Un raro esempio di eroe nazionale proveniente dall’ambito delle persone comuni, piuttosto che implicito depositario di una schiatta particolarmente rinomata, Rodridgo Díaz de Vivar detto “El Cid” avrebbe finito per incarnare al termine dell’Alto Medioevo la figura del guerriero ideale, capace di attenersi a un codice comportamentale dignitoso e nonostante ciò farsi temere in molteplici campi di battaglia, grazie alle sue rinomate abilità tattiche e guerriere. Un tipo di carriera che semplicemente, all’epoca, non poteva esulare dal possesso di attributi iconografici particolari, tra cui l’essenziale arma definita a più riprese come “spirito della nobiltà” o “simbolo della cavalleria” per il suo potere simbolico capace di accomunarla alla figura stessa di un essere umano, ma anche la croce stessa di nostro Signore, campione dei deboli nel momento di maggior bisogno sul sentiero di un destino ingrato. Come quello vissuto, nella percezione di molti, nei territori dell’odierna Spagna durante il periodo della Reconquista, un lungo conflitto vissuto a cavallo dell’anno mille, causato dalla necessità politica dei sovrani europei di sconfiggere e ricacciare verso meridione gli emirati di religione islamica che avevano preso controllo di vasti territori nell’area della penisola iberica, molto spesso senza particolari riguardi per la volontà delle popolazioni native. Lasciando ampi spazi nelle cronache coéve, alla figura di un salvatore letteralmente degno di essere chiamato “Il Maestro” (della battaglia) o quella singola sillaba dal suono aperto, probabilmente di attribuzione araba, probabilmente traducibile come il Signore, una qualifica presumibilmente guadagnata in forza di evidenti e sanguinose prove date sul campo di battaglia, ogni qual volta se ne presentò l’evidente ed imprescindibile necessità. E molto spesso impugnando, se vogliamo fare riferimento al poema epico castigliano El Cantar de mio Cid (1140 ca.) una spada il cui nome Tizòna significa, non a caso, “torcia” o “bastone infuocato” proprio perché capace, nella leggenda, di accendersi di luce propria ed abbagliare i nemici, a patto che a impugnarla fosse un personaggio di comprovata e rigorosa probità d’intenti. Lama che in effetti, se tentiamo di risalire ai dati formalmente in nostro possesso, non dovrebbe identificarsi con quella di proprietà del padre al centro della narrazione nella recente serie televisiva prodotta da Amazon (tutt’ora incompleta) con l’attore de La Casa di Carta, Jaime Lorente, in quanto secondo la nostra principale fonte letteraria vinta dal futuro campione di Castiglia proprio durante uno dei suoi numerosi duelli, in cui gli era riuscito di superare in maestria l’emiro di Valencia, Yusuf ibn Tashfin. Questo perché il Rodrigo storico (1043-1099) salvo approcci revisionisti e romantici della sua figura almeno parzialmente giustificati dal contesto nazionalista delle epoche successive, svolse probabilmente una mansione simile a quella dei capitani di ventura della penisola italiana, cambiando più volte bandiera in funzione delle tribolazioni politiche di un’epoca particolarmente turbolenta, fino all’esilio subìto dopo essere stato accusato dai suoi nemici di aver sottratto denaro al Re Alfonso VI di Leòn, successivamente alla morte di suo fratello Sancho II di Castiglia, signore feudale del Cid. Un episodio che l’avrebbe portato a partire dal 1081, a combattere brevemente dalla parte dei Mori, per conto degli emiri della città di Saragozza. Ma non prima di aver compiuto uno dei gesti che più di ogni altro avrebbe, in seguito, influenzato il persistente alone di mistero circostante la sua reliquia più rinomata…
Narra a tal proposito la Canzone del Cid, di come l’eroe titolare avesse dato in matrimonio le sue due figlie agli infantes (eredi) del feudo di Carriòn, nipoti del re Alfonso con un significativo guadagno di prestigio e status sociale per la sua famiglia. Se non che a seguire, i due giovani si sarebbero rivelati dei guerrieri codardi e traditori, ripudiando le giovani donne dopo aver sostenuto le gravi accuse nei confronti del padre, un’onta cui egli rispose sfidandoli a duello e riprendendosi, secondo un’applicazione dell’indiscutibile diritto divino, le generosi doti di cui li aveva omaggiati al momento del fidanzamento. Un tesoro di cui faceva anche parte, secondo la tradizione, proprio la spada Tizona, che andò per questo in dono al suo cavaliere e luogotenente Pero Vermúdez, destinato ad usarla con profitto in svariati duelli, anch’essi commemorati nel poema. Ed è proprio a seguire di ciò che le cronache ufficiali perdono traccia del manufatto, almeno fino alla comparsa di una spada dal nome identico nell’armeria del re Giovanni I d’Aragona (1213-1276) casistica oggi considerata una mera coincidenza per la mancanza di una tracciabilità evidente. Mentre di contro, appare più probabile la storia secondo cui le spoglie mortali del condottiero inclusive di armi ed armatura, successivamente alla sua morte, sarebbero state conservate e custodite nella chiesa di San Pedro di Cardeña a Burgos, per poi passare sotto la tutela della signoria locale dei Falces, con il beneplacito del re cattolico Ferdinando II di Aragona (1452 – 1516). Un onore motivato soprattutto dal ruolo primario rivestito da Pedro de Peralta y Ezpeleta, secondo Marchese della famiglia, nelle negoziazioni finalizzate a realizzare il matrimonio dinastico con Isabella di Castiglia. Eventualità effettivamente comprovata dalla presenza, almeno dal XVII secolo, di una spada con elsa cerimoniale particolarmente ornata e in una foggia databile al XVI secolo nell’armeria del palazzo di Marcilla, creata a partire da una lama considerevolmente più antica. Questo pregevole implemento bellico tra l’altro, in maniera tutt’altro che incidentale, presenta in corrispondenza della propria scanalatura una dicitura difficilmente equivocabile: YO SOY LA TIZONA ~ FUE : FECHA ~~ ENLAERA : DE : MILE : QVARENTA (Sono Tizona, fabbricata nell’anno 1040) evidentemente valida a corroborare l’idea che si tratti effettivamente della spada storica del Cid. Altrettanto interessante, nel frattempo, risulta essere la composizione dell’elsa, realizzata con un’atipica configurazione ad Y utile ad intrappolare l’arma del nemico, possibilmente riconducibile a quella delle spade sincretistiche di tipo jineta, costruite in base a una configurazione tipica della cultura araba e del Levante. Mentre la presenza di veri e propri elementi ad anello chiamati colhona (lit. big balls) nella parte esterna delle due “ali” ricorda addirittura una foggia ancor più recente, delle spade portoghesi di marina chiamate preta de bordo, spesso dipinte di nero al fine di non essere avvistate in anticipo dai marinai nemici al momento degli abbordaggi notturni. Una strana contraddizione in termini per l’arma che più di ogni altra viene riportata come lucente o persino abbagliante, nella maniera riportata nella Cantar de mio Cid durante il duello di Pero Vermúdez contro uno degli infantes di Carron, Ferrán González, che al riconoscimento della spada si arrese immediatamente implorando pietà a Dio.
Epica contingenza destinata a ripetersi tra l’altro con l’altra spada più famosa del Cid, la Colada da sempre custodita presso l’armeria del palazzo reale di Madrid, che impugnata dal cavaliere Martín Antolínez sconfisse l’infante Diego González arrivando vicino a decapitarlo con un singolo colpo, prima che il suo possessore gli accordasse nuovamente pietà. Mostrando un pregio difficile da sopravvalutare per molte spade leggendarie, quello di essere rinfoderata nel momento della verità.
Ben diversa, di contro, la storia successiva della più stimata e preziosa Tizona, considerata una delle lame capaci di generare il maggior numero di falsi e repliche attraverso le generazioni. Appesa nelle sale principali di letterali dozzine di castelli, benché nessuna dotata dell’oggettiva tracciabilità posseduta dall’esemplare di Burgos, destinato ad entrare a far parte dell’eredità della famiglia Falces che continuò a mantenerne il possesso fino all’epoca moderna. E questo nonostante l’assalto della fazione Repubblicana al castello di Marcilla durante la guerra civile e conseguente furto dell’arma negli anni ’30 del Novecento, che fu successivamente recuperata e riconsegnata dai Nazionalisti assieme alla nota “Camerati, abbiate cura di questa spada. Si tratta della spada del Cid.”
Precetto chiaramente destinato ad essere rispettato almeno fino al 2003, quando l’attuale marchese di Falces, José Ramón Suárez del Otero y Velluti, decise di venderla allo stato, per una cifra destinata ad essere calibrata sulla somma niente affatto trascurabile di un milione e mezzo di euro. Ben presto e con evidente entusiasmo pagata dal Ministero della Cultura, nonostante i dubbi sollevati da diversi studiosi dell’argomento. Tra cui spicca in modo particolare lo storico Jose Godoy, che l’aveva definita un falso d’epoca, comunque prezioso, ma valutabile ad un massimo di 300.000 euro. Troppo tardi, comunque! Visto come tra le critiche di molti la sacra lama fosse stata ormai esposta presso il museo di Burgos, assieme ad altre preziose reliquie attribuite alla figura immortale del Cid. E dopo tutto, aveva davvero importanza? Laddove il significato di un simbolo risulta essere inerentemente, ed imprescindibilmente soggettivo. Anche quando il referente in questione è la collettività di un intero popolo, inerentemente devoto al corpus implicito del proprio leggendario pregresso.