Quando si pensa all’ora di un fenomeno estintivo sorgono alla mente due fondamentali tipologie di scenari: il primo è un’Apocalisse dalle origini esterne, ovvero l’impatto di un meteorite, oppure l’emissione di raggi gamma da parte di una distante Supernova, o ancora l’anomalia gravitazionale dovuta a un’improvviso passo falso nella danza dei corpi del Sistema Solare. Alternativamente, tra le nostre paure più frequentemente discusse, sussiste la casualità di un fattore di devastazione indotto da una situazione sussistente del nostro stesso pianeta, spesso di origine antropogenica, ma non necessariamente tale: una guerra mondiale, un disastro atomico, l’eruzione di un mega-vulcano. Tutte cause allo stesso modo irrisolvibili, a differenza del graduale, inesorabile riscaldamento terrestre. Un degrado che potrà durare secoli, o millenni, mentre la biodiversità dei continenti continuerà a soffrire, le risorse alimentari diminuiranno e la popolazione umana vedrà compromessa sempre più la qualità della propria esistenza. Ma che cosa succederebbe se tale fenomeno, piuttosto che richiedere generazioni, potesse accelerare al punto di giungere alle sue più gravi conseguenze nel corso di una singola vita umana? A quanti metodi o contromisure potremmo, in ultima battuta, fare ricorso nel tentativo di arginare il disastro? Questa è la tremenda contingenza, teorizzata per la prima volta nel 2003 dal paleoceanografo statunitense James P. Kennett, definita come l’ipotesi della pistola (o cannone) di clatrati, al fine di sottolineare non soltanto la sua assoluta letalità, ma il modo in cui potrebbe accadere, in termini geologici, letteralmente da un momento all’altro e senza nessun tipo di preavviso. Come, secondo lui e colleghi, potrebbe essere successo esattamente 251,9 milioni di anni fa per la grande estinzione del Permiano-Triassico, il più grave evento di questo tipo nella storia di questa Terra, che portò alla scomparsa di oltre il 57% delle famiglie biologiche esistenti. O ancora, su scala inferiore, durante il massimo del Paleocene-Eocene, quando la media di temperature su scala globale aumentò di circa 8 gradi, causando entro 1.000 anni la dipartita del 35-50% delle creature delle acque profonde, mentre si verificava una sostanziale riduzione nelle dimensioni dei mammiferi sulla terraferma. E tutto questo a causa della compromissione incontrovertibile di un delicato equilibrio tra temperatura e pressione, necessario al mantenimento dello status quo implicitamente favorevole alla nostra e altrui sopravvivenza. Il che ci porta, per l’appunto, alla descrizione di cosa sia esattamente un clatrato (o idrato gassoso) e la maniera in cui la sua eventuale cessazione dell’esistenza possa costituire un essenziale punto di non ritorno, causando l’effetto a cascata che conduce inesorabilmente alla perdizione. Suscitando il dubbio, effettivo ed innegabile, che sia davvero possibile fare qualcosa per evitarlo…

Immaginate a questo punto una sottile gabbia trasparente, composta da 136 molecole d’acqua in configurazione tale da formare 16 vuoti dodecaedrici, all’interno dei quali possono essere contenute fino a 24 molecole di gas. Che potranno essere, nella maggior parte dei casi, composte da metano, anidride carbonica, isobutano, etano o propano. Derivando nel primo dei casi citati nonché il più frequente, dall’accumulo pregresso delle trascorse generazioni vegetali ed animali, indotte a decomporsi sotto gli strati superiori del sottosuolo e in questo caso particolare sotto l’effettiva membrana dei fondali oceanici e marini. Dove tale sostanza, importante elemento attivo dei cosiddetti gas naturali frequentemente utilizzati come fonte d’energia nel mondo moderno, si è ritrovata per molti millenni così cristallizzata da un accoppiamento di fattori, inclusivo di temperatura sufficientemente bassa e le alte pressioni sussistenti ad una sufficiente profondità dal mondo superficie. Il che porta ad una stima sostanziale, come punto necessario allo scioglimento di una quantità rilevante di questo “ghiaccio” spugnoso, alla cifra di 18 gradi Celsius, abbastanza alti da tenerci ragionevolmente al sicuro… In condizioni per così dire normali. Ma il problema fondamentale, così poco discusso persino nell’attuale presa di coscienza dell’esistenza del problema climatico e tutto ciò che questo comporta, è la maniera in cui lo scioglimento dei clatrati potrebbe dare luogo ad una sorta di feedback positivo con le conseguenze distruttive sopra accennate. Questo perché il gas metano, pur potendo rimanere libero nell’atmosfera per un massimo di 12 anni, prima di disperdersi al di fuori del campo gravitazionale terrestre, potrebbe in tale arco di tempo agire come causa di un effetto serra 72 volte più forte di quello causato dalla comune anidride carbonica. Portando così all’aumento della temperatura media degli oceani e conseguente scioglimento di ulteriori clatrati, così aumentando ancora la temperatura complessiva della Terra. Una scivolosa situazione potenzialmente attribuita nell’originale studio di Kennett, durante gli scenari preistorici da lui descritti, al verificarsi di un periodo d’intensa attività vulcanica sottomarina, tale da aumentare su scala sufficiente la temperatura dei depositi cristallizzati di metano. Ma che potrebbe almeno in teoria, nell’idea maggiormente pessimistica, trovare un’odierna concausa nel riscaldamento dovuto all’attività industriale e tecnologica della società moderna. Una questione, affermano i catastrofisti, i cui primi segnali sono già visibili nell’acclarata e reiterata liberazione d’ingenti quantità di questo gas verso l’area della Siberia Orientale, nelle Svalbard e presso il mare canadese di Beaufort, dovuta allo scongelamento del permafrost per l’attuale aumento delle temperature terrestri. Il che tuttavia non rappresenta neppure un limitato anticipo dell’estensione che potrebbe avere tale fenomeno al futuro coinvolgimento delle distese sommerse che si trovano 290 metri sotto il livello del fondale artico. La cui effettiva liberazione, almeno in linea teorica, potrebbe costituire il “grilletto” della temibile ed irrimediabile chlatrate gun.

Ciò che è importante sottolineare nella trattazione, d’altra parte, è la maniera in cui questa ideale spada di Damocle sopra la testa di ogni singola forma di vita planetaria sia un’eventualità potenzialmente ancora molto distante. Mentre ogni traccia di metano individuata nel corso degli ultimi vent’anni, come potenziale segno della sua imminenza, sia stata ripetutamente attribuita alla presenza di depositi superficiali di questo gas, che anzi potrebbero costituire un’importante fonte di energia futura per la continuazione del nostro comodo, ed altrettanto pericoloso stile di vita. È altresì possibile che l’erosione progressiva della crosta terrestre, o la diminuzione della pressione dovuta all’abbassamento degli oceani in epoca pregressa, abbia portato alla formazione di spaccature fino ai depositi sommersi di clatrati, lasciandone filtrare una quantità insufficiente all’instaurazione del loop fatale ma comunque rilevante. Il che potrebbe contribuire, a quanto ci è dato immaginare, all’allontanamento progressivo del teorizzato momento finale. Mentre l’effettiva induzione della catastrofe ad opera della mano dell’uomo appare, in base alla logica, piuttosto remota per via della poca reattività di masse tanto remote al modificarsi delle condizioni di superfice. Di un effetto serra che dovrebbe, in altri termini, continuare ad aumentare per migliaia di anni, prima di poter costituire il fattore scatenante della cascata. Ma come in tutti gli altri casi simili, chi può dirlo con assoluta certezza? L’uomo non può sperimentare direttamente il cannone di clatrati e raccontarlo, poiché dove il cannone esiste, cessa di esistere l’uomo. E dove esiste l’uomo non può esserci il cannone.
Quello che possiamo fare è continuare a dormire sonni tranquilli. Poiché l’incoscienza costituisce, sotto ogni possibile fattore rilevante, l’unico strumento funzionale a condividere i restanti anni che ci restano con i pesci, gli uccelli e tutti gli altri malcapitati passeggeri di questo vascello.