Verme, artropode o mollusco. Che cos’era il mostro di Tully, esattamente?

I lagerstätte (depositi sedimentari) di Mazon Creek nella contea di Grundy, Illinois, sono famosi per le loro concrezioni ferrose, risalenti a circa 309 milioni di anni fa nell’inizio del periodo Carbonifero, oltre 50 milioni prima della comparsa dei dinosauri. Riportate alla luce accidentalmente nei lunghi anni di scavi effettuati per le miniere a cielo aperto di questo stato, fino all’esaurimento delle risorse minerarie facilmente raggiungibili; ma non dell’interesse da parte della popolazione generalista, che con pala, secchio e cappello ha continuato a visitare questi luoghi, nell’insistente ricerca di un qualcosa di raro o prezioso. Antiche vestigia polverose, forme fisiche di esseri dimenticati, la presenza tangibile del mondo che ebbe a palesarsi nel corso di un’epoca trascorsa, lasciando il chiaro segno di ciò che era, assieme a quello che sarebbe diventato. Ma non sempre il cosiddetto processo dell’evoluzione segue linee chiaramente logiche o definite, come avrebbe avuto modo di scoprire per sua fortuna il collezionista autodidatta Francis Tully nel 1955, la cui prontezza nel trovare un segno di quell’essere che oggi porta il suo nome, nella guisa di una forma fossile di un color giallo ocra, avrebbe costituito un’efficace via d’accesso verso l’immortalità accademica del proprio cognome. Una volta che, recatosi dai paleontologi del Museo Field di Storia Naturale a Chicago, questi non poterono far altro che alzare le braccia, per l’assoluta carenza di documentazioni pregresse in merito a una siffatta creatura. E chi poteva dire, su due piedi, quale potesse essere stata la sua vicenda, le sue aspirazioni, ciò che l’induceva a fare spola tra le varie contingenze dell’Oceano prima dell’inizio Storia?
Siamo abituati a giudicare un “fossile problematico” come il segno geologico incompleto di una creatura. Incapsulata nella roccia soltanto in misura parziale, senza parte del suo corpo, degli arti o magari addirittura la testa. Il che rendeva ancor più inusitato il Tullimonstrum gregarium, come si sarebbe giunti definirlo entro il 1966, proprio perché totalmente racchiuso nel fossile portato dal suo primo scopritore, per non parlare dei molti successivi esempi che avrebbero continuato a riemergere dai lagerstätte nel corso della decade immediatamente successiva. Una schiera apparentemente senza fine di questi animali oblunghi, non più lunghi di 35 centimetri, con l’aspetto grosso modo simile a quello di una seppia. Cefalopode dotato, tuttavia, di una lunga proboscide flessibile con bocca dentata alla fine (!) una fila di cinque opercoli branchiali per lato, simili gli oblò di un sottomarino, e ovviamente i due peduncoli oculari perpendicolari al corpo, simili a quelli di un’odierna lumaca di terra. Il tipico essere ibrido che siamo soliti inserire nei cataloghi fantastici e fantascientifici ambientati su pianeti distanti, dunque, nonché conforme in senso lato all’estendersi generazionale della propria provenienza. Un segmento di periodo lungo approssimativamente 20 milioni di anni, per convenzione definito Pennsylvaniano causa l’altro strato geologico osservato presso il vicino ed omonimo stato americano, durante cui la sperimentazione autogestita da parte dei processi di adattamento e selezione naturale avrebbe portato all’occorrenza di creature assolutamente prive di precedenti, non sempre facili da ricondurre alle derivazioni odierne delle loro antiche genìe. Sebbene la maggior parte di loro, per lo meno, possano vantare una categoria d’appartenenza ragionevolmente chiara…

Un movimento sinuoso e predatorio, mentre scrutava tutto attorno con lo sguardo direzionale di uno squalo martello. Ma ci sono dei vantaggi in termini di maneggevolezza, nel possesso di un singola pinna triangolare.

Il problema principale del mostro di Tully quindi, probabilmente un predatore carnivoro del basso mare fangoso che un tempo si estendeva fino ai confini di queste terre, è proprio il suo possesso di molteplici caratteristiche non facilmente riconducibili ad un phylum definito, amplificando il senso di smarrimento inerentemente associato nell’ambiente scientifico in merito alla sua pregressa ed acclarata esistenza. A partire dalla lunga linea pallida visibile nei propri resti fossili, che estendendosi dalla bocca fino alla coda fu per lungo tempo identificata come il condotto digerente della creatura. Almeno finché una nuova ipotesi diffusa e stranamente convincente, in determinati ambienti, non avrebbe portato ad identificarla come il possibile segno della notocorda, un rudimentale tipo di colonna vertebrale. La cui presenza in tale configurazione, capace di estendersi oltre la posizione corrispondente agli occhi dell’animale, era particolarmente rara ma non del tutto sconosciuta in natura, con ampia attestazione nel subphylum dei cefalocordati, piccole creature scavatrici simili ad anguille ma prive di cranio, che in lingua italiana siamo soliti identificare con il termine di anfiosso. Una questione addizionale da risolvere, poiché il possesso della proboscide flessibile da parte del mostro di Tully lo avvicinava piuttosto all’anatomia, e il possibile comportamento ecologico dei moderni vermi a nastro nemertini (o rincoceli) capaci di estromettere il proprio arto retrattile al fine di catturare la preda mediante l’utilizzo di un veleno paralizzante. Ma il vero punto di svolta sarebbe giunto con uno studio del 2016 condotto da T. Clements dell’Università di Leicester ed altri colleghi inglesi, durante cui l’analisi spettrografica effettuata mediante sofisticati microscopi ad accelerazione di particelle avrebbe portato all’acquisizione di nuovi dati relativi alla conformazione oculare della creatura. I cui organi visivi, come si sarebbe scoperto, presentavano una serie di strati successivi di melanosomi sferoidali e cilindrici, il chiaro segno della presenza di una retina. Una configurazione tanto complessa e riconoscibile da poter essere sostanzialmente ricondotta solamente al vasto gruppo dei vertebrati, esseri che proprio nel periodo Carbonifero stavano iniziando a popolare i mari di questa Terra. Un apparente cambio pressoché totale di paradigma, capace di far diradare via la nebbia dell’incertezza, se non fosse che a partire da una simile pubblicazione molti sono stati i tentativi enfatici di confutarla. Dopo tutto, come avrebbe affermato ad esempio Lauren Sallan dell’Università della Pennsylvania, gli occhi complessi non sono appannaggio esclusivo delle creature dotate di colonna vertebrale, vedi ad esempio i polpi e piovre (Octopoda) per non parlare della probabile presenza di una quantità di fotorecettori piuttosto bassi all’interno dei suddetti organi, ponendoli abbastanza in linea con quelli posseduti da parecchi cefalopodi o molluschi dei nostri giorni. Inoltre, questione non da poco, un cerchio scuro posizionato in corrispondenza degli opercoli branchiali è stato recentemente identificato come il probabile fegato dell’animale, collocandolo in posizione anteriore alla faringe, una casistica del tutto priva di precedenti per quanto concerne la categoria dei vertebrati. Un ulteriore margine d’incertezza, tanto insuperabile ed innegabile, da condurre più di uno specialista a sollevar le braccia in un comprensibile gesto di frustrazione. Abbastanza condivisibile, considerata l’assurdità di un creatura “impossibile” come il sedicente mostriciattolo di Mazon Creek.

La spiegazione offerta da Paul Mayer del museo Field è un buon discorso introduttivo sull’ardua questione del mostro di Tully. Ma come capita in simili casi, per conoscere e confrontare i diversi punti di vista sull’argomento non basterebbe una conferenza.

Tutti convinti di non sapere, e non poter sapere in alcun modo, fatta eccezione per i cultori di un particolare cursus del pensiero teorico, lungamente associato ad una branca collaterale della tassonomia applicata. Quella spesso citata a margine di situazioni di difficile interpretazione come quella del Tullimonstrum, dai cultori del biologo, zoologo e paleontologo statunitense Stephen Jay Gould (1941-2002) uno dei pochi nel suo ambito capace di dedicare una buona parte delle sue pubblicazioni ad analizzare e mettere in dubbio il sistema tassonomico creato originariamente dal grande genio del XVII secolo e padre stesso di tale scienza, Carl Nilsson Linnaeus in persona. Perché in quale modo, affermò Gould, il corso principale dell’evoluzione avrebbe dovuto farsi condizionare da una serie di categorie arbitrariamente definite, come quelle delle famiglie e dei generi creati e gestiti autonomamente dall’uomo? Oppure in altri termini: esiste davvero, in senso cosmico, una divisione del tutto insuperabile tra le singole specie? Quale arcano demiurgo, e quante volte, avrebbe dovuto intervenire per dividere in segmenti le diverse derivazioni dell’originale albero della vita… Soprattutto se una delle migliori regole applicabili al pensiero razionale, nella biologia ed altrove, è che la spiegazione più semplice risulta spesso essere anche del tutto corretta. E che se una bestia pare ibrida, inclassificabile, persino mostruosa, forse è il nostro punto di vista che integra dei presupposti di natura per lo più errata. Perché tentiamo di interpretare le origini a partire dal presente. Piuttosto che fare, come dovremmo, l’esatto opposto.

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