Quando nel XVII secolo i primi missionari cristiani, di matrice francescana, giunsero presso le tre mesa pianeggianti situate all’ombra del monte Humphreys, in quella che costituisce l’attuale parte meridionale dell’Arizona, scoprirono all’interno delle case in pietra e fango dei nativi una certa quantità di strane raffigurazioni artistiche antropomorfe, che non tardarono a identificare come il Demonio. Naturalmente, qualsiasi entità religiosa di quei popoli sarebbe apparsa agli ecclesiastici come una manifestazione d’idolatria ed in quanto tale, pericolosa per le anime dei suoi fruitori. Una visione ulteriormente accentuata per l’evidente possesso, da parte di talune tra queste effigi, di vistose corna ricurve, oltre a pugnali, lance ed altri strumenti di uccisione ed annientamento. Il fatto stesso che la gente del luogo, abituata a definire se stessa come il popolo degli Hopi ovvero “uomini gentili” nella propria lingua, essendo particolarmente poco inclini ad impugnare le armi contro i propri vicini o gli stranieri provenienti dall’Europa, venne interpretato come prova ulteriore della capacità di dissimulazione del Maligno, capace di presentarsi a chi non era stato adeguatamente educato sotto spoglie falsamente amichevoli ed attraenti, approffittando di questa sua dote per riuscire a incrementare la nutrita moltitudine dei suoi adepti. Le prime chiese, dunque, non tardarono a sorgere dal territorio arido ai confini del deserto di Sonora, mentre le antiche danze in maschera, i complessi rituali e gli altri metodi impiegati da costoro per proteggersi dalle tribolazioni e l’inerente imprevedibilità della natura venivano severamente vietati. Così gli Hopi impararono il significato della bibbia, il sacrificio di Cristo e il giusto modo di pregare all’indirizzo di Nostro Signore. Ben sapendo e soffrendo per la maniera come tutto questo, a conti fatti, non facesse assolutamente nulla al fine di placare la possibile vendetta dei potenti Kachina.
La pioggia cade copiosa un anno, dopo il solstizio, permettendo un ampio raccolto di zucche, fagioli e semi di girasole. Al ciclo successivo delle stagioni, il delicato equilibrio delle circostanze permette la caduta di pochi centimetri appena, causando carestia e sofferenza per i membri della tribù. Cosa è accaduto di diverso? Come si può evitare che succeda di nuovo? E soprattutto, in quale modo è possibile insegnare alle nuove generazioni, affinché ciò non capiti nuovamente? Nella risposta a questa ultima domanda, in modo particolare, è possibile comprendere la più importante linea guida al centro del culto delle principali figure mitologiche degli Hopi, non entità distanti o incaricate di giudicare gli uomini al termine della loro esistenza materiale, ma un’effettiva e tangibile forza all’interno dello schema dell’Universo, con il potere, e tutta l’intenzione, di deviare in modo pressoché continuo il corso spesso imprevedibile degli eventi. In tal senso le figurine scolpite tradizionalmente dalle radici dell’albero sacro del cottonwood o pioppo americano (Populus deltoides), nella guisa di divinità animistiche, personificazioni di animali o fenomeni e antenati della tribù, avevano lo scopo non tanto di essere direttamente venerate, quanto di essere donate direttamente ai nuovi nati, particolarmente quando si trattava di bambine, al fine di educarli sull’aspetto, le prerogative e le preferenze dei diversi numi tutelari, oltre a quello che ci si sarebbe aspettato da loro una volta raggiunta l’età adulta. In tal senso già nella loro accezione più antica, generalmente intagliata da un singolo pezzo di legno intagliato senza l’uso di strumenti metallici e dipinto in modo piuttosto rudimentale, i kachina venivano creati in quattro serie successive, di complessità raffinatezza crescente, rispettivamente concepite per accompagnare i neonati (Putsqatihu) i bambini piccoli (Putstihu taywa’yla) quelli un po’ più cresciuti (Muringputihu) e la generazione dei ragazzi ormai prossimi al rito d’iniziazione consistente in una serie di frustate ritualizzate, soltanto a seguito delle quali sarebbero stati degni di conoscere la più dura e pregna verità del mondo. Ovvero il fatto che i kachina non venissero più a visitare direttamente i villaggi degli Hopi, per via di una catastrofe dimenticata o le molte offese subìte, ragion per cui anche loro come i propri genitori avrebbero dovuto indossare le maschere e i costumi per interpretarne le sembianze nel corso delle festività a cadenza annuale, ancora condotte in segreto quando i frati e gli altri missionari non riuscivano a mantenere lo stretto stato di controllo sulle scelte religiose ed il comportamento dei nativi. Poiché c’era necessariamente un limite ai risultati che fosse possibile ottenere, pregando unicamente all’indirizzo di un Dio straniero…
Narrano le cronache dei duri anni che sarebbero seguiti al primo contatto, di oltre un secolo trascorso sotto il giogo del colonialismo spagnolo. Mentre le limitate risorse alimentari degli Hopi venivano duramente tassate, lasciando i villaggi a fare la fame, con i trasgressori puniti con una severità particolarmente lontana dall’ideale teorico della dottrina cristiana. Emblematico l’episodio del 1655 di un prete francescano di nome Salvador de Guerra, che avendo malmenato a morte un membro della tribù ottenne unicamente di essere redarguito e trasferito senza ulteriori punizioni a Città del Messico, dove avrebbe continuato a professare la propria fede. Una simile catena degli eventi avrebbe progressivamente ed inevitabilmente condotto gli Hopi fino a un punto di rottura, con la distruzione del pueblo (paese) di Awatovi dove si trovavano la maggior parte dei loro connazionali convertiti, che finì nel sangue e con la demolizione di tutte le chiese e gli altri edifici di matrice europea. Ci sarebbero volute almeno due decadi, a seguire di un tale evento destinato ad influenzare il comportamento dei connazionali, affinché i missionari riuscissero a ricostituire la propria presenza in luoghi tanto remoti, mentre le autorità spagnole, trovati popoli più facoltosi, avrebbero finito per spostare le proprie mire espansionistiche altrove. Successivamente alla fondazione degli Stati Uniti, nel 1776, agli Hopi venne quindi riconosciuto lo status di nazione ed il diritto ad essere protetti dal confinante gruppo etnico dei Navajo, una mansione per la quale venne stabilito un contingente stabile di truppe ed a distanza di qualche decennio, costruito un vero e proprio forte di nome Defiance. Ciononostante, la minaccia alle antiche tradizioni della tribù non avrebbe mai cessato del tutto, con il reiterato quanto enfatico tentativo di conversione portato avanti, questa volta, dai Mormoni e le altre comunità cristiane originarie del Nuovo Mondo.
Ed è forse per questo, più di ogni altra ragione, che le più antiche figure Kachina giunte fino a noi sono originarie della prima parte del XX secolo, grazie al ritrovamento delle culture native ed un tardivo riconoscimento del loro valore, particolarmente a seguito dell’Atto di Riorganizzazione Indiana (IRA) della presidenza Roosevelt risalente al 1934, che riconosceva loro il diritto ad autoamministrarsi all’interno delle terre che erano state dei loro predecessori. Così che al termine dell’epoca classica, antropologicamente fatta proseguire fino 1910, una progressiva apertura nei commerci con l’uomo bianco avrebbe portato alla diversificazione ed ampliamento dei modelli di figurine kachina realizzate dagli artigiani locali, che iniziarono a mostrare un più elevato grado di complessità e pregio visuale. Fondamentale, in tutto questo, fu l’accesso a strumenti d’intaglio più sofisticati e soprattutto la carta vetrata, potendo finalmente eliminare le imperfezioni delle radici dell’albero sacro senza nasconderle mediante l’uso dell’argilla di caolino. Soltanto nella tarda epoca tradizionale (1910-1930) le braccia delle sculture iniziarono ad essere separate dal corpo, le gambe assunsero un aspetto tornito ed al di sotto di esse iniziarono ad essere integrate delle basi, affinché potessero attirare l’attenzione dei visitatori che volevano acquistarle come souvenir o soprammobili per le proprie case, piuttosto che appenderle al muro nella maniera tradizionale. A seguito del 1930 e fino ai giorni nostri, infine, l’arte dei Kachina si ritiene aver raggiunto il suo livello di maggior finezza, anche detta fase “d’azione” per la gestualità complessa, le pose suggestive e dinamiche dei suoi soggetti principali, rimasti comunque legati al pantheon delle divinità previste dalla dottrina religiosa degli Hopi. In tal senso, nel vasto catalogo dei soggetti previsti in questa forma d’arte, troviamo una serie di fondamentali categorie, a partire dai Kachina del capo-villaggio, un tempo ornati con piume di uccelli rari (oggi proibite) sotto cui trovavano posto nella gerarchia le guardie, dalle folte barbe e feroci regalìe guerriere. Altrettanto importanti, quindi, risultavano essere i corridori ed i cosiddetti clown (o intrattenitori) corrispondenti ai ruoli eponimi all’interno delle celebrazioni annuali e relative danze, rispettivamente incaricati di massimizzare il contenuto adrenalinico ed offrire un commento ironico sulla prosaicità della condizione umana. Ecco perché i secondi, in modo particolare, vengono spesso raffigurati nell’atto di nutrirsi avidamente o fare gesti inappropriati, con improbabili tenute a strisce bianche e nere che includono pannocchie sulla sommità del capo, a mo’ di corna dall’aspetto decisamente luciferino. Seguono la carrellata di orchi, dei kachina sempre di colore nero, i denti sporgenti, le orecchie rosse, i capelli spettinati, idealmente incaricati di punire gli uomini (o i bambini) che non rispetto le buone norme comportamentali della tribù. Ed infine un’ampia serie di divinità senza una categoria precisa, come uomini-bufalo, uomini-gufo o la famosa e assai temuta Donna che Porta l’Inverno, il cui nome in lingua nativa è Yohozro Wuhti.
Essendo una cultura di lingua Uto-Azteca e capace di prendere in presto, almeno in parte, le credenze mitologiche di quel grande popolo ed impero, gli Hopi credevano inoltre nella ricorrenza di una serie di cicli del mondo, sanciti e imposti in base ad interventi diretti da parte di alcuni membri della collettività ultraterrena dei Kachina. A partire dall’opera del sommo creatore Tawa, che plasmò il vuoto del cosmo per creare il quinto mondo, scegliendo come intercessore presso gli umani la donna ragno il cui nome è Kokyangwuti. Accompagnata, nel consorzio dei più potenti esseri dell’Universo, da Masauwu, l’uomo-scheletro e protettore del fuoco, capace di mostrare il sentiero per evolversi a coloro che si sono dimostrati in grado di venerarlo. Così come al termine del terzo ciclo, dopo una catastrofica devastazione della Terra, l’umanità poté fuoriuscire nuovamente dal pertugio in cui si era rintanata, che oggi viene ritenuto essere il Grand Canyon, per iniziare il periodo che stiamo ancora vivendo. Destinato comunque, almeno secondo l’interpretazione del 1960 dell’antropologo e scrittore Frank Waters, a finire molto presto per la venuta imminente del Kachina della Stella Blu, Saquasohuh, incaricato di punire gli uomini rendendo palese la loro evidente mancanza di probità. Una profezia che Waters scelse d’interpretare come allusiva all’allora sempre più probabile evento di una possibile, devastante terza guerra mondiale.
Se non che un’ala protettrice, a quanto ci è dato di comprendere, dev’essersi innalzata all’improvviso per proteggerci dal bagliore della paventata ultima alba nucleare. Cambiando in qualche modo il destino di noi tutti, e chi può dire quali possano esserne state le effettive ragioni… Forse occorrerebbe chiederlo alle brezze mattutine, che soffiano ogni giorno sulle gelide cime dell’alto picco sopra la comunità degli Hopi?