L’arte pubblica monumentale osservata dalla lente di un collezionista della routine

Nella terra dei tornado per eccellenza, grossi e pesanti oggetti che fluttuano nell’aria sono una visione che ricorre nelle cupe fantasie della gente. C’è tuttavia un particolare prato, innanzi al museo Nelson-Atkins di Kansas City, Missouri, dove tale ipotesi appare meno improbabile o spiacevole che in altri luoghi. Grazie alla presenza dal 1994 di quattro volani da badminton costruiti in alluminio e fibra di vetro, dal calibro unitario di due tonnellate e mezzo per 5,5 metri d’altezza, che alludono apparentemente alla partita recentemente completata da un’allegra comitiva di ponderosi giganti. E chi può dire quando, all’improvviso, potrebbero tornare a sollevarsi le loro racchette….
Scherzosamente contrapposti alla facciata formale dell’edificio, reinterpretazione moderna dello stile Beaux-Arts del neoclassicismo francese, essi trasportano il visitatore in un mondo in cui tutto sembra possibile e l’arrivo di un forte vento, ancor più che in altri luoghi di questa metropoli, potrebbe scatenare un pandemonio. E non a caso sussiste la leggenda che gli oggetti in questione, in realtà dei veri e propri monumenti, siano del tutto privi di ancoraggio al suolo ma piuttosto meramente appesantiti mediante un nucleo in acciaio, il che sarebbe a dir poco imprudente o persino, negligente. Tanto che risulta difficile crederci, soprattutto vista l’esperienza pluri-decennale e i grossi passi avanti compiuti in questo eclettico settore, da parte dell’autore Claes Oldenburg che sarebbe giunto a specializzarsi attraverso una lunga carriera conclusasi soltanto nel 2022 e per il suo decesso all’età di 93 anni, in un particolarissimo tipo di Pop Art, che si esprime essenzialmente attraverso lo sproporzionato ingrandimento degli oggetti che siamo soliti vedere, o utilizzare nella vita di tutti i giorni. Come la molletta da 13 metri edificata per il bicentenario della città di Philadelphia (Pennsylvania, 1976) o la grande mazza da baseball reticolare che ne misura 31 (Chicago, 1977). O ancora l’arco di un cupido ipertrofico (San Francisco, 2002) puntato con sua freccia tagliente verso il suolo dell’Embarcadero per alludere con tramite l’ampiezza di 18 metri alle forme delle navi di passaggio o perché no, lo svettante arco del vicino Bay Bridge. Un modo indubbiamente insolito, ma tanto drammaticamente accattivante, di ri-contestualizzare l’arte assieme al suo presunto, rassicurante significato…

La morbidità e la fluidità, temi ricorrenti nelle opere di Oldenburg, possono costituire nella poetica dell’artista un’esortazione a liberarsi dallo scopo che la società tende ad imporci. Una lezione che possiamo trarre, più di ogni altra, dallo stesso concetto implicito del riciclo creativo.

Oldenburg non era mai stato anche prima di giungere a questa particolare ed ingombrante metodologia espressiva, d’altronde, incapsulato da alcun tipo di corrente o metodologia imposta di plasmare in modo fisico le proprie fondamentali idee. Fin da quando, figlio privilegiato di un ambasciatore svedese negli Stati Uniti e una madre cantante d’opera, aveva creato per gioco un regno fantastico di nome Neubern disegnato in ogni singolo dettaglio, dagli edifici all’abbigliamento dei suoi abitanti. Per poi proseguire frequentando arte e letteratura a Yale, esperienza seguìta dal diploma della scuola conseguito presso l’Istituto d’Arte di Chicago all’inizio degli anni ’50, ritrovandosi proiettato verso un mondo che attendeva solamente di conoscere la sua arte. Così dopo un breve periodo trascorso come reporter al bureau municipale e successivamente archivista per il museo Cooper della città, avrebbe iniziato a dare forma alla propria personale interpretazione dell’espressionismo astratto in voga in quegli anni, mediante l’utilizzo del veicolo espressivo delle cosiddette “sculture morbide”. Perché lavorare con le idee ed i concetti intangibili, avrebbe affermato in seguito, non fu mai per lui altrettanto affascinante che plasmare cose pratiche, dotate di una forma che veniva per quanto possibile slegata dalla funzione originaria. Vedi la famoso Sausage (Salsiccia) del 1957, nient’altro che una calza riempita di fogli di giornale. Ed le numerose riproduzioni di oggetti di tutti i giorni mediante l’uso di fil di ferro ricoperto da cartapesta, dagli abiti, al cibo, ai registratori di cassa. In quegli stessi anni dunque, mentre una volta trasferitosi a New York costruiva una galleria personale chiamata molto semplicemente “Il Negozio”, avrebbe dato inizio all’esperienza parallela che avrebbe condiviso principalmente con la figura della sua prima moglie, Patty Mucha. Essenzialmente una serie di esibizioni di arte performativa con costumi surreali o bizzarri, definite collettivamente con il termine di happenings e che avrebbero trovato il palcoscenico ideale presso la chiesa di Judson Memorial nel quartiere di Manhattan.
La sua associazione con l’installazione di massicce opere pubbliche avrebbe dunque avuto inizio nel 1974 con la celebre creazione Tracks nel cortile Beinecke dell’università di Yale, a New Haven, costituita da niente meno che un rossetto gonfiabile alto più di 7 metri con i cingoli di un carro armato, inteso come piattaforma per i discorsi degli attivisti che si pronunciavano contro la guerra del Vietnam, tema doloroso in quegli anni. Così da contrapporre l’irriverente al rigoroso, il femminile alla prepotenza bellica, l’inaspettato all’ineluttabile espressione della violenza. Un tema di commento sociale ripreso almeno in un caso da Oldenburg, che aveva rischiato di essere reclutato forzatamente per il precedente conflitto in Corea, nell’opera Free Stamp (1982, Cleveland – Ohio) situata presso il parco cittadino di Willard, raffigurante un timbro di gomma con inchiostro rosso di 7,9 metri, che allude alla liberazione degli schiavi afroamericani avvenuta all’interno di questo stato. Un tema profondamente sentito dall’artista dall’educazione liberale e che credeva fermamente nell’espressione incontrastata del prezioso subconscio umano.

Affascinante esempio di scultura sovradimensionata di Oldenburg, il “Ponte-cucchiaio con ciliegia” è l’arredo posizionato nel 1988 sopra il laghetto del parco scultoreo di Minneapolis, avendo tratto l’ispirazione da un gadget acquistato casualmente in un mercatino. Coronato dal rosso frutto per iniziativa, ed esclusivo suggerimento di sua moglie.

Un’analisi della produzione di sculture pubbliche di Oldenburg non può tuttavia mancare dell’importante sostegno ricevuto negli oltre trent’anni a seguito del 1970 dalla collaborazione costante con la sua seconda moglie, la già celebre scultrice, storica e critica d’arte olandese Coosje van Bruggen purtroppo deceduta nel 2009 a soli 66 anni, le cui capacità diplomatiche e comunicative avrebbero trovato un ruolo assolutamente di primo piano nell’agevolare l’approvazione e conseguente installazione dei loro monumenti in molti luoghi di prestigio in giro per gli Stati Uniti e l’Europa. Creazioni come la vite ad arco di Rotterdam, Olanda (1982) il binocolo gigante di Venice Beach, Los Angeles (1991) il cono gelato capovolto di Colonia, Germania (2001) ed il quasi contemporaneo “Ago, Nodo e Filo” che colora piazza Cadorna a Milano, con una fantasia intrecciata situata innanzi al palazzo della Triennale.
Verso la creazione di un mondo più spazioso dei suoi singoli fattori costituenti, proprio perché libero dalle imposizioni della cultura rigida ed imperscrutabile, elitaria nella capsula del tempo della propria torre d’avorio. Senza paura di andare contro il rigore delle critiche, spesso reiterate e cariche d’irragionevole livore, rivolte al presunto diritto di esistere per installazioni pubbliche tanto “futili” o “appariscenti”. Come se la bellezza non fosse, in ultima analisi, nell’occhio libero di colui che osserva? Nell’irraggiungibile, prezioso nucleo della sua esperienza personale? In una molletta che ha ormai superato, stabile e svettante, ogni possibile e gravosa imposizione relativa al suo possibile impiego?

Lascia un commento