La banca nell’alto castello di montagna, concetto futuristico del Medioevo magrebino

Uno dei vantaggi dell’antico sistema societario tribale è la facilità con cui la comunione identitaria possa essere impiegata con il fine di creare strutture organizzative complesse. Nessuna divisione in caste, supervisione d’intenti o corvée imposta dall’alto è di suo conto necessaria, quando l’intera collettività si riconosce come schiatta di una stessa speme, guidata innanzi dalla forza delle tradizioni e il desiderio di rappresentare una propaggine delle sincere moltitudini, istruite dal bisogno e dall’istinto di mantenersi realmente efficienti. Allorché tutto diventa possibile, persino l’adozione di sistemi e approcci che anticipano i flussi concettuali dei nostri giorni. Pensate, a tal proposito, al concetto di una banca. Non tanto come istituto di credito, bensì l’organizzazione fidata, presso cui disporre i propri beni di valore proteggendoli dall’incombenza degli eventi, eventualità particolarmente gravosa in un’epoca di leggi labili e piccole città stato o grandi villaggi, essenzialmente in una condizione di conflitto che si estende all’infinito. Questa era, da molti punti di vista, la regione del Maghreb nel quindicesimo secolo all’epoca della dinastia islamica Wattaside con capitale Tazouta, essendo impegnata a difendere i confini del nominale impero da invasioni esterne al termine della Reconquista spagnola, non aveva altra scelta che lasciare alle etnie dell’alto deserto la facoltà di governarsi da sole. Così come avevano fatto da migliaia di anni, coloro che gli europei chiamavano berberi, ma che fin da tempo immemore si erano autodefiniti con il termine di Amazigh, “Uomini Liberi” ed in tale guisa, avevano raggiunto un sostanziale stato di equilibrio organizzativo. Il concetto di accumulo dei beni, tuttavia, non è soltanto figlio del capitalismo bensì un’essenziale componente della società mercantile, e proprio per questo, costoro avevano potuto usufruire di una metodologia capace di permettere la protezione senza compromessi della posizione di chi aveva più degli altri. E tale struttura, intesa in senso letterale come opera architettonica, era l’agadir (pl. igudar) ovvero “muro” o “complesso fortificato” un tipo di castello dalle spesse mura, entro cui si dipanava una suddivisione degli spazi molto particolare. Con un cortile interno, circondato da alte mura e torri di guardia, presso cui si affacciavano una serie di piccole stanze sovrapposte, tutte identiche per dimensioni e caratteristiche. Ma non il contenuto, giacché soltanto una singola famiglia poteva accedere a ciascuno di tali spazi rigorosamente messi al sicuro con sistemi di chiusura complessi, ove deporre temporaneamente il frutto del raccolto, beni di valore, documenti importanti. Creando in senso pratico l’equivalenza, in altri termini, delle odierne cassette di sicurezza, o ripostigli all’interno di un magazzino ad accesso fortememente regolamentato…

I granai Amazigh, principalmente concentrati nella zona limitrofa delle montagne di Anti Atlante nella parte nord-occidentale dell’Africa, erano un servizio particolarmente utile offerto dal concilio dei villaggi sufficientemente abbienti, il cui territorio includeva uno spazio sopraelevato o collinare del tipo utilizzato alternativamente per una casbah, ovvero il forte in grado di mettere al sicuro i preziosi territori fertile dell’oasi sottostante. Simili, in tal senso, a strutture simili impiegate dai popoli dell’America pre-colombiani, essi erano tuttavia accompagnati da un concetto fortemente avveniristico per l’epoca, l’importanza organizzativa della proprietà privata. Tanto che, in base ad alcuni frammenti ritrovati come la tavoletta in legno denominata Agadir Oujarit databile al 1492, essi venivano regolati da un preciso codice di condotta, che ne affidava la gestione ad un concilio minimo di 10 famiglie, incaricate di supervisionarli a rotazione. Diversa la questione dei guardiani o amin, una posizione di fiducia selezionata in modo specifico dal gruppo di anziani (inflas) con la doppia funzione di sorveglianti armati ed amministratori quotidiani dell’Amazigh. Loro era, ad esempio, la mansione di gestire le imponenti e complicate chiavi della moltitudine di porte, nonché inerpicarsi sulle caratteristiche scale ricavate da tronchi di palma al fine di facilitare l’accesso alle camere sicure sopraelevate. Mansione di primaria importanze, inoltre, era la gestione dei gatti di loro esclusiva proprietà, che mantenevano topi ed altri parassiti lontani dai depositi contenenti cibo. Tanto che fonti coéve riportavano informazioni relative a uno stipendio per costoro commisurato, tra le altre cose. al numero ed abilità dei felini accuditi da ciascuna guardia, identificando gli eventuali bonus con un’espressione traducibile come “mestolo per il gatto”.
Ciò detto, non abbiamo nozioni specifiche relative alle regole o specializzazioni dei diversi igudar, benché sia possibile trarre almeno alcune conclusioni dalla diversa collocazione strategica di ognuno. Particolarmente inaccessibile risulta essere, ad esempio, quello di Id Issa in prossimità del villaggio di Amtoudi, lasciando immaginare una collocazione al suo interno di beni per lo più non deperibili, considerando la necessità di almeno un paio d’ore tra andata e ritorno per varcare i suoi grandi cancelli. Mentre strutture come quella di Ikounka, nella regione di Sous Massa non lontano dalla città di Agadir, erano disposti lungo l’estendersi di una via commerciale, costituendo probabilmente un importante punto di appoggio, e possibilmente anche di scambio, per le organizzazioni mercantili del tempo. Soprattutto grazie alla regola, imprescindibile e fondamentale, di dover lasciare le proprie scorte armate all’esterno.

Con altri esempi d’importanti granai berberi ad Ait Baha, Tafraout ed Imadidane (quest’ultimo costruito in modo assai distintivo, parzialmente all’interno di una caverna) i siti storici degli igudar costituiscono un’importante capsula temporale per lo studio di epoche remote, offrendo con la loro stessa configurazione uno sguardo sulle strutture sociali, e l’organizzazione pratica del Marocco medievale. Ciononostante e pur con i trascorsi tentativi di acquisire l’opportuno riconoscimento, nessun agadir è ad oggi presente nelle liste dei patrimoni tangibili stilati da prestigiose autorità internazionali, possibilmente per una presa di coscienza tarda della loro esistenza all’estero, o forse la poca propensione a volgere lo sguardo verso l’Africa, racchiusa da un alone di persistente mistero. Le cui genti, attraverso il succedersi di civiltà e generazioni, fu più volte innovativa ed ingegnosa al pari dei popoli che albergano alle radici degli altrui continenti. Se soltanto si osservano i loro traguardi, con sguardo oggettivo e la capacità d’intravedere i meriti, di quei sistemi ed approcci fattivi alla risoluzione di problemi latenti.

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