In cerca di case sui bastioni d’Islanda

È puro Oceano, signora mia. Volete avere le orche per vicine di di casa? E i pinguini al posto dei passeri, che vengono a chiedervi le briciole di pane? Ecco, questa seconda parte sarebbe un po’ difficile da organizzare. Perché dovrà saperlo, di sicuro: le onde sono alte da queste parti, così per salvaguardare l’abitazione abbiamo dovuto edificare le quattro mura in cima a un faraglione alto all’incirca 20 metri, a strapiombo sul mare distante. Fantastico: in questo modo, il cielo può essere il cortile. E suo marito non potrà mai arrischiarsi a ritornare ubriaco la sera. Stabilirsi a vivere su uno dei tre faraglioni, che in realtà sono quattro (Stóridrangur, Þúfudrangur, Klofadrangur e “Senza Nome”) ha un costo assolutamente ridicolo per chiunque sia abbastanza coraggioso da pensare di farlo. Basta, sostanzialmente, auto-nominarsi guardiani del faro. E io non credo che potrebbe mai esserci nessuno, tra l’amministrazione locale dell’arcipelago di Vestmannaeyjar (Le Isole degli Uomini Occidentali) che potrebbe mai sognarsi di opporre il suo veto. Gli abitanti delle zone limitrofe sono certamente ospitali. Né del resto, l’iniziativa dell’eclettico cambio di residenza arriverebbe alle orecchie di alcuno, prima dell’occasionale e saltuario cambio della sacra lampadina custodita quassù. Quindi portatevi un ricambio, oppure due. E i naviganti, mancando di lamentarsi dell’improvvisa scurezza della baia, saranno vostri alleati nel mantenere il segreto. Andare lì per svolgere l’operazione in questione non è del resto particolarmente facile, come ampiamente dimostrato dal presente video del pilota d’elicotteri Gísli Gíslason, che nell’estate del 2016 vi si recò per trasportare 6 operai, che si occuparono di effettuare la manutenzione generale e ridipingere il meraviglioso cubo di mattoni e malta con lanterna metallica a prova di tempeste. Anzi, bando agli eufemismi: ci saranno 2 o 3 operatori di aeromobili, in tutta l’Islanda, a poter affermare in tutta sicurezza d’essere capaci di svolgere una simile missione, anche in condizioni meteorologiche ideali. Poiché ciò che serve fare, è avvicinarsi cautamente al frastagliato faraglione e abbassare i propri pattini di un metro alla volta, cercando di trovarsi in corrispondenza del più piccolo, precario e squadrato degli eliporti. Una piattaforma tagliata nella roccia, con otto pali paralleli che si estendono ai lati, presumibilmente per attaccarvi altrettante corde di nylon rinforzato per alpinisti. Poi una volta fatto questo, tutto quello che resta è percorrere una stretta passerella di roccia, rigorosamente ricoperta di sdrucciolevole vegetazione muschiforme sopra lo strapiombo distante, prima di approdare al sicuro nello “spiazzo” in cui si trova una delle strutture più improbabili mai edificate dall’uomo.
E pensate che tutto sommato, a costoro, gli è anche andata piuttosto bene: il faro esiste in effetti dal 1939, quando fu costruito a ridosso della seconda guerra mondiale per mettere in sicurezza questo particolare sentiero di approdo, tre anni prima che l’elicottero fosse costruito in serie dal pioniere dell’aviazione Igor Sikorsky, ed almeno tre volte tanto prima che un simile approccio ai trasporti trovasse un’effettiva diffusione internazionale. Piuttosto celebre resta in effetti, all’interno di determinati circoli, la storia narrata in un’intervista da Árni G. Þórarinsson, il veterano a capo del progetto in quell’epoca ormai distante, che descrive per filo e per segno l’esperienza del team di esperti montanari al suo comando, che per primi riuscirono a costruire la “strada” (in realtà, nient’altro che una serie di catene saldamente infisse nella parete scoscesa). Punto saliente della vicenda: il punto, verso la sommità, in cui non gli riuscì più di trovare appigli, ed allora il primo di loro si dispose a gattoni, mentre il secondo gli saliva sopra. E il terzo, dall’appoggio delle sue spalle, giungeva al punto agognato come il personaggio di un cartoon. Per poi tirarsi dietro i coraggiosi (o svalvolati) compagni. E ciò non prende neppure in considerazione, purtroppo, la fatica successiva di trasportare fin quassù i materiali. Di certo, non dev’essere stato facile trovare un muratore disposto a venire per dare una mano…
Le strutture costruite nei punti più isolati di Vestmannaeyjar hanno l’abitudine di comparire all’improvviso sul web, per la costruzione di un nuovo meme o il post distratto di una persona famosa (in questo caso specifico, pare si sia trattato di niente meno che Justin Bieber) diventando all’improvviso l’antonomasia di chi desidera vivere in totale e pacifica solitudine. Non è questa in effetti la prima volta, né il primo luogo, a dare adito a un simile risvolto situazionale…

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Il sangue degli alberi sull’isola del drago

Secondo la tradizione, fu in primo luogo l’esperienza di un uomo, notoriamente incredulo. Il viaggiatore con una Grande Missione, forse la più grande di tutte: salire su una nave e viaggiare ad Oriente, per trasmettere in India gli insegnamenti di Gesù. Ma l’apostolo Tommaso, secondo le credenze di questi luoghi, non sarebbe mai giunto sul continente dalle mille e più culture. Poiché forse per volere di Dio, oppure del Fato, avrebbe invece sperimentato l’esperienza terribile di un naufragio, approdando forzatamente proprio presso l’unica isola degna di questo nome che si trovasse a largo del golfo di Aden, tra il corno d’Africa e lo Yemen. Una terra del tutto fuori da questo mondo. Un luogo misterioso ed almeno all’apparenza, sovrannaturale. È del tutto possibile, in effetti, nascere in un luogo e prendere atto della sua flora e fauna come un qualcosa di assolutamente normale, benché appartenente biologicamente ad un ecosistema totalmente scollegato dal resto del mondo. Dopo tutto, se l’hai sempre conosciuto, che c’è di strano? Ma pensate all’esperienza dei primi naturalisti che raggiunsero l’Australia, oppure le Galapagos o le giungle del Brasile. O immaginate, ancora, l’aspetto della singola terra emersa (non di origine vulcanica) che si distanziò per prima dalla massa ultra-continentale del preistorico Gondwana. L’isola di Socotra, con gli altri tre scogli sovradimensionati che costituiscono il suo “arcipelago” esiste in assoluta solitudine, si ritiene, almeno dal Miocene, ovvero un minimo di 5 milioni di anni fa. Abbastanza per sviluppare un suo intero ecosistema, estremamente caratteristico e secondo alcuni, del tutto alieno. Una qualità che gli deriva, in primo luogo, dall’aspetto insolito della sua vegetazione.
Non ci sono mammiferi endemici superstiti, su quest’isola, tranne i pipistrelli, ma quasi tutto il resto è solo ed esclusivamente suo. Numerose specie di rettili ed insetti, ragni e granchi mai visti altrove. Uccelli, migratori e non, che da tempo immemore costruiscono il nido unicamente nell’area delimitata da queste spiagge. E questo non è tutto: si ritiene che i quasi 2.000 anni di abitazione da parte degli umani abbiano, nel tempo, ridotto esponenzialmente la quantità di specie originali portandole all’estinzione, soprattutto introducendo animali domestici, come le capre. Ma c’è ancora qualcosa che sopravvive indisturbato, benché ridotto di numero rispetto all’epoca più antica: l’albero del sangue di drago, altrimenti detta Dracaena cinnabari. Unica fonte, sacra ai locali, di una resina rossa nota come il cinabro, che si riteneva potesse fungere da panacea di tutti i mali. Oltre a servire per la creazione di una tintura, estremamente preziosa in campo tessile e per la realizzazione di mobili laccati. Secondo la leggenda, dopo il naufragio San Tommaso costruì la sua chiesa impiegando il legno della nave con cui aveva progettato di attraversare l’Oceano Indiano. Quasi come se il legno proveniente da questa terra non potesse realmente definirsi parte del regno di Dio.
Secondo la maggior parte dei racconti degli eco-viaggiatori, che oggi si spingono fin qui con assoluta disinvoltura e giustificato senso d’aspettativa, l’albero in questione è anche la principale ragione che è valsa a quest’isola la nomina di “luogo più alieno della Terra”. Basta uno sguardo, per capirne la ragione: come le altre dracene originarie dell’Africa, il sangue di drago è un arbusto che presenta pennacchi di foglie nastriformi al di sopra di un labirinto di rami simili a radici. Queste ultime, tuttavia, appaiono totalmente rigide, puntando in ogni direzione come gli aculei di un porcospino. La sommità della chioma, poi, appare quasi perfettamente piatta, enfatizzando ulteriormente questa illusione ottica di trovarsi di fronte ad un’albero girato al contrario. La compattezza estrema delle fronde, in realtà, ha uno scopo ben preciso: in quanto Socotra presenta un clima arido che si avvicina pericolosamente a quello di un deserto, e l’evaporazione dei liquidi costituisce un potenziale problema. Così i rami dell’albero si proteggono vicendevolmente, assicurandosi che almeno una parte di loro, per quanto possibile, rimanga in ombra. Un tempo, questi alberi prosperavano grazie alle nebbie e foschie mattutine, oggi più rare in funzione del mutamento climatico. Essi non sono che le antiche vestigia di un’epoca remota, assieme ai loro molti compagni di sventura…

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La nave inamovibile che trasformò il Giappone

Il suono ritmico e penetrante del sonar faceva eco ai pensieri del comandante del sommergibile da guerra americano Defiant, quando la voce dell’addetto ai rilevamenti fece improvvisamente breccia nella sua coscienza: “Signore, c’è qualcosa a dritta. Qualcosa di grosso.” La reazione, da parte dei due più alti di grado, non tardò a manifestarsi. Il primo ufficiale impugnava già il fascicolo di riconoscimento, mentre l’ordine riecheggiò perentoreo: “Mr. Stevens, timone a 25°. Ci porti a 40 piedi di profondità.” La mano destra ad afferrare il periscopio, la sinistra in prossimità del libro tenuto dal suo vice, il comandante si apprestò a scrutare l’orizzonte. Tutti, in cabina, tacquero trattenendo il fiato, nell’attesa che la procedura di pre-ingaggio fosse completata. “Signore, siamo a profondità di combattimento. Devo diminuire la velocità?” Il distante rombo dei motori a diesel era stato sostituito dal silenzio delle batterie. “Un chilometro all’obiettivo” Aggiunse l’uomo del sonar. Senza distrarsi neppure un secondo, l’uomo a cui era stata affidata la sicurezza di questo battello iniziò a scrutare attraverso lo strumento simbolo del suo mestiere. Oltre i flutti più distanti, tra la nebbia che quel giorno aleggiava tutto attorno all’isola del Kyūshū, vide qualcosa di terribile e terrificante. “Signore, di che si tratta?” Fece il primo ufficiale. “È grossa Mark, davvero gigantesca. Saranno almeno…400 metri. Non ho mai visto nulla di simile prima d’ora.” Quindi si fece da parte, facendo cenno all’amico di guardare anche lui di che si stesse parlando. Una volta confermato l’avvistamento, il suo sguardo parlava da solo. “Si tratta della nostra occasione migliore, gente. Di entrare a pieno titolo nella Storia! I Jap hanno costruito un nuovo tipo di corazzata sperimentale, persino più grande della maledetta Yamato varata ad agosto dell’anno scorso, in preparazione del vile attacco a Pearl Harbor. Ma non si sono preoccupati di farla scortare… Capo, prepari i tubi 2, 4 e 6. Quest’oggi gli faremo davvero male.” Come una macchina perfettamente oliata, l’equipaggio del sommergibile eseguì i propri ruoli determinati durante l’addestramento e i 4 affondamenti nemici ottenuti dall’inizio della campagna. Il vascello eseguì una manovra da manuale, il pre-lancio fu completato e le soluzioni di tiro impostate a regola d’arte. Stranamente…La nave nemica non sembrava muoversi in alcun modo. “Meglio così…” Sussurrò l’ufficiale armiere tra se e se. Finché non arrivò il momento della solenne e distruttiva parola: “Fuoco! Fuoco!” Gli ordigni subacquei si lanciarono nella loro folle corsa autodistruttiva verso l’obiettivo, mentre il responsabile di tutto questo tornò al periscopio per seguirne la marcia. Piccoli pennacchi d’acqua, per chi sapeva cosa guardare, rendevano evidente la marcia innanzi dei tre siluri. Era chiaro che nessuno, sul vascello nemico, li aveva ancora avvistati. “30 secondi all’impatto…20…10…3…2…1…IMPATTO!” L’esplosione apparve come un triplo fiore di fuoco sullo schermo del sonar. “Tre colpi a segno, signore!” Attraverso il dispositivo ottico d’osservazione, fu possibile scorgere un pennacchio simile a una lingua di fiamma che percorrevano l’alto scafo del titanico obiettivo. Che non sembrò risentire in alcun modo dei danni subìti. “N-Non è possibile! Esclamò il primo ufficiale, mentre guardava il comandante con sguardo allibito. “Vuole dirmi che questa nave non può essere distrutta…Con metodi convenzionali?!”
È una leggenda che si perde tra i molti aneddoti della seconda guerra mondiale. Nient’altro che uno di quei racconti non verificati, che tuttavia rimbalzano tra una fonte e l’altra per la loro relativa plausibilità e l’indubbio fascino posseduto. La storia secondo cui, verso le prime fasi della guerra del Pacifico, un sommergibile americano avrebbe tentato di silurare l’isola mineraria di Hashima, a largo della città di Nagasaki. Dico del resto, l’avete vista, magari in uno degli ultimi film di James Bond? Il suo muro frangiflutti perimetrale così tanto simile ad uno scafo, i più alti condomini di cemento in grado di creare una sagoma che ricorda quella delle cosiddette torri a pagoda, le strane sovrastrutture delle corazzate nipponiche al tempo dell’epoca Shōwa, quando il mondo sembrava impazzito ed intento a distruggere completamente se stesso. Ha persino una poppa, più larga, ed una prua idrodinamica per spezzare l’impeto dei frequenti tifoni. Se mai un simile errore sia stato effettivamente commesso, questo non è facile dirlo. Ma di sicuro, eventualmente, sarebbe stato giustificato! Soprattutto perché, sapendo effettivamente a che cosa serviva una simile installazione, gli Alleati non avrebbero tardato ad inserirla nell’elenco dei bersagli maggiormente desiderabili, come ingranaggio fondamentale della macchina bellica giapponese. Ha (端) Shima (島) più volgarmente nota come Gunkanjima (軍艦島) l’Isola della Nave da Guerra, era infatti una miniera di carbone, forse la più incredibile nell’intera storia dell’umanità. Costruita poco prima dell’inizio del ‘900 con il denaro e le risorse di Yataro Iwasaki, il diretto discendente dei samurai a capo delle industrie Mitsubishi (si proprio quell’azienda lì) si era trasformata nel trentennio immediatamente successivo in una vera e propria città, mentre la sua modesta estensione veniva massimizzata tramite il trasporto di vaste quantità di terra e ghiaia dalle antistanti terre emerse. La sua popolazione complessiva, a quei tempi, già superava di molto il migliaio, mentre si ponevano le basi della situazione che l’avrebbe resa, verso la fine degli anni ’50, il singolo luogo più sovrappopolato della Terra: 5.259 persone in 16 acri, rigidamente suddivise in caste a seconda dello stato civile e del ruolo: in strette ed anguste camerate, per gli operai single, in piccole case con bagni in comune, per chi aveva famiglia a carico, ed all’interno di veri e propri mini-appartamenti, per quei pochi fortunati che avessero un ruolo gestionale nell’organizzazione dell’impianto. Ma prima che le due terribili atomiche degli americani ponessero fine al sogno imperialista dei Giapponesi, l’isola era ancor più cupa, ed inquietante di così. Poiché vi lavoravano, in condizioni del tutto inconcepibili al giorno d’oggi, le schiere dei prigionieri di guerra coreani e cinesi, trasportati fin qui e costretti a servire i loro signori supremi. Calandosi per 606 metri fino al suolo stesso dell’oceano, armati di piccone, lampada e il più tenue filo della speranza umana.

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I dannati sulle isole perdute di New York

Nel 1614, quando i coloni finanziati dalla Compagnia olandese delle Indie occidentali giunsero per la prima volta in massa presso le acque di quello che sarebbe diventato l’East River, autostrada d’acqua nel bel mezzo della city newyorkese, loro erano già lì: De Gesellen, i compagni. E ci sono ancora, benché si siano riscoperte consanguinee tra di loro, diventando Brothers – fratelli. Due isolette che si guardano, in grado di attrarre l’interesse dei misantropi che passano di lì. Perché sembra impossibile, che possa esistere un luogo completamente abbandonato nel bel mezzo di una delle metropoli più grandi e celebrate al mondo, poco prima della baia in cui si trova la terza “sorella” Ellis, con il plinto che ospita l’intramontabile Statua della Libertà. Possibile che a nessun fautore dello sviluppo urbanistico programmato, o costruttore edilizio,  o altro tipo di speculatore delle proprietà immobiliari, sia mai venuto in mente di impiegare queste terre emerse in modo utile all’allora nascente società delle colonie americane? Il fatto è che di spazio, in origine, ce n’era in abbondanza. Così che per quasi due secoli, costruire i propri edifici presso un luogo scollegato dalla terra ferma non avrebbe portato alcun vantaggio degno di nota. Finché nel 1850, a qualcuno non venne in mente di spostare qui l’ospedale dell’isola più grande di Blackwell, poco più a monte in quel canale ormai altamente modificato dall’uomo. Ma con un approccio progettuale totalmente differente: alte pareti, solide cancellate, porte chiuse a chiave e ben pochi infermieri, abbastanza coraggiosi ed abili da mantenere le distanze. Volete conoscerne la ragione? Questo divenne ben presto il luogo in cui la città di New York teneva i suoi abitanti più temuti e al tempo stesso, considerati indegni di attenzione: coloro che rimanevano colpiti dalla malattia del vaiolo. In un’epoca in cui la vaccinazione era ancora guardata con estrema diffidenza, e l’umanità non possedeva alcun tipo d’immunità del branco, il concetto di lazzaretto sopravviveva immutato, essenzialmente fin dall’epoca degli antichi, offrendo un terreno fertile a ogni sorta di sgradevole iniquità. Le malattie infettive colpivano preferibilmente nei luoghi sovraffollati, coinvolgendo intere famiglie disagiate, che da uno stato d’indigenza sostanziale venivano rapidamente deportate in questi luoghi dove, tanto spesso, incontravano una morte atroce. Nonostante gli esperimenti di Pasteur del 1796 coi microbi e i vetrini, l’opinione del senso comune, nonché purtroppo il consenso tra molti professionisti della sanità, era che le epidemie nascessero dai miasmi dello sporco e del disagio, in una sorta di generazione spontanea comparabile a quella delle larve putrefacenti nella filosofia di Aristotele, che l’aveva elaborata 14 secoli prima a partire dalle inesistenti conoscenze scientifiche dei suoi tempi remoti. Una situazione che, ben presto, sarebbe cambiata. Proprio grazie alla figura di una donna destinata a rimanere, negli annali della storia, perennemente legata all’isola fratello del Nord, la più grande delle due.
La legge del karma, prodotto di un metodo assai distante di vedere il mondo e la società, è sostanzialmente diversa dal concetto di un angelo vendicatore, perché riguarda unicamente ogni singolo individuo, ed è il prodotto delle sue stesse gesta. Mentre il volere dell’Onnipotente non colpisce mai i deboli, ma proprio coloro destinati al Paradiso, perché credono maggiormente in lui. Ecco a voi un esempio, se dovesse mai servire: nel 1904, la nave a vapore PS General Slocum (che per i molti incidenti subiti, si diceva fosse maledetta) si trovava a navigare presso le due Brother Island, quando all’improvviso, un’incendio si scatenò a bordo. Delle 1.342 persone a bordo, quasi tutti membri della Chiesa Evangelica Luterana di St. Mark che si stavano recando ad un pic-nic, ne sopravvissero soltanto 321, ovvero quelli che avevano avuto la fortuna, e la capacità, di raggiungere a nuovo le vicine rive dell’isola-ospedale, attendendo lì i soccorsi inviati dalle autorità civili. Fu il più grande disastro subito dalla città di New York fino all’attentato delle torri gemelle, e resta tutt’ora il secondo per numero di vite umane perdute al mondo. Ma pur costituendo il più grave e terribile fatto di storia legato alla storia delle due isole dell’East River, non resta probabilmente il più famoso. Un primato legato invece al personaggio di Mary Mallon, cuoca, irlandese, forte di carattere e di fisico, portatrice sana della febbre da tifo. Che potrebbe aver ucciso, con la sua negligenza più o meno intenzionale, un numero stimato di fino ad oltre 50 persone.

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