Nel vespro della tenebra latente sottomarina, un dramma sta per giungere in maniera inevitabile alla sua conclusione: il grande cetaceo, appesantito dalla cifra esagerata dei suoi anni, ha smesso ormai da qualche ora di nuotare. Le pinne appesantite, impossibili da muovere, gettano la loro tenue ombra nel grande vuoto verticale, che si estende dalla sabbia fino alle propaggini del cielo superno. Per un’ultima volta, la creatura inusitata ha potuto salutare il tramonto, ma adesso può comprendere grazie all’istinto la sublime vicinanza della sua ora. Niente, o nessuno, provvederà d’altronde a piangerne l’estrema dipartita; mentre già una piccola e gremita folla di creature, pesci, cefalopodi e crostacei, si prepara ad affollarne senza invito il funerale. Giubilo ed esaltazione, la gloria di un banchetto dalle proporzioni spropositate! Un trionfo della carne nella morte, che fornisce un mezzo di sostentamento in grado di nutrire gli affamati! In altri termini, chiunque abiti a profondità e in ambienti tanto irraggiungibili, da non permettere l’esecuzione della fotosintesi clorofilliana. Questo pensa la balena, poco prima della cessazione di ogni idea o ricordo. Ed il suo corpo esanime cominci, gradualmente, a sprofondare. È la caduta, detta in gergo anglofono whale fall, di un gigante. Ovvero la rinascita di grandi assembramenti conviviali, ciascuno in grado di trarre propsperità da una specifica parte residuale di quel tutto. Inclusa la struttura interna che comunemente non contiene nutrimento, né sapore: lo scheletro che abbiamo dentro e come noi, gli antichissimi cugini degli abissi di cui è stata appena resa per antonomasia l’estrema eulogia. Soltanto non provate ad aspettarvi esseri simili a seppie con un becco crudele, o pesci sgretolatori dalle mandibole affini a un mezzo da cantiere. Siam qui al cospetto di un tipo di opera molto più metodica, e sottile. La disgregazione tramite l’impiego di acidi, al fine di raggiungere i lipidi e altre sostanze nutritive contenuti all’interno. Per il volere e l’opera di un verme non più lungo di 3-4 cm, inclusa la sua inamovibile e sofisticata radice. Non sarebbe così lontano dalla verità, in effetti, chiunque si avventurasse nell’offrire un tipo di confronto tale, da riuscire ad associare la presenza ed il funzionamento del genere di verme polichete Osedax a quello di una carota. Infilzato per un verso nel sostrato, come un trapano, mentre il gambo della “pianta” emerge per formare un’intrigante quanto inconfondibile pennacchio. Il chiaro segno che nell’ora macabra dell’infinito annientamento, ancora è tipico della natura ricercare, e in qualche modo continuare a perseguire la bellezza…
Lungamente sconosciuti alla scienza per la profondità dei loro habitat, raramente inferiore ai 1.500, 2.000 metri, gli Osedax o “vermi mangiatori d’ossa” furono infine scoperti per un colpo di fortuna nel 2004, durante una ricerca di routine presso i fondali della baia californiana di Monterey. Quando il biologo australiano Greg Rouse, ai comandi del batiscafo telecomandato Tiburon, scorse degli strani fori, ed ancor più caratteristiche forme, sulle vertebre di un capodoglio passato a miglior vita da un tempo relativamente recente. Un’importante e valida opportunità, per ogni studioso che si rispetti, di mettere alla prova un ampio ventaglio di teorie. E qualche volta l’occasione imprevedibile di alterare in modo sostanziale il paradigma precedentemente acquisito. Gradualmente nella decade a venire, attraverso studi mirati e vari esperimenti condotti negli oceani della Terra, la biologia di queste insolite creature sarebbe apparsa più chiara. Osedax, di cui abbiamo identificato all’ora attuale svariate dozzine di specie, è un tipo di anellide straordinariamente prolifico e dotato di capacità notevoli di propagarsi attraverso distanze significative. Impossibile sarebbe spiegare, altrimenti, il modo in cui specie simili se non identiche compaiono all’improvviso, anche a migliaia di chilometri di distanza, come nel fraintendimento medievale della generazione spontanea dei microbi o delle formiche. Trasportate in questo modo dalle correnti, le larve microscopiche attecchiscono sopra la superficie candida del corpo parzialmente fagocitato. Provvedendo dunque a svilupparsi, in base ad un copione già scritto, nella maniera maggiormente opportuna: saranno infatti tutte femmine, per prime, a colonizzare un nuovo territorio, formando i campi fioriti di cui abbiamo riportato fin qui l’estetica e funzionamento sostanziale. Mentre le loro controparti maschili, in un’esibizione di difformità tra i sessi tra le più estreme dell’intero regno animale, misurano in media una frazione di millimetro, assiepandosi a formare dei veri e propri harem da 50-100 esemplari, ciascuno raccolto all’interno del tunnel scavato da una singola potenziale partner riproduttiva. Ricavato proprio grazie, come accennato poco sopra, da una parte fisica del verme che assomiglia essenzialmente ad un intrico di radici, piuttosto che le ife del sostrato fungino, incaricato di assumere sostanze nutritive dalle ossa della balena. Un proposito condotto al suo coronamento tramite l’impiego di copiose quantità di acido carbonico (HCO3–) secreto incessantemente dall’instancabile creatura. Il che ci porta alla domanda implicita di come, esattamente, possa digerirne il fluido risultante, quando gli Osedax risultano del tutto privi di bocca, stomaco o gli altri tipici elementi di un sistema digerente convenzionale? La risposta sono i microbi, o per esser più precisi dei batteri contenuti nel suo corpo longilineo, appartenenti alle categorie degli Arcobacter, Sulfurospirillum e Sulfurimonas. In una progressione successiva che conduce inesorabilmente verso gli stadi ulteriori della decomposizione della balena, o altra fonte di preziose sostanze nutritive. Ed al termine di un lavoro soddisfacente, la produzione di una nuova generazione di capsule larvali, funzionalmente simili a spore, destinate a schiudersi sopra il prossimo cetaceo defunto.
Un’importante iniziativa dimostrativa, condotta nel 2007 dallo stesso Greg Rouse assieme ad altri scienziati dell’Acquario di Monterey, è stata quindi osservata la capacità dei vermi Osedax di nutrirsi anche di ossa bovine fatte affondare di proposito nei fondali più remoti della baia sul Pacifico, un sostanziale laboratorio delle condizioni in essere nel più vasto e sconosciuto ecosistema della Terra. Mentre approcci simili, condotti in varie regioni incluse le profondità dei mari nel Circolo Polare Artico, hanno permesso di comprendere l’estrema vastità dell’habitat di simili spazzini, perfettamente calibrati dalla natura al fine di occupare una nicchia ecologica ben precisa. Vedi la loro capacità, riportata giusto nel maggio di quest’anno sulla Rivista di biologia marina di Cambridge, di trarre nutrimento anche dai denti appartenuti un tempo agli squali. Chi altri potrebbe, a simili profondità, lontano dalla fonte energetica dell’astro solare, occuparsi di consumare e far sparire i resti di creature semplicemente troppo imponenti perché gli si possa permettere di fossilizzarsi? Poiché l’evoluzione può convergere anche tra regni totalmente diversi. E il processo che in superficie costituisce l’opera di muffe, muschi o licheni, in assenza di questi ultimi diviene l’appannaggio pressoché esclusivo di simili campioni dell’opportunismo situazionale. Lo strisciante verme che anticipa, ed in qualche modo riesce a corroborare, l’ora entropica della non-esistenza finale.