“Per volere degli Dei essi verranno sottoposti alla suprema punizione. Che il villaggio dei ribelli venga dato alle fiamme. Che i loro guerrieri versino il sacro fluido della vita come concime nei campi della valle. Che i capi siano separati dalle loro teste, per intercessione di Aia Paec, il Sommo Decapitatore.” I sudditi della città ai margini dell’arida radura pedemontana volsero lo sguardo al piedistallo in mattoni di fango, in base all’usanza dell’antico rito di condanna generazionale. Dove il sacerdote del Gufo, con la maschera e gli occhiali a nascondergli il volto, enunciava la sua parte, in attesa di passare la parola al riconoscibile rappresentante del suo mistico collega, il Serpente. Sotto il manto in scaglie e piume, egli diede seguito all’arcana enunciazione, mentre al centro della triade, il grande Re teneva in alto il suo pugnale dalla forma di una mezzaluna invertita, in grado di riflettere la luce come un tangibile frammento dell’astro solare stesso. I grandi orecchini, con rappresentazioni di uomini-giaguaro e cane a far da contrappunto all’ornamento nasale ricurvo, sopra cui trovava posto l’alto copricapo, simbolo supremo del suo potere. L’armatura costruita con tasselli del miglior argento, oro e rame a disposizione. Terminato il tempo delle semplici parole, egli si rivolse con un gesto verso il basso edificio presenziato dall’unica donna di quel mondo, che aveva assolto al compito di purificazione dei prigionieri. Trasportati al termine di una stringente fune, totalmente privi di vestiti, essi vennero spinti in ginocchio dai guardiani all’ombra dei padroni di un triste destino. Quando l’ombra della meridiana fu prossima a sparire al del tutto, il coltello del sovrano era ormai sopra la testa della prima vittima sacrificale. Con un grido attentamente modulato, venne dato il segnale. E il sangue iniziò a scorrere, copioso.
È la narrazione di cui siamo meglio a conoscenza, forse la più importante di tutte, nella ritualità e celebrazione religiosa del popolo dei Moche, il cui dominio culturale, se non politico da un punto di vista tradizionale, si estese tra il secondo e il nono secolo d.C. in un territorio grosso modo corrispondente alla parte nord-orientale dell’odierna nazione peruviana. Testimoniata non mediante un resoconto scritto, giacché alcun tipo delle loro immanenti codifiche del linguaggio è giunta intatta fino ai nostri giorni, quanto grazie a nette raffigurazioni negli oggetti rituali, sui recipienti di terracotta o ancora tecniche d’incisione e bassorilievo sui metalli, che lavoravano con un grado di perizia molto superiore alla media dei loro vicini sudamericani. Ma forse la più chiara e completa prova di quel mondo, della sua precisa crudeltà ed il modo in cui venivano condotti gli affari di stato, può essere individuata nel singolo ritrovamento archeologico di quell’intera area geografica, denominato in modo metaforico come il Tutankhamon sudamericano. Soprattutto per la fortunata contingenza, che avrebbe permesso ad una serie di tombe particolarmente importanti risalenti al 700 d.C. di sopravvivere intatte dalle predazioni dei ladri, fino al 1987 quando, per una serie di sinergie e convergenze, eminenti addetti del mondo accademico ebbero l’entusiasmante occasione di riportarle alla luce…
imperi
L’eredità sasanide del più spettacolare arco di mattoni costruito nel Mondo Antico
Essere un cittadino dell’Impero Romano d’Oriente costituiva un vantaggio sia dal punto di vista amministrativo che culturale, capace di rendere i prestigiosi membri di quell’universo i promotori di precisi standard di organizzazione che ispiravano ed affascinavano le altre civiltà coéve. L’arrivo delle legioni, in modo particolare, successivamente alle battaglie e l’attrito proveniente dall’occupazione militare, iniziavano in base a una prassi collaudata a costruire strade, nuove infrastrutture, diffondere la conoscenza nell’impiego delle suddette al fine di semplificare e migliorare la qualità della vita. Non capitava molto spesso, d’altra parte, che i portatori delle Aquile restassero del tutto senza parole, poco dopo l’ingresso all’interno di una roccaforte nemica. Come quando Flavio Eraclio I di Bisanzio nel 627, analogamente a quanto fatto dai suoi antichi predecessori d’Occidente, accerchiò i Persiani che avevano attaccato Costantinopoli, fino ad assediarli nella loro capitale Ctesifonte. Ed attraverso l’uso della superiore tecnologia e pazienza posseduta dalle proprie armate, vide i propri emissari fare un ingresso trionfale oltre le mura da cui avrebbe tratto origine un vantaggioso trattato di pace con la dinastia di Sasan. Eppure quelle invicte armate nel proprio trionfo, mettendo per la prima volta piede nel palazzo del re persiano Cosroe II, non poterono fare a meno di guardare in alto rimanendo totalmente senza parole. Mentre scrutavano coi propri occhi la singola costruzione che neppure l’Urbe stessa, in tutta la sua magnificenza, avrebbe mai potuto vantarsi di possedere. Immaginate una struttura alta 37 metri e larga 26, il cui spazio principale risulti essere del tutto vuoto. Un ingresso ad arco in parole povere, tipicamente rappresentativo della sala delle udienze nell’architettura iranica e che oggi viene definito iwan, da un potenziale slittamento etimologico dalla parola apadana. Incorporato nella facciata di un gigantesco edificio, attraverso il quale venivano fatti passare i visitatori con l’intento molto pratico d’incutere sopra le loro teste un incombente senso di soggezione. Obiettivo tipico dell’architettura al servizio del potere assoluto, che qui veniva d’altra parte elevata al rango di una vera e propria arte. Per volere e in base alle precise direttive di un imprecisato membro di quel clan regnante, dando luogo ad uno dei più significativi fraintendimenti dell’architettura dei popoli del Golfo Mediorientale. Giacché in maniera senza dubbio sorprendente, soprattutto visto il contesto assai documentato di quell’importante regione, ad oggi non sappiamo quale possa essere precisamente l’anno, e neppure il secolo della sua svettante edificazione. Con le due principali attribuzioni interconnesse alle figure di altrettanti, cronologicamente distanti sovrani…
Il colosso d’acciaio rimorchiato nell’Atlantico per mantenere operative le navi di Sua Maestà
Un migliaio di chilometri d’Oceano dal continente più vicino ed appena 53 totali d’estensione: in un luogo dove si è tentato di sfruttare fino all’ultimo angolo di terra emersa, per non parlare dei preziosi punti d’approdo, può sembrare strano che un relitto poggiato sul fondale occupi il tratto di mare antistante al distretto che i locali chiamano Spanish Point, tra i più densamente popolati dell’isola famosa per i tetti bianchi delle sue abitazioni. Eppure alle Bermuda tutti riconoscono, pur non potendo recitarne necessariamente la storia, i 115 metri color ruggine del pezzo di metallo, fronteggiato da un ulteriore pezzo frastagliato della sua struttura originale, facente chiaramente parte di una nave sufficientemente grande da far pensare immediatamente all’epoca contemporanea. Un subitaneo senso di sorpresa potrebbe tendere per questo a scaturire, nella presa di coscienza che l’ingombrante orpello possa attribuirsi oltre 150 anni d’età, risalendo all’epoca in cui uno dei più duraturi territori d’Oltremare britannici costituiva soprattutto una base militare, ancor prima che una solitaria, atipica colonia e punto d’interscambio tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, dal destino strettamente interconnesso nei sentieri paralleli della Storia. Essendo stato costruito nei cantieri sul Tamigi della Campbell & Johnstone in quella stessa Londra di epoca vittoriana, che tra le molte meraviglie assemblate con il ferro e l’acuto ingegno aveva visto pochi anni prima nel 1854 il completamento dell’imponente transatlantico Great Eastern di Isambard Kingdom Brunel, paradossalmente l’unico vascello esistente a non poter beneficiare dei servizi dell’altrettanto innovativo “cantiere galleggiante” HM Bermuda (nomen omen) messo assieme per assolvere a uno scopo specifico, all’interno di un contesto molto particolare.
Vuole infatti un paradosso della geologia e del fato, che in un tale luogo strategicamente imprescindibile da quando la Rivoluzione Americana aveva privato Albione dei suoi porti americani, il principale tipo di pietra disponibile fosse caratterizzata da una composizione calcarea inerentemente porosa, poco adatta a mantenere l’acqua intrappolata più di qualche attimo, passaggio necessario per riuscire a sollevare i vascelli dalle acque oceaniche onde sottoporli ad opportuno studio e conseguente pulitura delle parti normalmente al di sotto della linea di galleggiamento. Da cui l’idea di guadagnare un differente approccio allo stesso obiettivo, consistente nel porre in opera un sistema totalmente realizzato a tal fine, nella terra dell’antica civilizzazione, che potesse successivamente essere portato in posizione per assolvere allo scopo necessario. Una sorta di semisommergibile ante-litteram, in altri termini, risalente alla metà del XIX secolo e con la forma estrusa di una prototipica lettera “U”, per certi versi simile al tipico half-pipe usato dai virtuosi dello skateboard per portare a termine le proprie distintive acrobazie…
L’immenso potere delle uova d’insetto rubate per salvare l’Impero Romano
Qual è il vero potere intrinseco di uno status symbol? Nessuno, per gli affari e le questioni di una cultura effettivamente matura, in cui l’immagine è subordinata alla sostanza. Eppure virtualmente illimitato, quando le impressioni tratte in merito ad una persona restano di un tipo prevalentemente superficiale, oppure disponiamo di una limitata quantità d’istanti, affinché qualcuno possa farsi un’idea di cosa siamo e da dove veniamo. Il che risulta parimenti rilevante quanto ci si approccia alla questione da un punto di vista individuale, quanto in merito ad associazioni, compagnie, nazioni o persino… Imperi. Nella metà del VI secolo, all’apice del regno di Giustiniano I, il sommo dinasta che sedeva sopra il trono di Costantinopoli rappresentava molte cose allo stesso tempo. Per il suo popolo, per i dignitari in visita, per i nemici di quel territorio secolare, le cui caratteristiche ascendevano attraverso schiere di generazioni intente a preservare la solenne idea. Che nulla venisse prima o dopo l’Urbe, anche dopo che l’Urbe stessa era caduta. Trovando una degna sostituta in quel vasto territorio che veniva detto Oriente, benché grandi e inesplorate terre fossero effettivamente situate, ancor più ad est, nella direzione astrale del mattino distante. Luoghi come il punto da cui originava, tramite maniere o procedure largamente sconosciute, quel prezioso materiale tessile da cui veniva fabbricato il suo mantello, ogni oggetto del potere immaginabile e che rappresentava un importante dono diplomatico, il tangibile confine della casta dei potenti, il fondamento di un commercio straordinariamente redditizio. La seta, ovviamente, così chiamata per l’origine all’interno della patria misteriosa che gli antichi definivano Serica/Seres, la colonia “sotto un altro cielo” che generazioni di geografi, ormai da lungo tempo, hanno tentato di associare al saldo impero degli Han. Che fosse la Cina oppure l’India, non ci è necessariamente chiaro, benché una cosa resti largamente acclarata dalle notazioni di contesto: esso era un luogo straordinariamente irraggiungibile e lontano. L’ideale punto d’origine, fin da quando esiste il commercio, delle merci di maggior valore nella società umana.
Immaginate dunque la gravità delle circostanze vigenti quando, completata la gloriosa impresa della riconquista dei territori italiani grazie alla prima fase della spedizione del generale Belisario giudicata un successo nel 540, Bisanzio si trovò immediatamente e nuovamente in guerra coi Sassanidi, gli eredi di quello stesso impero persiano che tanta sofferenza era costata ai celebrati avi delle gens dei Cesari che avevano dimora sul colle Palatino. Assieme alla realizzazione che la principale ed unica strada possibile per l’approvvigionamento di numerose utili risorse, tra cui la seta stessa, era stata istantaneamente recisa, data la necessità da lungo tempo tollerata di dover fare affidamento su intermediari dell’Asia centrale per riuscire ad averla. Un anno dopo, quindi, le cose peggiorarono persino ulteriormente, con il diffondersi presso la capitale della cosiddetta piaga Giustiniana, un’epidemia di quello stesso batterio Yersinia pestis destinato a costare la vita a 50 milioni di persone (secondo una stima conservativa) nell’Europa del XIV secolo. Doveva esserci dunque un’atmosfera molto particolare, per non dire affetta da un latente alone di disperazione, quando due misteriosi monaci nestoriani si avvicinarono al palazzo al Sacrum Palatium dell’Imperatore ricostruito soltanto una decade prima successivamente alle rivolte di Nika. Per poter fare la loro incredibile proposta, dopo il superamento di diversi intermediari, direttamente al sovrano: “In lungo e in largo noi abbiamo viaggiato. E giungendo nella capitale di quella città segreta, abbiamo appreso l’effettiva origine della seta. Dateci le necessarie risorse, o Cesare, e noi torneremo in queste sale con quello che occorre per distruggere un monopolio…”



