il parco vulcanico di Wai-O-Tapu: timore reverenziale… O il desiderio di conoscere. Quella stessa curiosità indagatoria, o puro senso d’avventura, che all’epoca dei grandi naviganti polinesiani seppe condurre la grande Arawa presso queste coste che attendevano di essere trovate. Con tutte le loro ricchezze e qualche inspiegabile anomalia del paesaggio. Perché è soltanto da un approfondito studio delle eccezioni, che possiamo giungere a comprendere la verità.

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