Questo veicolo consuma meno di una lampadina

Eximus 1

Un nuovo record mondiale si fa strada dalla cittadina svedese di Delsbo, in prossimità del lago Dellen Settentrionale e non poi così distante dalle coste del Mar Baltico, tra le acque gelide che bagnano l’Europa del Nord. Che costituisce la risposta pratica ad una domanda che un po’ tutti ci siamo posti, prima o poi: possibile che spostarsi su rotaie debba sempre comportare, nonostante il costo ridotto per singola persona rispetto all’automobile, un’impronta carbonifera comunque sufficiente a consumare ulteriormente le risorse del pianeta? E cosa succederà, nell’imminente giorno dell’esaurimento delle risorse fossili, quando tutto quello che ci rimarrà a disposizione saranno un paio di pedali, l’eolico, l’energia del Sole… Sarà forse a quel punto, che ci ricorderemo dell’opera del team di studenti dell’Università di Dalarna, che come già molti altri gruppi simili a loro, hanno tentato di applicare la loro mente priva di preconcetti ad un problema che ci assilla tutti quanti, per vincere un premio in denaro non propriamente straordinario, ma riservando uno spazio per la propria creazione in una pagina importante dell’antologia motoristica dei nostri tempi. Eximus 1, dal termine latino che significa “straordinaria” questo è il nome di quella che si potrebbe definire una vera e propria locomotiva leggera, del peso di appena 100 Kg ma in grado di trasportare facilmente un equipaggio di cinque persone lungo i 3,36 Km del tratto ferroviario che collega Delsbo a Fredriksfors, completo di un dislivello complessivo di 3 metri. E tutto questo, consumando un valore comprovato di appena 0,84 wattora a persona, laddove una lampadina al neon ne fagocita tranquillamente 3,5, e sia chiaro che si tratta di un dato che viene considerato, ad ogni modo, estremamente positivo. La competizione rilevante, denominata semplicemente Delsbo Electric, prevede in effetti la partecipazione a ciascun viaggio di un numero variabile tra 1 e 5 persone, dal peso medio di ALMENO 50 Kg, sulla base delle quali vengono quindi scalate le misurazioni finali. Di conseguenza, un veicolo dalla capacità di trasporto superiore, come la Eximus, non viene in alcun modo svantaggiato. Il che costituisce forse l’aspetto maggiormente significativo di questa particolare competizione rispetto a quella che l’ha ispirata, la quadrimestrale Shell Eco-marathon, in cui la convenzione prevede che ciascun veicolo trasporti unicamente il suo pilota. Un concetto chiaramente finalizzato alla presentazione di dati ancor più sfolgoranti, ma che avrebbe esulato in qualche maniera dal concetto di cui sopra, che vede i mezzi di trasporto che utilizzano la strada ferrata come una risorsa di ottimizzazione ulteriore del consumo, proprio in funzione del numero di passeggeri contenuti al loro interno.
Contenuti: stipati, inscatolati. Il veicolo in questione, in effetti, per lo meno in questa sua prima iterazione, non si è propriamente fatto notare per il comfort di utilizzo, visto il suo corpo interamente in alluminio, sia dentro che fuori, senza alcun occhio di riguardo a qualunque cosa avrebbe fatto lievitare il peso. La carlinga aerodinamica, con una prua esteticamente simile a quella dello Shinkansen giapponese (benché ovviamente a scala molto più ridotta) vedeva inoltre l’unica apertura di una lastra trasparente in plexiglass, mentre per il resto gli occupanti erano stati sostanzialmente chiusi dentro all’equivalente motorizzato del tipico barbecue da esterni in stile americano. Non era del resto necessario godere di una visibilità eccellente su ogni lato, visto come la competizione prevedesse l’impiego su rotaie, e con l’unico attraversamento potenzialmente pericoloso di quella che il sito ufficiale definisce “una strada molto trafficata”. Benché immagino che fosse stato, per lo meno, abbassato il passaggio a livello. L’intero tragitto ha richiesto un tempo di circa 20 minuti, durante i quali il motore elettrico, alimentato con tre batterie, è stato accesso soltanto per 110 secondi, lasciando che l’Eximus procedesse per inerzia nella rimanente parte della sua impresa. Una tecnica, oltre che logica, comprovata da una lunga storia di esperienze studentesche pregresse…

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L’hacker che desiderava un milione di amici

Samy Kamkar

In un mondo perfetto, il progresso dovrebbe essere universalmente un bene, e qualsiasi cambio dello stato delle cose tecnologiche andrebbe accolto, se non con entusiasmo, per lo meno sulla base di un quieto senso di soddisfazione. “Guarda cosa siamo riusciti a fare!” Oppure: “Avevo ragione a credere nell’inventiva di coloro che, studiando, si sono messi al servizio della collettiva società.” Ma per la stessa ragione per cui fuori piove, delle volte fa più freddo del dovuto, i gabbiani defecano sulle automobili ed i cani di taglia piccola sono mordaci, esistono casi in cui qualcuno si ritrova a scatenare nel mondo, volente o nolente, un demone dalle infinite potenzialità. Quale nessuno, prima d’allora, avrebbe mai avuto l’ardimento di incontrare neanche nei suoi incubi più oscuri. Fu il celebre caso di Alfred Nobel, ad esempio, che a seguito di aver creato l’esplosivo della dinamite, usato in infinite bombe, se ne pentì ed istituì la fondazione sua omonima, per premiare di fronte alle nazioni del mondo le future menti eccelse prive di aspirazioni direttamente belliche, o in qualche maniera deleterie. Lo stesso Einstein, una volta realizzato come le sue scoperte e soprattutto la collaborazione di vecchia data con J. Robert Oppenheimer avrebbero potuto condurre alla bomba atomica, se ne rammaricò pubblicamente in più occasioni, ed in seguito al bombardamento di Hiroshima, famosamente, scrisse alla moglie le parole Vey iz mir: “Misero me!” (Cosa ho creato). Eppure, si può davvero ritenere costoro come dei responsabili di ciò che venne dopo? Nella natura di alcuni, c’è la creatività. Nella natura di altri, la ricerca del puro guadagno, o in altri termini, del puro male. Ma non si possono far ricadere sui primi, le colpe dei secondi…
Nel 2005, quando l’allora ventenne di Los Angeles Samy Kamkar fece il gesto che l’avrebbe iscritto a lettere di fuoco dentro l’albo dei più importanti hackers della storia, Internet viveva in uno stato di quiete molto chiaramente definito: c’era già Google, ovviamente, il grande pilastro che filtra e definisce le informazioni adatte a raggiungere i diversi terminali nelle nostre case, e c’era pure, proprio come adesso, un grande social network, popolare in fasce d’età parecchio differenti tra di loro. Si trattava, tuttavia, di un fenomeno primariamente statunitense, che l’odierno utilizzatore medio di Facebook, con un lungo curriculum di successi agricoli alle spalle grazie al giochino della fattoria e dozzine di sondaggi senza senso completati con alacrità, sarebbe rimasto nient’altro che basìto di fronte al caos crepuscolare di quel mondo, il caotico ed altamente personalizzabile portale di MySpace. Simili stravaganze non erano in effetti nulla, al confronto di quello che veniva consentito di fare agli utenti di un vero e proprio punto di raccordo tra l’originale concetto di “home page personale” nata agli albori del linguaggio di programmazione Html, Vs. le prime timide propaggini del vero Web 2.0, in cui tutti avrebbero potuto e dovuto esprimersi, secondo le proprie capacità e il buon gusto in dotazione assieme alla tastiera ed il mouse. Non c’era alcuna uniformità imposta, dunque, tra le pagine di quel sito, neppure l’ombra di un ordinato layout bianco-azzurro come quello dell’arcinota creazione successiva di Mr. Zuckerberg, ma folli maelstrom di moduli ed immagini, elementi animati, fondi scuri con il testo bianco oppure ancora peggio, pagine viola scritte in giallo e così via. Regnava, insomma, l’anarchia.
Ed è curioso notare come, all’interno di un simile meccanismo potenzialmente pericoloso, la stessa compagnia che gestiva MySpace fosse estremamente gelosa dei suoi segreti, non permettesse a nessuno di realizzare software in grado di girare all’interno del suo ecosistema (come invece ha sempre fatto, notoriamente, the big F) e non si affidasse a società di consulenza esterna per la sicurezza del sito. Il che significa, che le funzioni di natura superiore o per così dire proibite, restavano sostanzialmente chiuse dietro un’unica, invalicabile porta di pietra. Finché non giunse l’Aladino della situazione, a pronunciare, per gioco, le famose parole: “Apriti…

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Seppia metallica gigante nel piazzale della Maker Faire

Mechateuthis

Corpo di mille merluzzi baleniferi negli otto/nove mari, ærrrr! Il vecchio gamba-di-legno, barbanera e rossa, amante dei pappagalli dall’inseparabile cannocchiale con cappello a tricorno e uncino al posto della mano destra…Aveva dunque, ragione!? La creatura che riemerge dalle onde, per una singola volta ogni 13.000 anni, al fine di mostrarsi nell’intero suo tentacolare nonché affabile sinuoseggiare. Certo, quel vecchio Dingo di mare aveva esagerato con le proporzioni. “Grande quanto la poppa di un galeone del tesoro!” Un gran paio di corbezzoli-medusa trasparenti! È difficile giudicare la distanza di un qualcosa, del resto, quando una benda nera copre la metà dei propri occhi funzionanti. Mentre l’esagerazione, per sua natura, fa parte dello stereotipo della gente che conosce solo il sale, l’acqua il Sole ed i gabbiani, esattamente quanto il beniamino piumato sulla spalla oppure le varie parti del corpo date in pasto a bestie degli oceani, ad incidenti con le funi, a palle di cannone di passaggio (la fame dei proiettili è davvero rinomata). Ed è pur vero che talune altre caratteristiche del mostro sono state sottovalutate: primo tra tutti, il materiale. Non è cartilaginea questa…Seppia, come i temuti squali, né ossea, alla maniera di balene o simili cetacei vagheggianti. Ma costituita in duro e puro ferro e acciaio inossidabile, tanto che nessun arpione, per quanto valido e possente, avrebbe mai le doti necessarie per tirarla fin sopra lo scafo. Una creatura libera, dunque, benché statica in funzione delle circostanze. Qualcuno potrebbe addirittura definirla, una scultura.
Gente non priva di un certo coraggio, gli artisti. Tale da permettergli di fare il verso alla natura, costruendo con le proprie mani un qualche cosa che difficilmente può essere costretto e definito. Giungendo a suscitare il fascino, si, ma anche una vaga di dose di maestosa soggezione. Quale altro sentimento si potrebbe mai associare, a una creazione come Mechateuthis, il fenomenale oggetto quasi-vivente, che negli ultimi due anni (almeno) ha connotato le lunghe giornate di lavoro di Barry Crawford, il possessore di un officina metallurgica con sede ad Elko, nel Nevada. Che come molti degli altri coabitanti dello stato (tra i più secchi e inospitali dell’America settentrionale) ha vissuto gli ultimi 20 anni con il mito di un particolare evento, che partendo da un turbine di quelle sabbie, grazie allo strumento comunicativo di una serie di riprese attentamente regolamentate, cattura l’attenzione di un’intera controcultura globale: quella dei figli, degli a loro volta figli di Madre Natura. Colei che pianta ed accarezza i Fiori. E fu così, tanto per essere massimamente chiari, che nacque originariamente la creazione semovente che da ieri sta facendo parlare di se un po’ ovunque sul web, dai siti e blog specializzati, fino alle pagine di ricondivisione più o meno autorizzate nel giardino fortificato di Facebook; con il ruolo specifico di attrazione per il Burning Man. Di certo conoscerete, o per lo meno avrete sentito parlare, della grande “città” di Black Rock, che sorge ogni anno tra le sabbie delle pianure saline della contea di Pershing verso il primo lunedì di settembre, con lo scopo di fungere da punto d’incontro per chi è stanco delle costrizioni imposte della società, e desidera trovare personalità in qualche maniera affini alla sua. Un tripudio d’installazioni cinetiche, strane statue, monumenti fantastici ed altre meravigliose amenità, culminante con il rito pagano di far ardere (da cui il nome) una giganteggiante effige antropomorfa, ad ogni occasione ricostruita ed in qualche maniera differente. Un ambiente perfettamente ideale, dunque, per nutrire e far prosperare un simile mollusco cefalopode, che nulla desidera di più a questo mondo, che essere soavemente ammirato.
All’interno di un recinto, otto manovelle. Con altrettante persone che le girano freneticamente, allo scopo di far muovere, rispettivamente: braccia (questo il nome degli arti più corti), i due tentacoli maggiori, le pinne di stabilizzazione sul mantello (potreste definirlo dorso) e addirittura fare aprire e chiudere gli occhi della creatura, stranamente simili al tipico cestello per effettuare la cottura al vapore della verdura. Talmente simili, che vuoi VEDERE….

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Uno sguardo allarmante sul domani della realtà aumentata

Hyper-Reality

Una domanda…Estenuante. Quella che sceglie di porsi il designer pubblicitario ed artista con base a Londra, Keiichi Matsuda, creativo che ospita sul suo curriculum dei grandi nomi e loghi dell’attuale panorama commerciale, tra cui il colosso italiano Bulgari, per il quale ha realizzato un affascinante cortometraggio pubblicitario intitolato Vedute di Roma. Ma se quella è la parte del suo lavoro che potremmo anche considerare, se vogliamo, come maggiormente remunerativa, all’altro lato dello spettro troviamo un’opera come questo HYPER-REALITY, una breve sequenza di apparente fantascienza speculativa che appare al tempo stesso, tuttavia, distopica e stranamente seducente, sia pure solo per il semplice fatto che è così terribilmente simile alla nostra situazione attuale. Con l’unico corollario, tutt’altro che improbabile allo stato attuale dei fatti, di aver sostituito i nostri inseparabili smartphone con un visore virtuale in grado di creare la AR (Augmented Reality) ovvero una sovrapposizione basata sui nostri gesti e movimenti di fisicità e finzione, un vero e proprio “miglioramento” di tutto ciò che condiziona e osteggia il più utopistico svolgersi del nostro quotidiano.
Chi tra voi frequenta assiduamente certi lidi dello spazio digitale, come forum, bulletin boards, gruppi di discussione o addirittura videogames, avrà probabilmente familiarità con l’espressione spesso usata, sopratutto dagli anglofoni, di “IRL” ovvero l’acronimo che sta per “In Real Life” (nella vita reale). Una locuzione dai molti utilizzi, che tuttavia scaturisce dalla fondamentale astrazione, più o meno veritiera, che esista un velo impenetrabile che separa Internet dalla nostra fisica quotidianità, esattamente come c’è tra mente ed anima, muscoli e sentimenti. “Vedo che siete amici! Conosci quello stregone di livello 45…IRL?” Oppure: “Ieri non mi hai risposto fino a tarda sera, per caso hai avuto qualcosa da fare…IRL?” Sono soltanto due esempi di comunicazione efficace, perché trasmette in pochi termini un concetto che il ricevente, a meno d’imprevisti, comprenderà senza grossi presupposti di fraintendimento. Eppure, pensateci: non c’è niente di più “Vero” del web. In questo preciso istante, posso visitare un sito di e-commerce ed inserire la mia carta di credito, per ottenere che un’azienda sita a molti chilometri da me prepari un pacco coi prodotti di cui ho bisogno, quindi li spedisca prontamente fino a casa mia. Oppure, potrei aprire Facebook per rivelare istantaneamente i miei pensieri segreti a una compagna di università, per intraprendere un sentiero che potrebbe rivoluzionare, chi può dirlo, entrambe le nostre vite prevedibili e noiose. Posso trovare lavoro, su Internet. Potrei addirittura utilizzare un simile strumento per violare la legge, se mi svegliassi un giorno con una diversa personalità. Ed io dovrei pensare, a questo punto, che tutto ciò sia ancora niente più che”Virtuale”… Suvvia! Dev’esserci un’ottima ragione se un tale termine, tanto popolare verso la metà degli anni ’90, al punto che si ritrovava addirittura sulle buste delle patatine, è finito per passare in secondo piano rispetto a ben altri, assai più pregni e significativi. Come per l’appunto, la realtà aumentata. Ed anche…Un qualche tipo di ottimismo, immotivato e latente.
Una vita trascorsa di fronte al computer. Svegliarsi la mattina, di buon ora, per recarsi fino al luogo di lavoro, dove nella maggior parte dei casi ci si troverà dinnanzi ad uno schermo fluorescente. È una semplice realtà del mondo di oggi: non importa che si faccia gli avvocati, i commercialisti, gli impiegati delle poste. Addirittura ormai, i professori o i commercianti. Un’alta percentuale del proprio sapere professionale, acquisito magari tramite i molti anni di esperienza, dovrà tradursi nella pressione ripetuta di una serie di pulsanti su tastiera, al fine di ottenere un qualche prezioso, desiderabile risultato. Come in una sorta di materialistico MMORPG (gioco di ruolo online). E parlando di quest’ultimo, o altri simili passatempi, non è nemmeno improbabile che consumato il proprio pasto serale, l’impiegato al di sotto di una certa età scelga d’accendere nuovamente il PC di casa, per mettersi a combattere gloriosamente contro orchi, nani, carri armati ed elfi. In quella stessa, identica, fisicamente statica maniera. Così l’unico momento in cui siamo davvero liberi, in un certo senso, diventa quello degli spostamenti tra un computer e l’altro, quando nonostante tutto ci troviamo costretti a fare attenzione a dove mettiamo i piedi, al colore dei semafori e alle schiene da schivare, oppure i fanalini di coda, dei nostri consimili e conviventi, in pura carne e dure ossa. E se persino quei fugaci momenti in cui torniamo simili alle generazioni dello scorso secolo (e tutti quelli venuti prima) d’un tratto all’improvviso, dovessero sparire?

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