L’incerto destino della valle che detiene l’insepolta kryptonite d’Europa

Poiché il processo tecnologico della moderna civiltà industrializzata può essere rappresentato da una serie di gradini, ciascuno dei quali caratterizzato dall’imprescindibile necessità di determinate risorse, consapevolezze e competenze situazionali. Dall’uomo primitivo per cui la selce era la fonte di ogni utile strumento usato per modificare la natura, al suo discendente dell’Età del Bronzo e i successivi possessori del sacro fuoco in grado di fondere e lavorare il ferro; poi l’acciaio e infine, il tungsteno. E che dire dei cavalli da addomesticare e successivamente, l’alluminio necessario per costruire gli aeroplani? Ma c’è una specifica sostanza, il petrolio, la cui importanza sembra superare intatta le generazioni, come fonte organica di carburanti ed energia elettrica, i due pilastri che incasellano il funzionamento di ogni pratica modernità del nostro quotidiano. Ebbene se ora noi dovessimo costruire una precisa graduatoria, non è poi tanto improbabile che nei prossimi venti, trent’anni tale dogma possa essere d’un tratto accantonato. Almeno in parte e per l’ormai acclarato diffondersi delle fonti rinnovabili, un’approccio di approvvigionamento destinato a diventare necessario con il progressivo complicarsi dei fattori collaterali e logistici connessi allo sfruttamento del territorio. Ed è proprio in questo tipo di passaggi generazionali, ovvero il passo successivo nella prototipica salita della scalinata, che nuove opportunità compaiono sopra la linea dell’orizzonte. Salienti lampadine che si accendono, causa la scoperta di profili inaspettati e incrementali di miglioramento.
Era settembre del 2004 quando la squadra di prospezione guidata dal geologo Nenad Grubin, stipendiato assieme ai suoi colleghi dalla gigantesca multinazionale mineraria australiana/britannica di Rio Tinto, si trovava in Serbia alla ricerca di nuove opportunità d’investimento. La sua missione: individuare potenziali fonti di boro, un elemento usato nella produzione industriale di oggetti resistenti alle alte temperature, come utensili da cucina o navi spaziali, la creazione di composti chimici rilevanti dal punto di vista farmacologico e l’integrazione all’interno di cosmetici e saponi di varia natura. Laggiù nella valle del fiume Jadar, un tributario lungo 75 Km del più famoso Drina, spesso paragonato per l’ampio bacino fertile storicamente rilevante al Po ed alla Pianura Padana d’Italia. In quel momento destinato, dunque, a rivelare già in seguito ad una sua prima trivellazione fonti economicamente rilevanti di quel sospirato minerale. Ma sarebbe stato al secondo foro praticato verticalmente che qualcosa di ancor più interessante avrebbe lasciato Grubin totalmente senza parole: un tipo di roccia mai vista prima o toccata con mani umane, destinata a ricevere il nome di battesimo sul campo di jaderite. Così riferendosi a quel territorio, piuttosto che alla giada (con cui la nuova scoperta non ha nessun punto in comune, neanche la pronuncia visto che si dice yaderite) gli scienziati sottoposero la pietra frutto di particolari condizioni ambientali ad un’analisi rivelatoria, destinata ad individuare al suo interno oltre al boro una copiosa quantità di quello che potremmo definire come l’oro bianco dei nostri giorni: il metallo duttile e malleabile chiamato litio, materia prima insostituibile nella produzione delle moderne batterie, ma anche pannelli solari, turbine eoliche, leghe per telai di mezzi ad alte prestazioni, purificazione dell’aria… E tutto questo in una quantità possibilmente priva di precedenti, tanto che le proiezioni maggiormente ottimistiche parlano di 58.000 tonnellate di minerale estraibili annualmente da un pool di 136 milioni, pari al 17% del fabbisogno complessivo mondiale.
Trovandoci al cospetto, in altri termini, di un paese dell’Est Europa dalle condizioni socio-economiche storicamente complesse, che d’un tratto valutava il potenziale d’affacciarsi sul panorama commerciale globalizzato, non in qualità di vittima collaterale bensì un player di portata monumentale, rivale diretto di giganti nell’approvvigionamento delle risorse prime come l’Australia, la Cina e gli Stati Uniti. Se soltanto le cose potessero dimostrarsi, a tutti gli effetti, semplici come sarebbe stato legittimo aspettarsi a partire da presupposti fin qui menzionati…

Con una risonanza mediatica esponenzialmente incrementata da una coincidenza, giacché scienziati britannici avrebbero notato che l’effettiva composizione della jaderite (“sodio, litio, idrossido silicato di boro e fluoro”) sia molto simile a quella descritta nel film del 2006 Superman Returns come quella caratteristica del fittizio minerale kryptonite inviso al titolare alieno, la scoperta dei tecnici di Rio Tinto non avrebbe tardato ad attirare l’attenzione della classe politica e popolazione serba nel suo complesso. Con gli addetti della compagnia che si affrettavano a comprare estensivi terreni nella valle di Jadar, utilizzando offerte a cui era difficile resistere e dove possibile altri mezzi di persuasione, nel giro di pochi mesi il progetto appariva ormai evidente: la costruzione di un grande impianto di estrazione e processazione, finalizzato a costituire il primo anello di una nuova filiera di esportazione valida ad incrementare in modo significativo i profitti di ogni singola parte coinvolta. Entro il 2017, con il supporto della classe politica ed in modo particolare dell’ormai quasi decennale presidente della Serbia, Aleksandar Vučić un piano di sfruttamento aveva ormai assunto proporzioni chiari, con la costruzione prospettata di un vasto impianto di trivellazione e processazione della jaderite, mediante un nuovo processo scoperto e messo alla prova da un team internazionale serbo, americano, australiano presso uno stabilimento sperimentale a Melbourne. Un approccio mai implementato prima, dato il reticolo fittamente indivisibile di boro e litio presente nel minerale, tale da richiedere copiose quantità di acido solforico e conseguente produzione collaterale di arsenico, almeno potenzialmente in grado di avvelenare l’ambiente e le pregiate falde acquifere nel sottosuolo della regione. Questione destinata a suscitare immediate proteste tra gli abitanti locali, subito seguite dalla formazione di agguerriti comitati, inclini come da copione ben collaudato ad incolpare i politici serbi di voler svendere le ricchezze ambientali e territoriali del paese alle ragioni del capitalismo straniero. Così come prevedibili sarebbero state le risposte di Rio Tinto, che oggi ospita sul suo portale web una lunga serie di domande e risposte sul tema della sicurezza e conduzione presumibilmente etica, di quello che dovrebbe diventare in un futuro non ancora palese il cosiddetto Progetto Jadar. Un tentativo di rassicurare il pubblico in effetti non del tutto riuscito, se è vero che il mandato governativo sarebbe stato sospeso nel 2022 con il pretesto di voler dare soddisfazione all’opinione pubblica. Benché sia del tutto ragionevole immaginare, al tempo stesso, che gli effettivi detentori delle chiavi del regno stiano a questo punto valutando l’opportunità non troppo remota di ottenere un’offerta migliore.

Dopo tutto la questione della jadarite è un caso totalmente senza precedenti nell’Europa contemporanea, che diversamente dai vasti territori di luoghi come Stati Uniti, Russia ed Australia riteneva già da tempo di essersi lasciata alle spalle ogni possibile scoperta di nuove risorse minerarie pronte allo sfruttamento. Con nessuna storia attuale di popolazioni native sfrattate dalle proprie residenze ancestrali, comunità aborigene o tribù private dei propri luoghi di sepoltura all’interno dei santuari che gli appartenevano fin dai tempi remoti. Non che l’assenza di connotazioni totemiche renda l’ambiente di simili luoghi in alcun modo sostituibile o sacrificabile alle ragioni del mero profitto.
Benché per citare una dichiarazione dell’agosto del 2024 di Franziska Brantner, Segretario Parlamentare di Stato della Germania, la domanda più pressante al momento non è se il litio della Serbia verrà estratto e quando. Bensì, primariamente, chi tra i possibili attori ragionevolmente attrezzati riceverà l’ambìto mandato d’iniziare a farlo. Un passaggio che potrebbe ridistribuire in modo significativo l’ordine economico del sistema Europa. E non soltanto quello. Nella speranza che la situazione non precipiti, compromettendo il passo successivo sulla scalinata che conduce oltre i limiti della necessaria transizione, che ci aspetta entro il prossimo quarto del XXI secolo. Altrimenti non sarà di certo Superman, a salvarci.

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