Lo strano sogno sovietico dell’aliscafo in grado di lanciare un’astronave

“Costi quel che costi” non è che un mero eufemismo, quando riferito al rapido dispendio di risorse, ingegno e finanziamenti da parte dell’Unione Sovietica a vantaggio del suo programma spaziale verso la metà degli anni ’70, quando il direttore Valentin Glushko subentrò a Vasili Mishin, con l’arduo compito di colmare circa 15 anni di gap tecnologico rispetto agli Stati Uniti. Nell’assenza di motori a razzo liquidi riutilizzabili, senza esperienza nel lavorare con grasse masse d’idrogeno. Per l’assoluta e totale mancanza di progetti spaziali alati volanti, sulla falsariga dello Space Shuttle al servizio dell’Occidente. Agli albori del programma Buran, per la creazione e il lancio di un tale velivolo dal cosmodromo di Baikonur, i diversi OKB (bureau tecnologici) furono coinvolti in parallelo per la creazione di una serie di proposte parallele. Tutte abbastanza simili per quanto concerne l’ultimo stadio di questa tipologia di missione: un aereo o orbiter capace di sfuggire all’atmosfera terrestre, senza per questo dover abbandonare il proposito di poggiare il suo carrello su una lunga pista asfaltata, pronto a decollare ancora, ed ancora. Ma l’idea forse più ambiziosa di tutte, che non avremmo conosciuto fino a molti anni dopo, sarebbe partita dall’opera congiunta dei due celebri uffici di Sukhoi ed Alexeyev, finalizzata al riciclo non soltanto della parte finale del mezzo bensì ogni suo singolo componente. Un proposito che persino oggi tenderemmo a giudicare eccessivamente ottimistico; eppure perseguito, all’epoca, con un’ipotesi quasi surreale nella sua esasperata concretezza. Prima di procedere a descrivere il video sopra riportato, opera dell’animatore digitale di Youtube specializzato nella storia dell’esplorazione spaziale Hazegrayart lasciatemi perciò descrivere le sue fonti: nient’altro che una singola lettera scritta da alcuni ex-ingegneri al servizio del governo di Mosca, pubblicata sulla rivista britannica Spaceflight nell’anno 1983. In cui si parlava di un’ipotesi tecnologica chiamata semplicemente Albatross, per uno “Shuttle Russo” che sarebbe decollato non da una comune pista dell’entroterra asiatico, né una rampa di lancio verticale. Bensì le onde relativamente calme del più grande lago al mondo, identificato sulle mappe con il nome di Mar Caspio. Accelerando gradualmente, progressivamente, finché un triplice assemblaggio dal peso impressionante avesse raggiunto i 180 Km/h, procedendo con il mettere in atto l’essenziale suddivisione…

Come osservabile da questo disegno allegato all’articolo originale, la forma dell’aliscafo non era perfettamente identica a quella mostrata nel video in CG. Di suo conto ricavata, come dichiarato nella descrizione stessa, dal modello tridimensionale di pubblico dominio dell’immaginaria (ed arrugginita) “Ship Lorina”.

Gli occhi osservano l’animazione dimostrativa reperita su Internet, senza riuscire tuttavia a capacitarsene. Sarebbe stato possibile spingere una tale massa alla velocità necessaria, risolvendo nel contempo tutte le problematiche ingegneristiche derivanti da una tale serie di meccanismi. La risposta breve è: “Probabilmente no.” Quella più lunga ed articolata, inizia invece con “Può darsi”. È sempre possibile far progredire, d’altra parte, le nostre creazioni oltre lo stadio del tavolo da disegno e l’uomo tecnologico ha più volte dimostrato, nel corso della propria storia moderna, una capacità inaspettata nel riuscire a dimostrare che le sue teorie erano corrette. Così il primo stadio del progetto Albatross, sotto qualsiasi punto di vista rilevante costituito da un colossale aliscafo di 70 metri di lunghezza e 1800 tonnellate di dislocamento, corrispondeva sostanzialmente al grande serbatoio principale dello Space Shuttle, ospitando le considerevoli quantità di propellente Lox/LH2 (ossigeno liquido) utilizzato per il raggiungimento della spinta inerziale desiderata grazie alla fuoriuscita del battello dalle acque, sopra il piedistallo deli suoi alettoni. Obiettivo ottenuto il quale al trascorrere di circa 180 secondi, come al rilascio di una fionda, l’intera parte superiore del triplice sistema si sarebbe separata decollando propriamente al di sopra dei flutti, grazie al carburante contenuto all’interno del primo dei due aerei indipendenti, un razzo quadrimotore riutilizzabile con ali a delta ed una massa pari a 1377 tonnellate chiamato informalmente il Carrier, lungo 91 metri e pensato per poter fare ritorno alla sua base terrestre grazie all’equipaggio a bordo, un po’ planando, un po’ utilizzando le scorte esigue del carburante rimasto al termine della propria missione. Prevedibilmente consistente, come avrete ormai facilmente compreso, nell’accompagnare lo stadio finale o Raketoplan propriamente detto, un aeromobile senza coda di 352 tonnellate, oltre i margini più estremi dell’atmosfera. Da cui esso stesso avrebbe fatto ritorno, qualche ora dopo, perfettamente integro in ogni sua parte, dopo aver assolto lo scopo fondamentale della sua creazione in maniera non dissimile dalle altre proposte coéve del programma spaziale russo, incluse le prime iterazioni progettuali del Buran. Un’idea, almeno in linea di principio, priva di alcuna vulnerabilità o difetto e che potremmo definire in modo relativamente arcano come “trifibia”: poiché capace di sfruttare, attraverso le diverse fasi della sua implementazione, terra, acqua ed aria.

Nella progettazione di ogni missione spaziale multistadio uno degli aspetti più importanti è l’equilibrio tra il peso del carburante ed autonomia di spinta disponibile per ciascuna fase della roboante ascesa. Con diverse tempistiche possibili, come dimostrato da questo accattivante video dello stesso Hazegrayart.

Tranne quella, se vogliamo, alle origini stesse del problema di fondo. Poiché non esistono al mondo, persino oggi, aliscafi capaci di superare l’equivalente di 70-80 Km/h, poco più della metà necessari ad ottenere il sollevamento dei due velivoli facenti parte del sistema Albatross. Ciò a causa di calcoli almeno in apparenza irrisolvibili dello studio della fisica quando applicata al problema, non indifferente, di fare accelerare gli alettoni di metallo attraverso un fluido incomprimibile nonché pesante come l’acqua. Laddove una soluzione maggiormente funzionale per il primo stadio, almeno in linea di principio, sarebbe stata quella di un ekranoplano o aerodina capace di sollevarsi di qualche metro sopra l’acqua grazie allo sfruttamento dell’effetto suolo. Un tipo di velivolo ben conosciuto dall’OKB di Alexeyev, essendo proprio quest’ultimo dietro al prototipo mai completato dell’iconico KM o Mostro del Mar Caspio, un bolide da 10 turbogetti, 545 tonnellate e 550 Km/h di velocità massima. Ma nessuno degli scienziati dietro la lettera del 1983 menziona alcunché di simile e lo stesso animatore dietro al video, comprensibilmente, ha scelto di attenersi ai dati formalmente raccolti. Dopo tutto ogni cosa doveva sembrare possibile, in un paese disposto pochi anni dopo a valutare seriamente lo scavo di un canale dal fiume Volga al Cosmodromo di Baikonur, per un costo pari a 17 milioni di dollari e circa 10 anni di lavoro. Soltanto per poter spostare efficientemente i singoli componenti necessari all’assemblaggio dello spazioplano Buran, finché non si decise di ricorrere piuttosto all’utilizzo dell’aereo più grande del mondo, l’Antonov An-225 Mriya. Distrutto dagli stessi russi poco meno di due anni fa, all’inizio del tragico conflitto ucraino. Perché anche questo è un fenomeno assolutamente, imprescindibilmente umano: dimenticare ogni traguardo perseguito dai propri predecessori. Dinnanzi al bisogno di ottenere un qualche tipo di vantaggio o privilegio personale, da parte di coloro che tirano e dirigono i fili del teatro della storia. Che continuerà a ripetersi invariata, molto probabilmente, anche oltre i confini galattici del nostro singolo, insignificante ed azzurro pianeta.

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