Ben poca è la differenza, fondamentalmente, tra il particolare distretto della mente responsabile del fascino nei confronti delle gemme o tesori geologici e l’istinto naturale della gazza ladra. Uccello che raccoglie, in un certo senso colleziona tutto ciò che attira e può riflettere la luce, facendo di se stessa una magnate dell’aviaria società fluttuante. E se un tale pennuto ne potesse avere facoltà, non ci sarebbe alcun ostacolo capace d’impedirgli la creazione di un suo museo. Quel tipo di edificio o istituzione (di questi tempi, ne esistono anche di “virtuali”) in cui le cose possono essere posizionate sopra un piedistallo. O dentro una vetrina. Magari anche venire appese al muro? Affinché un maggior numero di menti possano restarne in qualche modo cambiate. Grazie alla coscienza di quanta bellezza o singolarità persiste nella progressione delle epoche consecutive. Ogni spazio dedicato alla bellezza è d’altronde la diretta conseguenza dell’ambiente in cui ha trovato collocazione. Così non c’è molto da meravigliarsi se una galleria come la Granada di Tucson riesce a costituire, sotto numerosi punti di vista, l’opportunità migliore di conoscere l’aspetto di uno dei reperti più notevoli della Preistoria; il tipo di conchiglie fossilizzate, concentrate primariamente nell’area delle Montagne Rocciose, che hanno visto la propria fossilizzazione giungere a coronamento nell’involucro di vere e proprie pietre preziose. Un misto, in altri termini, di calcite, silice, pirite e la stessa aragonite del guscio dell’animale, raggiungendo un tripudio di colori non dissimile da quello di un opale, a cui viene spesso e per l’appunto paragonato. Se non si usa in modo ancora più diretto, l’espressione di ammonite iridescente, dal nome di quel tipo di mollusco superficialmente simile agli odierni nautiloidi, pur essendo geneticamente molto più prossimo a polipi, seppie o calamari. Per quanto ci è stato dato di comprendere, per lo meno, a partire dalla pletora di fossili trovati a partire dalle epoche del Mondo Antico, durante cui vennero associati linguisticamente alle corna da ariete del Dio supremo, Zeus Ammon. Benché tutti gli studiosi sapessero, o quanto meno fossero convinti, che il tipo di esemplare maggiormente diffuso, simile a una spirale bitorzoluta, dovesse necessariamente appartenere a un serpente arrotolato su se stesso. L’esempio pratico, e del tutto apprezzabile, di come anche la natura desiderasse un aspetto notevole e una degna sepoltura per coloro che lasciavano per sempre la schiera dei viventi. Il che non costituiva altro, a conti fatti, che l’inizio di un processo destinato a durare fino a 400 letterali milioni di anni, dall’evento sconosciuto che portò all’estinzione di questi abitanti degli abissi chiamato estinzione del Cretaceo-Paleogene, fino all’accumulo di strati successivi di sedimenti ed altri materiali, validi a creare in particolari circostanze quella che trova l’appellativo, per l’appunto, di ammolite o versione imprescindibilmente magnifica delle spoglie mortali di partenza. Qualcosa di assolutamente degno, a suo modo, di essere venerato…
gemme
Cercando la sublime perla di saggezza che si trova nell’intercapedine tra i diamanti
Così ordinato, così perfettamente regolare ed apprezzabile nella sua semplicità multicolore: difficile non essere colpiti dall’eccezionale precisione dell’elegante modello grafico, utilizzato nella tipica rappresentazione da sussidiario della stratigrafia terrestre. In primo luogo, la crosta: due centimetri appena, simile per lo spessore ad una buccia d’arancia. Subito seguita dal mantello, corposo strato suddiviso in due parti: superiore ed inferiore. Così come ancora sussistono i due sapori del gradiente per il nucleo “esterno” liquido contrapposto a quello “interno” metallico, sebbene sia un modello giudicato ormai obsoleto in diversi ambienti. Il che è costituisce concessione d’altra parte molto meno significativa, rispetto a quella della stessa compartimentazione di ciascun segmento. Non vi è mai sembrato, d’altra parte, bizzarro? Che la natura della mineralogia, così sfumata e imprevedibile, potesse in un modello su scala maggiore rispettare le apparenti direttive di un demiurgo fondamentale dell’Esistenza… Piuttosto che lasciar fluire la materia da uno stato all’altro, in un ciclo continuo d’interscambio simile a quello delle acque o l’aria di superficie! Poiché l’albero che cade produce lo stesso un rumore. Anche se nessuno può riuscire ad osservare il flusso quantico delle sue microparticelle… Direttamente. In questo tende a palesarsi, dunque, l’intrigante utilità del metodo scientifico, che desume l’instaurarsi dei processi di causa ed effetto sulla base di elementi trasferiti nello spazio dello scibile a portata, per così dire, di mano. O come in questo caso, all’interno di uno strumento che può entrare in quello stesso palmo al centro delle cinque dita a raggera. Chiamatelo e chiamiamolo per questo, come fanno tutti gli altri fin da quando fu inventato negli anni ’50, DAC (Diamond Anvil Cell o Cella-Incudine a Diamante) per la mera ed apprezzabile composizione dei sue due elementi primari. Due gemme appartenenti, per l’appunto, al vasto catalogo delle forme allotropiche del carbonio, del tutto arbitrariamente e globalmente considerate tra le più preziose che possano far parte di un gioiello dei nostri giorni. Per un’idea di fondo largamente comprovata e funzionale allo scopo, poiché esistono due modi per riprodurre, ovvero simulare, l’incommensurabile pressione vigente nelle viscere della Terra: una grande forza, oppure una notevole concentrazione. Della spinta in un settore non più grande di 100-250 micron, situato nell’incontro tra i due culet o fondi piatti di altrettante pietre con un taglio cuneiforme. Fatte premere l’una sull’altra con una vasta varietà di modi possibili, tra leve pneumatiche, sistemi idraulici o viti girevoli all’interno di un meccanismo. Affinché una pressione di appena 5-6 Mbar possa ritrovarsi moltiplicata, nel diabolico implemento, fino a 550 gigapascal, grossomodo corrispondente al doppio di quella presente nelle profondità del nucleo terrestre. Ed una porzione alquanto significativa dell’energia idrostatica nelle profondità di Giove!
Davvero piovono gemme all’ombra del vulcano Kilauea?
I siti Internet di ogni popolarità sono sempre veloci a dare corso alle ultime notizie strane, fatti curiosi o in qualche maniera intriganti che vengono diffusi dai notiziari di ogni parte del mondo. In modo particolare quando si tratta di storie che soddisfano, in qualche maniera, il nostro innato desiderio di simmetria. Così è successo l’altro giorno, a partire da alcuni post su Twitter, che online è iniziata a rimbalzare la voce secondo cui sull’isola di Hawaii, infuocata a partire dal 3 maggio da uno dei più lunghi eventi di effusione lavica a memoria d’uomo, si starebbe verificando uno strano fenomeno: dal cielo e senza alcun preavviso, sotto le fosche nubi di cenere mista a condensa, occasionalmente verrebbero giù dei ciottoli. E fin qui niente di (particolarmente) strano, visto che ci troviamo al cospetto della collera stessa del sottosuolo. Ma ad un’analisi più approfondita, le pietruzze in questione si rivelerebbero per ciò che realmente sono: pietre dure di un color verde traslucido straordinariamente attraente, del tipo che occasionalmente viene usato per gli orecchini, collane o altri ornamenti della persona. Di certo il peridoto, nome del minerale in questione quando sufficientemente puro e pregiato da trovare posto in gioielleria, non è un materiale particolarmente prezioso. Si tratta, dopo tutto, di una delle sostanze più comuni in corrispondenza della discontinuità di Mohorovičić, il punto, tra i 410 e i 660 Km di profondità, in cui la crosta superiore del pianeta lascia il posto agli strati inferiori dei suoi elementi costituenti. La dove tale pietra, che in condizioni normali si chiama olivina, si trova in quantità talmente elevate da far pensare ai verdi pascoli dei territori di superficie. Resta comunque notevole pensare a questo popolo, la gente delle Hawaii, sottoposta da mesi alla tortura di vedere i propri spazi e le proprie abitazioni ricoperte di lava incandescente, che in qualche maniera trovano un “premio di consolazione” nel dono rigurgitato di un qualcosa che, per lo meno, potrebbe costituire un gradevole souvenir.
Eppure, il dubbio è lecito. Persino doveroso, giusto? Talune notizie risultano essere semplicemente TROPPO conturbanti perché qualcuno, tra il popolo affamato dei publisher, non stia tentando quanto meno di ricavarne un numero superiore di click. L’avidità è nella natura stessa delle persone. Sia in materia di popolarità che soprattutto, quando si tratta di far visita ad una delle isole più affascinanti dal punto di vista naturale, setaccio alla mano, con gli occhi rivolti verso l’alto in cerca di un’ineffabile tesoro. Affinché una nuova generazione di cercatori ritardi la propria invasione in questo periodo critico, intralciando le operazioni di soccorso e recupero delle zone colpite dalla lava, credo sia opportuno restituire le giuste proporzioni a questa notizia. Si, qualcuno sull’isola la settimana scorsa ha rinvenuto alcuni (piccoli) cristalli, rispondenti per sommi capi ai requisiti del peridoto. E si, altre persone affermano, in maniera ragionevolmente credibile, di aver fatto lo stesso nei dintorni della zona del basso Puna, quella maggiormente affetta dalla furia di Pele, signora fiammeggiante del sottosuolo. Qualcosa di simile, del resto, potrebbe essere successo anche nei mesi e negli anni antecedenti, fino all’epoca dei nostri più remoti progenitori. Questo perché l’intero arcipelago di tali instabili roccaforti nel mezzo del Pacifico è letteralmente FATTO di olivina, dal che deriva che il suo scheletro costituente, per usare un termine di paragoni, proviene in effetti dalle regioni superiori del mantello terrestre, espulse a pressioni inimmaginabili durante gli sconvolgimenti della Preistoria. Il fatto che i bambini, scavando casualmente con la paletta, non rinvengano continuamente piccole pietruzze sfavillanti è da ricercarsi nella natura stessa di questo minerale, che normalmente compare in superficie all’interno di xenoliti, ovvero rocce inclusive magmatiche di una certa dimensione, grigiastre e prive di attrattive finché qualcuno non le rompe a metà, trovandovi dentro la gradita sorpresa di un pluralità di sassolini dalla tonalità vermiglia, più o meno trasparenti e quindi adatti all’impiego nella piccola gioielleria. E nemmeno questo è vero ovunque, vista l’esistenza di un luogo come la spiaggia di Papakolea, uno dei pochi luoghi con sabbia verde al mondo, in cui ogni singolo granulo, ciascun insignificante sassolino, è tecnicamente composto da un quantum snudato del minerale olivina. Ciò in quanto, attraverso i secoli senza fine, l’agire delle onde e delle maree ha eroso la pomice e le altre pietre vulcaniche meno compatte, per lasciare intonso il resistente cuore verde all’interno…
Questo meteorite è uno scrigno di gemme spaziali
C’è una tipica e arcinota rappresentazione degli alieni, che vorrebbe vederli come grossi mostri letteralmente ricoperti d’occhi, per scrutarci meglio da lontano. È una visione strana e innaturale, questa, che ritroviamo negli Shoggoth del mito Lovecraftiano, nei Beholder di Dungeons & Dragons…Il che è piuttosto singolare, visto come nell’intero regno degli esseri viventi potenzialmente dotati del senso della vista, ovvero gli animali, non esista un singolo caso di superflua declinazione di pupilla e cristallino, per ciascun centimetro a disposizione sulla forma fisica di una creatura. Eppure, possibile che ci sia un qualcosa di vero in questo stereotipo spaziale? Forse, quando si considera come un qualcosa di simile appartenga chiaramente al terzo regno, quello minerale. Guardate qui: ce lo sta orgogliosamente mostrando il baffuto Marvin Killgore del Laboratorio Meteoritico del Southwest dell’Arizona, tenendo ben alta sulla testa una sottile lastra, del peso approssimativo di 10 Kg, il cui valore complessivo potrebbe collocarsi intorno a qualche centinaio di migliaia di dollari, se non di più. Tanto è rara la traslucida e preziosa questa pallasite, costituita per il primo 50% di un miscuglio tra ferro e nickel, nella restante parte da un’infinita serie di olivine preziose o veri e propri peridoti, pietre spesso usate in gioielleria. L’uomo, con una notevole dimostrazione di senso del pathos, ha dunque scelto di piazzarsi in controluce, frapponendo nella foto il super-sasso alla più preponderante fonte di luce di un dì privo di nuvole, l’astro solare. Adesso come l’altro ieri, finalmente, questa roccia ultramondana sembra ritornare VIVA e in qualche modo…Attenta. Dunque appare lecita la risultante domanda, del quando, esattamente, fosse “l’altro ieri”…
All’incirca 4,6 miliardi di anni fa, qualche tempo prima di Windows 3.1 e dell’invenzione della Coca-Cola, l’intero Sistema non era altro che un ammasso di materia indistinta, che le fluttuazioni caotiche del vasto nulla avevano portato ad aggregarsi in ciò che la scienza definisce una gigantesca nube molecolare, o proto-nebulosa. Non c’erano ovviamente, asteroidi o pianeti, né la grande massa rossastra di Giove, né lo splendore verdolino del malsano Venere o l’alone rosseggiante dell’antico e polveroso suolo marziano. E neppure, questo resta l’aspetto maggiormente significativo, l’astro del Sole che ci donò la prima, e infine fornirà l’ultima alba. Ovunque e al di sopra di ogni cosa, sussisteva unicamente il Caos. Luci distanti, di stelle o galassie ormai dimenticate, illuminavano la scena dell’ammasso eterno e oscuro, nell’estetica appagante della prototìpica armonia. Finché ad un certo punto, per ragioni largamente ignote, non si verificò l’Evento: un possente urto gravitazionale, come una folata di vento cosmico e spropositato, che giunse ad urtare l’antica amenità, mettendo in moto un infernale meccanismo. La relativa equidistanza degli atomi indistinti, dei metalli e i silicati, dell’acqua e del metano venne compromessa, assieme all’equilibrio della loro separata coesistenza. La teoria maggiormente accreditata, esposta per la prima volta dal filosofo tedesco Immanuel Kant (1724 – 1804) non può che attribuire l’origine di questa interferenza al più catastrofico evento cosmico di proporzioni note, ovvero l’esplosivo collasso stellare di una supernova. Quella non-morte di uno dei nostri attuali astri notturni, che lungi dall’eliminarlo totalmente, lo vede conflagrare in un pauroso scoppio, pari a quello di 2.000 miliardi di miliardi di miliardi di bombe atomiche, seguito dalla compressione inevitabile della (relativamente) poca materia rimanente, in un’iper-pesante nana grigia, o ancora meglio, un misterioso buco nero. Ma poiché il cosmo è un come un enorme flipper tridimensionale, in cui nulla può essere lanciato all’indirizzo di un qualcosa senza influenzare qualche respingente sulla via, ciò che conta non è quel che resta, ma piuttosto tutto ciò che va. E fu proprio il risultante ammasso di materia tormentata, il residuo dell’ipotetica antica stella così defunta, a colpire quello che sarebbe diventato “noi”. Per non parlare poi di “lui” l’augusto meteorite di Fukang.