Attorno al XVII secolo, mentre i coloni olandesi continuavano a ingrandire e rifornire il Castello di Nuova Speranza, punto di riferimento primario per i convogli mercantili marittimi in andata o ritorno dalle terre d’Oriente, esploratori, prospettori e naturalisti ebbero modo di fare la conoscenza con un nuovo tipo di popolazione nativa. Una tribù solitaria, ma rumorosa, che scrutava ogni loro movimento dalla cima della Tafelberg, il rilievo perennemente avvolto dalle nubi che oggi conosciamo col nome di Table Mountain. Il primo contatto, come spesso avviene, fu piuttosto difficile, vista la spontanea diffidenza degli abitatori di queste alture. Ma non c’era sostanzialmente nulla che potesse impedire loro, prima o poi di fare affidamento sulla sostanziale benevolenza degli umani. Già, perché gli iraci del Capo, anche detti tassi delle rocce o dassie (Procavia capensis) non hanno particolari esigenze territoriali, una natura invadente o indole che possa definirsi feroce. Stiamo parlando di un personaggio la cui esistenza consiste, per il 95% del tempo, nel riposarsi sotto la luce diretta del sole, allo scopo di compensare la propria termoregolazione imperfetta. Eppure sarebbe certamente riduttivo definire simili bestioline come del tutto prive d’interesse, quando si prende atto della compattezza delle loro colonie, composte di fino a 80-90 esemplari e con una discendenza che, molto spesso, potrebbe rivaleggiare in antichità con quella degli stessi strati geologici all’interno dei quali è solito scegliere la propria tana.
Creatura dal peso di 3,5-4 Kg, così diffusa da essere citata anche nella Bibbia (ne esistono colonie millenarie in Siria) l’irace è straordinariamente significativo dal punto di vista tassonomico, per una parentela tutt’altro che evidente con i proboscidati e i sireni, che può essere unicamente desunta da alcune caratteristiche morfologiche e comportamentali. Come gli elefanti, infatti, l’animale presenta due denti prominenti, configurati in questo caso come altrettante piccole “zanne” da vampiro, ha i piedi posteriori plantigradi e un naso sensibile usato per tastare le cose, benché non abbia ancora avuto modo attraverso le generazioni di assumere la forma di una lunga e flessibile proboscide. Per quanto concerne invece la sua eredità da dugonghi e lamantini, essa può essere ricondotta principalmente alle complesse vocalizzazioni emesse a seconda della situazione vigente, con una sintassi e valenza comunicativa paragonabile a quella dei cani della prateria, altra comunità del mondo animale che per poter sopravvivere, deve fare affidamento sulla prontezza nel reagire alle emergenze o l’arrivo di un eventuale predatore dal cielo. Eventualità nel caso in cui il dassie mette in campo un altro specifico adattamento, particolarmente utile presso gli altopiani assolati del territorio sudafricano, il cosiddetto umbraculum, una sorta di membrana che protegge gli occhi dalla luce diretta, svolgendo la funzione sostanziale di un paio d’occhiali da sole integrati. Affidandosi ai quali nessun falco, aquila o altro rapace potrà piombare sulla colonia non visto, a patto che la sentinella di turno durante le fatidiche ore del foraggiamento non venga distratta o si addormenti durante l’attesa. Ma questo non succede praticamente mai.
Al diffondersi dell’allarme, dunque, la reazione del mucchio peloso d’individui è praticamente immediata: con una prontezza che sembra prescindere la loro forma tozza e le zampe dalla lunghezza paragonabile a quelle di un gatto di razza munchkin, i mammiferi dai pronti riflessi iniziano a sparpagliarsi tra le rocce, arrampicandosi agilmente e in taluni casi, salendo persino sugli alberi circostanti, in cerca di riparo tra le fronde. Un gioco che non sempre gli riesce nel loro paese d’origine (altrimenti non potrebbero esistere predatori specializzati come l’aquila di Verreaux, Ictinaetus malayensis) benché al di fuori dell’area africana, non si abbiano semplicemente notizie di simili pasti ragionevolmente sostanziosi ritrovati nello stomaco di un lupo o altra creatura di terra. Il che dimostra, senz’ombra di dubbio, i meriti e le capacità di questi abitanti di una nicchia abitativa tra le più elevate dell’intero emisfero meridionale, in grado di estendersi fino ai monti Sarawat sulla costa occidentale della penisola arabica, verso oriente. Con molte differenziazioni e gruppi genetici chiaramente distinti…
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Il drago sputafuoco che si specchia nelle acque del fiume Don
Come avviene per molti altri luoghi del fantastico, è particolarmente importante non smarrirsi sulla strada per Kudykina Gora, la Montagna [russa] del Chissà Dove. Non che nel caso di un tale luogo, possano esservi d’aiuto indicazioni come “sempre dritto” o “seconda stella a destra prima del mattino”. E neppure Google Maps, visto che i ripetitori del segnale Internet cessano di funzionare a circa 11 Km da Zadonsk, il paese di 10.000 abitanti situato nel distretto omonimo, non troppo lontano dal confine settentrionale dell’Ucraina. Soltanto i vostri GPS, almeno fino a un certo punto del percorso, possono guidarvi a destinazione, benché considerando la natura estremamente rurale del territorio, inclusiva di strade non precisamente riportate sulle mappe internazionali, sia comunque consigliabile fermarsi e chiedere agli abitanti del luogo, neanche foste stati trasportati per davvero in un’epoca velatamente leggendaria. “Dov’è il drago? Dov’è il mostro? Dove siede, in agguato, Zmey Gorynych, lo scaglioso signore della montagna, nemico di tutti gli Dei e tremenda vipera del sacro libro di Veles?” Seguendo uno dei fiumi più lunghi dell’enorme paese, finché alla vostra destra, stagliandosi contro il sole, scorgerete la più alta delle tre teste fare capolino all’altezza di 18-20 metri, seguita da un gran paio d’ali e il dorso scaglioso della spaventosa creatura. Una statua, almeno in base all’opinione dei più razionali, benché appaia in qualche modo assai particolare. In effetti, non è affatto tipico che tali arredi paesaggistici, non importa quanto strani e singolari, scaglino lingue di fuoco verso il pubblico in solenne attesa.
Tubature del gas interne al grande arnese, collegate ad una grossa bombola semisepolta nel paesaggio erboso. È un concetto, se vogliamo, particolarmente “russo” benché trovi applicazione, in questo ambiente, per dare la vita a una creatura che appartiene a tutto il mondo slavo, fin da quando i preistorici Solomonari, cupi negromanti uniti sotto il lago di montagna, la incatenassero e corrompessero per dare sfogo ai loro compiti maligni. E “Chi controlla il clima, controlla il mondo” avrebbe potuto riassumere il pensiero di costoro, quando precorrendo di svariati secoli Mazinga fuoriuscivano dall’acqua lacustre di una montagna ignota, a cavallo della bestia sopra i cieli cupi e tempestosi della nazione temporaneamente addormentata. Pioggia, fulmini e la furia senza tempo dei tornado! Sopraggiunta l’epoca moderna, quindi, simili scherzi del clima persero il significato primordiale. Lasciando il drago in questo luogo di pensionamento terreno, che oltre a offrire presupposti di guadagno per chi lo amministra, è un modo per staccare temporaneamente dalla vita fin troppo connessa delle moderne città. Trascorrendo un lungo pomeriggio tra i divertimenti, animali esotici di vario tipo e le curiosità della natura. Ma non è tutto “semplice” nel parco giochi di Kudykina Gora, per non dir spontaneo ed immediato. La vera fortezza costruita in legno, come gli avamposti di frontiera della civiltà dei gotici Grutungi, da cui si dice che discenda la tribù dei ‘Rus e conseguentemente tutto il mondo Russo dell’antico Medioevo. Presso cui, la gente, finito il giro delle variegate attrazioni, si raccoglie attorno al triplice colosso, aspettando l’ora prefissata in cui il venerando Zmey dimostrerà, ancora una volta, la sua furia fiammeggiante.
Volendo essere concreti, stiamo parlando di una statua costruita in cemento sopra un’armatura di metallo, dall’artista autodidatta di origini ucraine Vladimir Kolesnikov, famoso per i suoi arredi con personaggi fantastici, prodotti a vantaggio di molti parchi e giardini dei paesi dell’ex unione sovietica, generalmente riconoscibili dalla vivace verniciatura dai colori pastello, che li fanno assomigliare alle illustrazioni di una bylina, fiaba della tradizione orale messa in versi da qualche poeta dimenticato. Eppure sarebbe lecito affermare che sia proprio la tonalità uniforme, grigia come un blocco di granito, a donare un aspetto particolarmente draconiano al suo capolavoro, l’imponente attrazione al centro di tante composizioni fotografiche dei circa 500 ettari del parco, costruito verso l’inizio degli anni 2000 da un consorzio di agricoltori ed uomini d’affari locali. Ma ciò che implica, dal punto di vista leggendario, non dovrebbe essere mai sottovalutato…
Gli anziani e i giovani guerrieri del più armato tempio del Gansu
Verso l’inizio del 24° secolo a. C, in una grotta buia in prossimità del picco più alto della montagne del Kongtong, nella provincia del Gansu, viveva probabilmente l’uomo più formidabile del mondo. Guangchengzi, manifestazione terrena di uno dei Tre Supremi Esseri, che aveva scelto una vita di solitudine per meditare sull’origine e il significato del Tao, possedeva tre armi capaci di vincere qualsiasi battaglia: il grande sigillo di bronzo Fantian Yin, che poteva uccidere chiunque se lo trovasse appoggiato con forza sulla propria fronte; la campana di Luohun, il cui suono poteva annientare le anime dei suoi nemici e le due spade Yin e Yang, infuse dei principi contrapposti, maschile e femminile, che sostengono ed accrescono il significato della Via. Quando costui aveva circa 1600 anni (non per niente, lo chiamavano immortale) l’Imperatore Giallo Huangdi in persona ascese le centinaia di scalini, e i molti metri di strade scoscese, necessari per giungere al suo cospetto. E fu lì che il grande governante, riconosciuto come il creatore stesso del concetto di Cina unificata, ricevette in dono i testi sacri del Taoismo, potendo trasmettere ai suoi eredi il senso di questa fondamentale filosofia. Ma sarebbe assurdo non pensare che in un simile colloquio, iscritto a pagine di fuoco nella storia, egli non avesse ricevuto altri consigli di natura più marziale, validi a garantirgli il successo nelle sue future imprese militari. Oggi, presso il sito in cui si svolse tale intramontabile conversazione, sorge un tempio. Dentro il quale, fin da tempo immemore, vengono praticate le arti marziali del kung fu.
La percezione occidentale degli stili di combattimento cinesi, contrariamente a quelli di epoca moderna provenienti dal Giappone (Karate, Judo, Aikido…) è stranamente uniforme e sembra fare capo unicamente a una singola interpretazione: quella coltivata tra i nebbiosi picchi dove trova posto il tempio di Shaolin. Ma la Cina è un paese vasto, e ancor più vaste sono i contributi che esso seppe dare alla cultura, alla tecnologia e all’intento combattivo dell’umanità. Tra i quali figura il cosiddetto stile del Kongtong, famoso per le sei “Porte” che lo caratterizzano e l’ampio ventaglio di armi inusuali, letteralmente sconosciute altrove, che vengono impiegate con maestria invidiabile dai possessori dei suoi segreti. Tutto viene fatto risalire, convenzionalmente, alla figura di Feihongzi, famoso spadaccino della dinastia Tang (618-907) che viaggiò per il paese assumendo su di se la sacra missione dello youxia (游侠) il difensore itinerante della giustizia e del bene. Così dopo aver corretto una quantità notevole di torti, e sconfitto i malvagi fino ai più remoti confini del regno, egli decise di aver raggiunto un’età sufficientemente avanzata da iniziare a trasmettere le proprie conoscenze. E per fare questo, fondò una scuola: la Kongtong Pai. Ora è difficile, sulla base del video offerto sul canale della New China Tv, comprendere l’effettiva funzione del complesso di edifici verso cui si apre questo scorcio digitale di un tale mondo misterioso: lui lo chiama semplicemente “il luogo di studio dello stile Kongtong” benché basti una semplice ricerca su Google, per scoprire che un simile edificio esiste, ma si trova ai piedi della montagna, non troppo distante dalla città di Pingliang. È facile desumere di conseguenza, che lo scenario scelto per il video sia uno dei numerosi templi (oltre 20) situati su questo massiccio altrettanto sacro per i cultori di taoismo, buddhismo e confucianesimo, facile da attribuire ai primi, in funzione della grande piazzola sospesa sopra il baratro con sopra raffigurata la figura del Tao.
Ma prima che l’azione si sposti in tale luogo suggestivo (il video è in realtà il montaggio di una serie di puntate trasmesse originariamente in diretta) il reporter ci offre l’opportunità d’incontrare due figure venerabili di questo luogo, combattenti ottuagenari le cui doti atletiche, per molti versi, non hanno nulla da invidiare a quelle di chi potrebbe essergli il nipote. I due vengono presentati come Yue Chi Zhou e Hua Wu Ying, ovvero quelli che dovrebbero essere rispettivamente lo studente e la moglie rimasta vedova del decimo Maestro, nonché lei stessa undicesima Maestra, dell’antico stile praticato nella scuola di Kongtong. La nostra prospettiva viene subito allargata verso alcune delle “strane armi” strettamente interconnesse con la cognizione nazionale di questo approccio al combattimento, con lui che impugna una pipa di bronzo, non dissimile da quella che tanti film di arti marziali hanno messo spesse volte in mano ai ninja, maestri giapponesi nell’impiego d’implementi d’offesa apparentemente innocui, nondimeno validi a sopraffare i più blasonati guerrieri. Lei appare dotata, invece, di una spada flessibile e una frusta in crine di cavallo, che secondo la traduzione del reporter in un reale combattimento sarebbe stata cosparsa di veleno, dagli effetti che possiamo soltanto presumere letali. In una serie di taolu (套路 – dimostrazioni delle forme) i due mettono quindi in atto le movenze apprese ormai da tanti anni, con una grazia e una prontezza davvero invidiabili. La signora Hua, in particolare, dimostra una fluidità delle movenze disegnate col suo abito altamente formale, capace di trasportarci con la mente ad epoche ormai trascorse e dimenticate. La colonna sonora di sottofondo riprodotta da un altoparlante non eccelso, straziante canzone proveniente da un qualche film del wuxia, accresce ulteriormente il senso stranamente surreale della scena…
A che serve il ponte vietnamita delle mani giganti?
Forse ne avrete conoscenza grazie a un qualche blog di design, oppure la pagina Instagram di un grande viaggiatore. O ancora il breve segmento mandato in onda, imitando i reportage stranieri, da almeno un paio di telegiornali delle Tv italiane. Il ponte di Cau Vang, inaugurato all’inizio del mese presso la costa centro-meridionale del Vietnam, non lontano dalla grande città di Da Nang, costituisce di certo una visione capace d’impressionare gli spettatori, non importa quanto distanti nello spazio: una sottile striscia, presumibilmente d’acciaio, ricoperta da ordinati listelli in legno e sospesa grazie a due mani gigantesche e ricoperte di muschio sopra una valle erbosa che si estende fino a perdita d’occhio, con pochissime strutture visibili fino al profilo disegnato dalle montagne distanti. Fatta eccezione per i fili appena visibili di un’importante funivia, nei fatti la più lunga del mondo intero, ultimata nel 2007 per 5,8 Km di estensione, terminanti all’altezza di 1489 metri sul livello del mare. Verso una meta che forse, alcuni tra i più attenti ai dettagli, saranno riusciti a scorgere soltanto per pochi secondi ai margini dell’inquadratura promozionale, restando, possiamo presumerlo, immediatamente basiti. Già, perché chi mai si aspetterebbe, nelle profondità del Sud-Est Asiatico le cime appuntite di quelle che possono essere soltanto le torri di un vero e proprio castello europeo, affiancate da un campanile che non apparirebbe particolarmente fuori luogo neppure sopra la grande cattedrale di Notre-Dame? È una domanda altamente situazionale questa, che tra tutti i possibili luoghi a disposizione, si può essere indotti a porsi soltanto tra le cosiddette montagne di marmo, presso la cima che prende il nome di Ba Na. Un luogo legato, nella sua storia e nella fantasia delle persone, a stretto giro di corda con un paese estremamente lontano: la sola ed unica Francia, ambasciatrice ad ampio spettro del gusto e lo stile europeo.
La remota ragione di ciò può essere fatta risalire agli inizi del ‘900, quando l’imperatore Napoleone III, avendo ricevuto notizia che alcuni preti missionari erano stati ferocemente assassinati presso i territori coloniali della Cocincina, inviò alcune navi e un potente corpo di spedizione a “punire” (nei fatti, conquistare) uno dei principali porti strategici dell’intero Mar Cinese Meridionale. Ma quando il fumo dei cannoni ebbe modo di diradarsi, e i burocrati tra i soldati fondarono le prime ambasciate e i posti di guardia tutto attorno al centro di Da Nang, scoprirono quanto fosse calda, umida e piena d’insetti l’aria a queste latitudini tropicali, cercando immediatamente refrigerio alle più elevate altitudini dei picchi montani circostanti. Secondo una curiosa leggenda, sarebbe dunque così che la montagna del ponte avrebbe ricevuto il suo attuale nome: perché quando i manovali e altri membri del presidio occidentale presero a salire l’irto pendio, con la missione di costruire delle lussuose ville per i loro superiori, non poterono fare a meno di evidenziare tra loro la presenza di un alto numero di alberi di banane. Al che le guide locali, sentendo ripetere la parola ignota, capirono invece “Ba Na, Ba Na” che significa “La mia montagna”. In altre versioni, il nome sarebbe invece una storpiatura di quello della moglie del governatore, chiamata dai locali la signora Ya Na. Trascorso ormai oltre un secolo, quindi, delle opulenti residenze non restano segni evidenti, forse per l’opera di frange nazionaliste nel corso dei lunghi conflitti che hanno attraversato la regione, benché il ricordo della loro esistenza sopravviva nitido nella memoria delle persone.
Come faccio a saperlo? Basta completare il giro del ponte delle mani giganti, in realtà niente più che una imponente passerella panoramica per turisti incorniciata tra coreografiche aiuole di crisantemi, per accedere ai giardini altamente decorativi di Thien Thai e al di là di quelli, il sito in cui si trovava l’insediamento straniero. Che oggi ospita un vero e proprio… Luna Park, con svariate attrazioni, tra cui un fantastico agglomerato di edifici apparentemente spostati fin qui da una sorta di varco dimensionale, visto quanto dovrebbero ipoteticamente assomigliare all’aspetto tipico di un villaggio medievale francese. C’è un po’ di tutto, in questo resort dall’alta percorrenza turistica (fino a 3,7 milioni di persone l’anno): la grossa torre a tamburo capace di resistere a qualsiasi assedio, con severe merlature e una cima appuntita; la fontana di marmo nella piazza principale con pavimentazione in cubetti a code di pavone, circondata da saltimbanchi, scimmiette ammaestrate e giocolieri; la chiesa pseudo-cristiana con una sorta di facciata neo-gotica, soltanto lievemente rovinata dall’aspetto un po’ troppo stereotipico della pietra vagamente anticata. E altri deliziosi segreti nel sottosuolo…