Lupo-coccodrillo ed orso-balena: binari tortuosi per l’evoluzione del cetaceo marino

Così perfetto, nelle sue forme. Tanto insolito a vedersi: dipinto coi colori della mente, sulla cima di un gibboso promontorio, in riva alle acque di un bacino idrico dimenticato. L’aspetto generale di un’antilope, la corporatura di un maialino, con la grandezza approssimativa di un gatto. Creatura il cui nome fu assegnato per la prima volta, circa 10 milioni di anni dopo che l’ultimo esemplare fu sopravanzato dalla marcia inarrestabile dell’estinzione: Indohyus. In tal modo scoperto nel 1983 da Thewissen e Bajpai, nella regione indiana di Kutch; non propriamente un polo archeologico di alto rilievo, né del resto ci sarebbe stato granché d’interessante nell’ennesimo mammifero vissuto durante il periodo del Miocene, caratterizzato forse dal più altro numero d’esperimenti biologici, in larga parte fallimentari, condotti parallelamente dalla natura. Almeno finché, esattamente 22 anni dopo, a un paleontologo statunitense sotto la supervisione di Thewissen capitò d’individuare una strana struttura ossea mentre puliva la collezione di fossili originariamente appartenuta al collega defunto A. Ranga Rao. Qualcosa che si rivelò essere, ad un’analisi più approfondita, indiscutibilmente un chiaro esempio d’involucrum, il sistema altamente distintivo usato dalle balene per percepire a distanza la propagazione dei suoni attraverso l’acqua di mare. La scoperta, per ovvie ragioni, risultò essere sensazionale: ecco finalmente il teorizzato “anello mancante”, la creatura situata tra gli originali ungulati preistorici e i cetacei moderni, individuabile come un antenato in comune tra questi ultimi e l’ippopotamo delle fangose pozze del Serengeti. Ora un’ampia serie di resti ossei accumulati nel corso degli ultimi decenni, sembrava assumere d’un tratto un diverso significato; tra questi, l’aggressivo aspetto del Pakicetus, probabile carnivoro dalla biologia e il comportamento ecologico paragonabili a quelli di un canide lupesco. La cui scoperta risaliva al 1981 ad opera di Philip Gingerich in Pakistan, essendo anch’esso caratterizzato da tratti della conformazione del cranio classificabili come pachyosteosclerosi, ovvero conduttivi ad un sistema uditivo marino. Il che non significava, d’altronde, che simili animali vivessero la maggior parte della propria esistenza completamente immersi nelle acque dell’oceano Paratetide, conduttivo alla creazione di un diverso ecosistema e ricche opportunità di prosperare. Facendovi ricorso, piuttosto, nel primo caso per sfuggire ad eventuali predatori, così come fatto dall’odierno iemosco acquatico (fam. Tragulidi) e nel secondo al fine di pianificare agguati, in maniera potenzialmente analoga a quella di un coccodrillo. Ipotesi, questa, fortemente confermata dalla particolare disposizione degli occhi sopra il cranio della creatura in questione, perfettamente idonei a rimanere immersa quasi totalmente mentre attendeva pazientemente il passaggio della propria vittima designata. Non propriamente la stessa cosa, delle odierne megattere che filtrano biomassa grazie all’uso dei lunghi fanoni…

L’intera questione dell’evoluzione delle balene ha del resto costituito, fin da principio, una questione oggetto di estensive disquisizioni. Possibilmente a causa di una figura retorica impiegata da Charles Darwin in persona, nel suo monumentale testo “L’origine delle specie”. Ove gli capitò, nella costruzione di un iperbole, di far menzione della maniera in cui nulla avrebbe impedito, in linea di principio, alla selezione naturale di favorire nell’orso americano la prevalenza di fenotipi avvezzi alla vita acquatica, finché svariati milioni di anni dopo non si sarebbero avvicinati all’aspetto di un cetaceo a tutti gli effetti. Il che avrebbe generato non poca ironia da parte degli scettici del suo lavoro, pronti ad affermare in modo insincero che il discusso scienziato inglese fosse effettivamente convinto dell’improbabile teoria. Non che ci fosse alcunché di formalmente errato in quanto il barbuto innovatore era sentito di affermare: giacché la continua spinta alla mutazione di ogni creatura, una generazione dopo l’altra, ricorda allo stesso modo l’estro dell’artista e l’attenta progettazione dell’ingegnere, che collaborano accidentalmente nella definizione di soggetti intersecantisi tra loro. Ed anche per questo, talvolta impossibili da prevedere. Ecco dunque nel 1991, scoperto ancora una volta in Pakistan dallo stesso Thewissen, lo scheletro di un’ulteriore passaggio vivente, destinato a ricevere l’appellativo di Ambulocetus. Ancora una volta carnivoro ma questa volta dotato di una dentatura adatta alla consumazione di pesci, con arti corti e spessi simili a quelli di un’odierna lontra marina. Possibilmente dotato di un olfatto molto sviluppato per compensare gli occhi piccoli ed inefficienti, che soltanto raramente gli capitava di utilizzare come strumento primario per dare la caccia alle prede. Un ulteriore passo verso la conformazione fisica sostanzialmente invariabile che oggi associamo al concetto universale di cetaceo, affusolata e priva di collo, capace di spostarsi mediante forti colpi della propria coda orizzontale, si era d’altronde già palesato nel remoto 1930 grazie a Remington Kellog, il paleontologo responsabile della scoperta dell’appropriatamente denominato Remingtonocetus nell’oasi egiziana del Wadi-Al-Hitan (Valle delle Balene). Una creatura dalle vertebre finali appiattite, potenzialmente indicative di un arto retrogrado paragonabile a quello di un castoro, mentre il muso allungato assomigliava sempre maggiormente a quello di un famelico alligatore.

Detto questo e avendo a questo punto superato la soglia dei 10 milioni di anni a questa parte, sarebbe del tutto lecito chiedersi quando esattamente i primi cetacei obbligatoriamente acquatici smisero di percorrere gli antichi recessi di questa Terra. Un approccio che ci porta a ritroso, nello studio paleontologico della questione, al 1839 e la presentazione ad un convegno londinese da parte di Richard Harlan di un particolare fossile trovato in Alabama. Creatura potenzialmente simile al plesiosauro o l’ittiosauro, antichi rettili adattati alla vita acquatica grazie all’impiego di colli flessibili e lunghe pinne. Questo almeno finché ad un proprio collega, per l’ulteriore e imprevedibile scherzo del destino, non capitò di far cadere a terra un osso appartenente al cranio del misterioso animale. Rivelando, così come nel caso molto più recente dell’Indohyus, la presenza di un involucrum.
Ecce, dunque, il Basilosaurus che non aveva in effetti alcunché di dinosauresco. Costituendo, a tutti gli effetti, il prototipo morfologico del moderno mammifero marino, benché privo dei tratti maggiormente avanzati con cui oggi abbiamo familiarità, quali l’ecolocazione ed i fanoni. Ma ogni vantaggio fisico, a suo tempo, avrebbe avuto modo di palesarsi! Poiché la natura è una crudele signora, che tutto può permettere, tranne la sopravvivenza a lungo termine di esseri lontani dall’assoluta ricerca della perfezione. Non importa quanti passi falsi, o piste periferiche, gli possa capitare di percorrere fino alle estreme ed impreviste conseguenze.

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