L’importante insegnamento collaborativo della casa lunga irochese

Quando nel XVIII secolo, sui vasti territori del Nuovo Mondo, iniziò la serie di guerre tra potenze coloniali che avrebbe portato alla redistribuzione dei rapporti di potere e i diritti di sfruttamento di risorse e popolazioni, prima i francesi, quindi gli inglesi e infine coloro che seguirono la nuova bandiera statunitense, dovettero fare i conti con una significativa forza militare locale. Diversamente dagli “indiani” delle Grandi Pianure inclini a migrare assieme ai bisonti, o i le genti del nordovest che vivevano di pesca e caccia in un regime di survivalismo a lungo termine, l’intera zona a settentrione di New York, fino alle propaggini dei Grandi Laghi ed oltre, risultava occupata da un popolo fortemente organizzato e capace di delineare una strategia diplomatica, essendo incline ad allearsi di volta in volta con coloro che sembravano offrire maggiori garanzie di preservare i propri tratti fondamentali. Ma forse sarebbe più corretto definire queste genti come una confederazione di culture differenti, secondo la metafora autoreferenziale di una “lunga casa dai cinque focolari”, in cui le tribù dei Mohawk facevano la guardia alla porta est, quelle dei Seneca alla sua controparte ad Ovest, mentre gli Onondaga, i Cayuga e gli Oneida risedevano e gestivano l’interno del vasto edificio. Null’altro che una manifestazione ideale, concettualmente corrispondente all’effettiva configurazione di una soluzione abitativa tanto diffusa da corroborare la definizione riflessiva di Haudenosaunee o popolo, per l’appunto, della Long House. Ora utilizzare tale termine, da un punto di vista europeo, evoca l’immagine tipicamente interconnessa alla cultura vichinga, dell’imponente punto di riferimento o centro nei villaggi di quel particolare contesto medievale, dove viveva il capo assieme ai suoi uomini più fidati. E grandi banchetti o feste collettive venivano approntati, al ritorno dei guerrieri dall’ultima delle loro scorribande. Il che offre quanto meno uno spunto d’analisi comparativa, per il modo in cui l’abitazione più imponente e statica dei nativi americani costituisse un punto di riferimento comunitario, il centro di una vita in cui ciascuno aveva un ruolo, e la sua importanza per la collettività veniva espressa dall’attribuzione di un rifugio valido a difendersi dagli elementi o altri rischi tipici di una società pre-moderna. Ma le somiglianze, sia tecnologiche che funzionali, tra entità così geograficamente distanti si riducono essenzialmente a questo. Laddove la proprietà della casa lunga nordamericana veniva formalmente attribuita alle donne della tribù, così come l’appartenenza a tale gruppo sociale ascendeva in senso matrilineare fino alle origini delle generazioni trascorse. Essa costituiva, inoltre, principalmente un luogo dove trascorrere l’inverno e le profonde ore della notte, risultando totalmente priva di finestre o altre aperture che un singolo camino centrale, permettendo un accumulo di fumo considerato utile dal punto di vista termico e per la conservazione dei cibi. Tali ambienti erano inoltre particolarmente vasti, con una forma oblunga capace d’estendersi per svariate decine di metri, pur essendo raramente più larghe di 4 o 7. Gli agglomerati di simili residenze, infine, venivano generalmente circondati da alte palizzate, facendone delle fortezze sostanzialmente inespugnabili dal punto di vista dei nemici tradizionali della confederazione come gli Algonquini, che dopo essere stati scacciati dalle loro terre cominciarono a chiamarli “Popolo degli assassini” o nella traslitterazione più conosciuta ai nostri giorni, Irochesi.

Shawn James, survivalista ed archeologo sperimentale, costruisce assieme a tre colleghi e tre cani una fedele riproduzione di una long house irochese. Quindi la usa, come di consueto per il suo canale, al fine d’istituire un gradevole ritrovo conviviale con cucina tematicamente appropriata.

Molto dello stile di vita di queste genti, a posteriori, può essere desunto dalle limitate rimanenze dei villaggi di case lunghe, rintracciate grazie ai segni dei pali e le macchie oblunghe nel sostrato geologico, causate dalla disgregazione dei materiali totalmente biodegradabili impiegati nella loro costruzione. Di estrema rilevanza, a tal proposito, i siti archeologici dove frane di fango o il sommovimento di torbiere hanno causato la sepoltura d’insediamenti completi in ogni loro parte, nella misura sufficiente a elaborarne una ricostruzione ragionevolmente precisa. La tipica residenza comunitaria, databile fino a un’epoca pre-colombiana grosso modo corrispondente al nostro anno Mille, prevedeva dunque una lunga serie di pali parallelamente disposti, ricavati da piccoli tronchi di alberi come tassi o faggi, a seconda della disponibilità locale. A tale schieramento, portato spesso a termine dalle famiglie di una giovane coppia, veniva fatta seguire la costruzione del tetto, ottenuta in base alle diverse varianti territoriali tramite l’impiego di legni ricurvi, o più complesse strutture simmetriche a due falde, accuratamente ricoperte con foglie o paglia. Le genti della confederazione irochese, che non possedevano alcun tipo di chiodo o elemento strutturale equivalente, si preoccupavano dunque di ricoprire l’intero perimetro delle pareti esterne con strati di corteccia sovrapposti e legati tra di loro, in una versione verticale di un insieme di tegole dei nostri giorni. Così l’interno della casa, preventivamente suddiviso in una serie di scomparti ciascuno dedicato ad un nucleo familiare diverso, creava una serie d’intercapedini da utilizzare come magazzino, mentre ulteriore spazio di accumulo si trovava al piano sovrastante, per la stagionatura delle carni o verdure preparate adeguatamente. Le due facciate alle estremità venivano decorate con immagini intagliate dell’animale totemico della famiglia che le occupava, mentre un palo sacro poteva essere eretto di fronte alla porta d’ingresso verso l’interno del villaggio, generalmente riservata agli uomini. Un’ulteriore long house, per così dire di rappresentanza, poteva inoltre trovare posto al centro esatto del villaggio per l’organizzazione di celebrazioni sacre o ricorrenze tribali di vario tipo. Ma la funzione principale di tali strutture, quella di proteggere la gente dal freddo dei mesi invernali, trovava la sua massima espressione nel momento in cui la massima quantità di persone occupava i rispettivi spazi interni, riuscendo a massimizzarne i meriti abitativi anche in assenza di un vero e proprio sistema d’isolamento. Le frequenti operazioni necessarie per il mantenimento di tali edifici, nel frattempo, offrivano una significativa opportunità di cementare le relazioni reciproche, mantenendo un clima di mutua assistenza che si rifletteva, in termini macroscopici, con gli altri esponenti del popolo degli Haudenosaunee.

Gli spazi interni delle case lunghe richiedevano una precisa organizzazione comunitaria, oltre alla capacità di appianare ogni tipo possibile di divergenza. Fondamentale, in tal senso, risultava il potere detenuto dalle mogli dei guerrieri di rango più alto.

Una storia utile a comprendere l’importanza delle case lunghe per la meta-cultura degli Irochesi può essere a tal proposito rintracciata nella leggenda di Deganawidah, il mitico fondatore mandato sulla Terra dal Grande Spirito, che in un tempo immemore attraversò il lago Ontario per unificare le genti dell’inesplorato meridione. Per venire ben presto a contatto, assieme ai suoi primi seguaci di matrice Oneida e Cayuga, con il popolo problematico degli Onondaga, guidato dal malefico Atotarho. Un individuo deforme e contorto, i cui capelli erano serpenti e che risultava incline alla pratica efferata del cannibalismo. Così che il nobile Deganawidah, essendo giunto furtivamente presso la cupa residenza di quest’ultimo, si trovò ad affacciarsi dall’unica apertura della casa lunga, scrutando in basso dall’apertura situata sopra il focolare centrale. Per vedere la figura demoniaca intenta a mettere all’interno di una pentola in ebollizione le membra di un suo nemico, recentemente ucciso e fatto pezzi. Se non che in quel particolare momento, vedendo un volto pacifico e sereno che si rifletteva in tale specchio naturale che pensò erroneamente appartenere a lui stesso, Atotarho comprese come una simile espressione non poteva appartenere ad un uccisore di uomini. Il che avrebbe dato inizio, con la classica semplificazione dei racconti, ad un percorso di redenzione che l’avrebbe in seguito portato ad allinearsi con i valori della nascente confederazione di Deganawidah. E chissà se in seguito avrebbe mai compreso come, suo malgrado, tale importante scelta di vita fosse nata da un mero fraintendimento. Unito all’insolita scelta architettonica, tutt’altro che individuale, di abitare all’interno di una casa dotata di una sola finestra!

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