Pezzi d’artiglieria, aerei, navi da guerra, carri armati: i minacciosi strumenti tecnologici della guerra moderna. Oggetti capaci di risolvere il conflitto mediante l’assicurazione di una forza irresistibile, per chiunque disponga di risorse e manodopera sufficiente a difendere o ampliare il territorio della propria nazione. Basta spostarsi in avanti di una decina d’anni, tuttavia, perché l’intero corredo di veicoli ed armi complesse di cui disponiamo subisca l’imprescindibile processo dell’obsolescenza, reso virtualmente inutile dal concretizzarsi di significativi margini di miglioramento. È la stessa tendenza di qualsiasi altro campo tecnologico, in altri termini, per cui il nuovo supera il vecchio in quasi ogni tipo di circostanza. Ma sappiamo bene come sia esistito un tempo, antecedente all’accelerazione di tale principio dovuta all’introduzione del metodo scientifico, in cui tale rapporto tra causa ed effetto agiva con metodologie rallentate, mentre il mondo attendeva pazientemente la nascita e progressiva introduzione di un significativo cambio di paradigmi. Trentaquattro decadi, d’altra parte, sono un tempo piuttosto lungo. Questo potrebbero aver pensato, nel 1807, i membri del corpo di spedizione inglese dell’ammiraglio Duckworth, inviati a bordo di sole otto navi di linea e quattro fregate a compiere l’impresa che in pochi, prima di loro, erano riusciti a portare compimento: bombardare e costringere alla resa la Regina delle Città, ovvero l’immensa Costantinopoli, metropoli fortificata e situata in una posizione naturalmente difendibile da qualsiasi attacco. Anche quelli provenienti dal mare, la cui implementazione a partire dal Mediterraneo avrebbe inevitabilmente richiesto l’avanzata indefessa attraverso un tratto di mare progressivamente più angusto, noto da tempo immemore con il nome di stretto, o canale dei Dardanelli. Un’impresa tutt’altro che semplice da portare a termine, benché il timore che l’Impero Ottomano potesse nuovamente fare il suo ingresso nelle Guerre Napoleoniche, questa volta alleandosi all’odiato Imperatore di Francia grazie all’incontro del suo abile diplomatico il conte Sebastiani con il sultano Selim III, costituiva un pericolo sufficiente a mettere da parte qualsiasi proposito di prudenza. Fortuna volle, d’altronde, che l’operazione avesse luogo l’11 febbraio, sul finire del Ramadan di quell’anno, quando le batterie costiere erano per lo più rimaste prive di truppe addette al loro sapiente impiego, così che gli Inglesi raggiunsero presto il mare di Marmara, iniziando a fare rotta verso le mura cittadine. Mentre le cannonate provenienti dall’ultima linea di fortificazioni iniziavano a mietere le prime vittime tuttavia, qualcosa d’improbabile ebbe modo di palesarsi. Dapprima sollevandosi in un arco parabolico verso il cielo, come un’ombra nera del libro dell’Apocalisse, quindi ricadendo a ridosso di uno degli scafi, sollevando una letterale onda di marea capace di sconquassare il fasciame delle navi. Era una sfera di pietra del diametro approssimativo, secondo l’occhio allenato dei marinai, di 0,63 metri ed oltre una tonnellata di peso, ovvero letteralmente cinque volte quello tipico di un Canon de 12 Gribeauval, la “bella figliola” della Grande Armée. Fuoriuscito da un cannone possibilmente più grande di una colonna del tempio stesso di Gerusalemme. Difficile immaginare il tipo di effetto psicologico che essere bersagliati da un simile mostro potesse incutere nel cuore degli uomini della Royal Navy, sebbene la storia parli da se per quanto riguarda l’effettivo risultato dell’operazione dei Dardanelli. Avendo subito 42 vittime, 235 feriti e 2 dispersi a seguito del bombardamento nemico, Duckwell si ritirò senza aver ottenuto nessun tipo d’obiettivo. Entro la fine dell’anno, tutt’altro che impressionato dalla potenza militare degli Europei, il sultano avrebbe dichiarato guerra al suo prototipico avversario, l’Impero di Russia. Ma la fluidità della situazione politica in quegli anni, durante l’intera guerra della Terza Coalizione, avrebbe lasciato proseguire l’alleanza con la Francia per un tempo relativamente breve. E l’esito finale, per l’uomo dalla grande N e l’altrettanto spropositata hubris, che noi tutti fin troppo bene conosciamo…
fortificazioni
L’annosa questione degli antiquati aerei nascosti sotto un vulcano Neozelandese
Scatoloni polverosi in uno scantinato, sepolto sotto molti metri cubi di roccia impenetrabile e potenti pezzi d’artiglieria, percorsa da una fitta rete di tunnel ormai parzialmente crollati da generazioni. Al loro interno, un leggendario tesoro, per ottenere il quale alcuni sarebbero disposti a fare (quasi) qualsiasi cosa. Eccetto, s’intende, andare incontro al rischio di saltare rovinosamente in aria!
Sul finire del 1915 Conrad Westervelt, giovane studente d’ingegneria aeronautica presso il MIT di Cambridge, acquistò un rudimentale idrovolante d’addestramento Martin TA, simile a quello utilizzato durante le sue lezioni di volo assieme al collega William E. Boeing. Dopo aver testato approfonditamente il velivolo, i due decretarono perciò un funzionale percorso di miglioramento: galleggianti più grandi, un motore più potente tramite l’impiego di un motore Hall-Scott A-5 da 125 CV, l’aerodinamica maggiormente curata. Affittando una rimessa per barche sulle rive del lago Union, si misero al lavoro. Entro giugno dell’anno successivo la loro opera era completa e furono pronti a battezzarla, assai semplicemente, il B&W Plane. Una volta completato il primo giro di test, effettuati dallo stesso Boeing nel giro di alcune settimane, il duo ambizioso tentò quindi di ottenere un appalto presso la Marina degli Stati Uniti per la produzione in serie dell’aereo, ad un costo unitario di 10.000 dollari ad esemplare, che venne accettata in via preliminare. Completata la costruzione di un secondo prototipo i due velivoli vennero prontamente inviati a Seattle, dove i militari di una scuola di volo incaricati di testare gli apparecchi, denominati Bluebird e Mallard, decretarono tuttavia che fossero eccessivamente difficili da pilotare e li rispedirono prontamente ai mittenti. Non sapendo esattamente cosa fare i due creatori, a questo punto, contattarono una differente istituzione per l’acquisizione del brevetto situata assai più lontano: la popolosa città portuale di Auckland, in Nuova Zelanda. Che avendo un certo capitale d’investimento e l’interesse all’ampliamento della propria flotta, acquistò immediatamente gli aeroplani al prezzo di convenienza di esattamente 3.750 dollari ciascuno. I due B&W Modello 1, come sarebbero stati chiamati in seguito, furono impiegati frequentemente, non soltanto per l’istruzione dei piloti ma anche la consegna della posta e nel 1919, per l’impresa notevole di stabilire il record d’altitudine neozelandese di 1980 metri, volando a bordo del Bluebird. Nel 1924, per il fallimento della scuola, i due aerei vennero quindi smontati e messi da parte senza eccessivi riguardi, non avendo alcuna caratteristica particolare degna di nota, soprattutto rispetto ai nuovi modelli che erano stati successivamente introdotti sul mercato. Nessuno, a partire da quella fatidica data, li avrebbe più visti.
Che l’opera giovanile di due giganti della storia dell’aviazione, futuri iniziatori di un’azienda destinata a dare un significativo apporto al campo del volo civile e militare, sia scomparsa senza lasciare traccia alcuna è un letterale paradosso del settore, tanto che la stessa Boeing ha dichiarato in più occasioni un valore teorico, per il ritrovamento dei B&W da esporre in un museo, pari o superiore a quello di un moderno 747. Eppure ormai nessuno, dopo il trascorrere di quasi un secolo, riterrebbe ragionevole poter mettere di nuovo le mani su qualcosa di tanto lungamente smarrito, il cui destino sembrerebbe quello fin troppo frequente di essere svaniti nella nebbia della storia. Fatta eccezione per un particolare gruppo di archeologi e curiosi della città di Auckland, guidati idealmente dalla figura eclettica di Martin Butler, che ormai da decadi ha fatto della loro ricerca la letterale missione principale della sua esistenza…
Lo specchio lacustre di Trakai, una delle roccaforti medievali più pittoresche d’Europa
Secondo una leggenda fu verso la fine della prima decade del XIV secolo che Gediminas, Gran Duca di Lituania, si ritrovò a condurre una battuta di caccia non lontano dall’antica capitale Kernavè, giungendo sulle sponde di un lago piacevole e tranquillo. La cui natura attraente, benché non particolarmente difendibile, avrebbe suscitato in lui il desiderio di trasferirsi qui, costruendo la tipica residenza fortificata dei signori medievali. Un castello collinare, oggi andato perduto, difeso nella stessa misura da mura solide e la conformazione stessa del territorio, che sarebbe riuscito a sopravvivergli soltanto per mezzo secolo, prima che l’inizio delle ostilità da parte dei Cavalieri dell’Ordine Teutonico portasse l’esercito di questi ultimi a bruciarlo sino alle fondamenta. Non che tale edificio, a quel punto della storia, rivestisse ancora quel ruolo di primo piano nella protezione del territorio nazionale, vista l’intercorsa costruzione di altre, ben più formidabili roccaforti. Entrambe commissionate, e successivamente abitate in sequenza, da uno dei più importanti eroi di questo paese, quel Kestutis, figlio di Gediminas, che rivestì per buona parte della sua vita il ruolo di principe, attraverso una serie di accesi conflitti dinastici, prima di acquisire brevemente il ruolo di sovrano all’età ormai avanzata di 81 anni. Non che la sua dipartita, sfortunatamente, ebbe modo di avvenire per cause in alcun modo naturali. Ma prima di giungere a tale capitolo, sarà opportuno cercare di comprendere che tipo di personalità avesse, colui che assieme al fratello maggiore Algirdas, nel 1337 aveva rovesciato il governo del minore dei due, Jaunutis, scelto per ragioni imperscrutabile dal padre per succedergli nel governo del Gran Ducato. Sempre disposto a chinare la testa e offrire la sua spada per servire, nell’interesse di un ruolo relativamente marginale nel duumvirato di famiglia, occupandosi nel contempo di quella che potremmo definire come la parte “tecnica” dell’esercizio del potere. Che in quegli anni oscuri pareva sottintendere primariamente l’organizzazione della difesa contro un nemico formidabile e strategicamente superiore. Ormai da oltre un secolo proclamato come legittimo bersaglio di una crociata con il beneplacito dell’istituzione papale, lo stato parzialmente pagano della Lituania aveva subito un lungo assedio economico ed occasionalmente militare da parte dei due ordini cavallereschi dei Teutonici e Livoniani. Abbastanza da giustificare, nella mente del condottiero secondogenito, l’edificazione e mantenimento di strutture difensive di maggiore efficienza. A partire dall’ulteriore grande castello precedentemente edificato a Trakai, una roccaforte peninsulare tra i due rami del lago Galvé e quello di Luka, da utilizzare come residenza negli occasionali momenti di tranquillità. Ma per resistere ai reiterati attacchi dei tedeschi, Kestutis ben sapeva che sarebbe servito qualcosa di meglio, il che l’aveva portato attorno al volgere del XIV secolo a dare inizio alla costruzione della sua opera più notevole e duratura. Una magione inespugnabile sopra l’isola più grande del lago, collegata alla terra ferma soltanto da uno stretto ponte facilmente difendibile, altrettanto rapido da far inabissare ogni qual volta se ne presentasse la necessità. Come sarebbe avvenuto puntualmente nello stesso anno in cui i fratelli presero il potere, con l’assedio dei cavalieri destinato ad interrompersi soltanto con la morte del Gran Duca Algirdas, e la successiva fragile pace stipulata dal figlio e successore Jogaila. Iniziò quindi un periodo altrettanto travagliato per il paese, con i Teutonici che continuavano a razziare oltre i confini, indifferenti agli accordi presi e la necessità di mantenersi alleati dell’Ungheria, un obiettivo perseguito da Kestutis fingendo di convertirsi al cristianesimo. Quando nel 1381 Jogaila, ancora privo di eredi, venne temporaneamente preso prigioniero dal nemico, momento in cui l’ormai anziano zio a suo volta fuggito da una cella del castello di Malbork grazie all’aiuto del servo Alfas, decise finalmente di assumere il ruolo di Gran Duca. Dando inizio a un regno che sarebbe durato soltanto appena un paio d’anni: poiché fu l’inizio, sostanzialmente, una sanguinosa guerra civile.
La torre di Belém, ornato baluardo che guardava oltre i confini del Portogallo
Con la sua qualifica di pronipote del grande sovrano Enrico il Navigatore, Giovanni II del Portogallo aveva ricevuto numerose responsabilità. In primo luogo governare sul paese durante il periodo in cui suo padre si recò a combattere nella guerra di successione castigliana, tra il 1475 e il 1477. Per poi accedere definitivamente al trono quattro anni dopo, alla morte di quest’ultimo, ricevendo il potere supremo di un paese dal tesoro parzialmente prosciugato, le casate ducali tutt’altro che fedeli e il popolo in subbuglio, per i soprusi messi in atto nel corso dell’ultimo decennio da parte dei propri feudatari. Eppur avendo fortunatamente letto gli scritti di Machiavelli, egli si era ripromesso in gioventù un obiettivo tutt’altro che scontato: agire nel corso della sua vita fino al punto di essere a tutti gli effetti il Principe perfetto, strategicamente inattaccabile e completamente incapace di compiere errori. Acquietati gli animi dei propri nobili, mansione molto complessa nel momento in cui stava attuando numerose riforme amministrative e finanziarie, il re decise quindi prudentemente di attuare una serie di espedienti per proteggersi dal possibile assalto di potenze straniere. Il che incluse la fortificazione del fiume Tagus di Lisbona con la costruzione di due fortezze di tipo assolutamente tradizionale, la Cascais e la São Sebastião, in posizione ideale per chiedere il pedaggio ai bastimenti che giungevano per scaricare le preziosissime spezie nei magazzini più sicuri della città. Ciò che il suo intuito affinato dalle molte avversità gli aveva permesso di comprendere, tuttavia, era che in assenza di un punto di difesa in corrispondenza della foce fluviale, giammai la propria capitale sarebbe stata a tutti gli effetti al sicuro dal piano di un comandante nemico che avesse intenzione di far sbarcare i propri militi all’interno delle mura, ragion per cui occorreva in tempi brevi correre ai ripari. Il che rappresentò l’origine della cosiddetta Grande Nau, un gigantesco galeone da 1.000 tonnellate situato come Cerbero all’ingresso mai troppo tranquillo dell’Ade. Ciò che Giovanni II ben sapeva d’altra parte, anche grazie alla consulenza dei propri uomini di fiducia, era che soltanto una struttura stabile e sopraelevata avrebbe potuto garantire le migliori caratteristiche balistiche in caso di attacco, oltre al vantaggio niente affatto indifferente di non poter essere meramente affondata. Fortunatamente, nonostante la prodigalità e poca accortezza del predecessore Alfonso V, l’attento sovrano disponeva di una risorsa pressoché inesauribile: un redditizio 5% di tassazione su tutti i commerci provenienti dalle terre dorate d’India e Cina, abbastanza da intraprendere programmi di ammodernamento e miglioramenti infrastrutturali ai più alti vertici dell’intera Europa continentale. La sua morte a soli 40 anni di età, nel 1495, sopraggiunse però prima che le pietre di pregiato marmo di Lioz accantonate dalla costruzione del vicino monastero di Santa Maria de Belém (Betlemme) potessero assumere la forma della fortificazione tanto a lungo teorizzata, lasciando il progetto nelle mani del re successivo, Manuele I d’Aviz, detto l’avventuroso o il fortunato. Famoso tra le altre cose per aver rifiutato di finanziare l’epocale spedizione di Ferdinando Magellano, nonché tutore del paese all’apice della sua influenza culturale, al punto che da lui avrebbe preso il nome l’impeccabile stile architettonico manuelino, una forma di tardo gotico caratterizzato da elementi moreschi, orientalismi e motivi nautici di varia natura. Anche e soprattutto grazie al lavoro completato nel 1519, dopo svariati anni di febbrile lavoro, con l’allora battezzato Castello di San Vincente (protettore della città) in base alle direttive dell’architetto militare Francisco de Arruda. Un nuovo tipo di fortezza marittima, se vogliamo, che avrebbe avuto ondate d’influenza generazionali attraverso l’architettura di una buona parte della penisola Iberica…