All’origine della vicenda umana sulla Terra, le persone iniziarono a convergere l’una in prossimità dell’altra. Per proteggersi dai predatori, le intemperie e gli altri pericoli della natura, cominciarono perciò a cooperare. Ma come possiamo facilmente comprendere, non può esserci lavoro di concerto senza un qualche tipo di comunicazione. Taluni gruppi etnici, e l’intera specie soltanto vagamente imparentata alla nostra degli uomini di Neanderthal, utilizzarono perciò i gesti. Mentre altri, ben presto imitati dalla maggioranza, iniziarono da subito a impiegare lo spropositato potenziale dell’apparato fonatorio umano. O forse sarebbe più preciso definirlo, in questa fase, l’unione meramente pratica di naso, gola e bocca, capaci come nella maggior parte delle specie animali di articolare e manipolare il passaggio udibile dell’aria al loro interno. Guidata tuttavia, per la prima e significativa volta, dall’acuta intelligenza che conduce ad una pletora di applicazioni parallele, ciascuna improntata alla specifiche necessità di una particolare società, diversa in vari modi da ciascuna delle altre. Forse il più importante fondamento della scienza linguistica contemporanea, tuttavia, è che le caratteristiche fondamentali delle sopracitate strutture anatomiche, finalizzate nel contempo ad assolvere il non meno importante compito di mantenere in vita i loro proprietari, restano sostanzialmente invariate nell’intero ventaglio conseguente dall’originale diaspora geografica compiuta dai primi cacciatori-raccoglitori in Africa ed i loro discendenti, gli agricoltori. Ed è sulla base di questo che il particolare impiego dei fonemi utilizzati in un antico gruppo di lingue, situate nella parte meridionale di quel continente, viene giudicato “inusuale” nella maniera in cui devia da talune regole tanto diffuse da poter risalire, idealmente, all’ignoto idioma della prototipica Eva mitocondriale. La prima donna (o fino a 20.000 donne vissute allo stesso tempo) da cui discenderebbero le intere moltitudini dell’odierno consorzio parlante. E se invece, d’altra parte, fosse vero l’esatto contrario? Che quanto messo in pratica nel qui presente affascinante video di Sakhile, guida culturale del suo popolo, gli Zulu, fosse la strada maestra della comunicazione, soltanto per un mero caso del destino, abbandonato dalle moltitudini migranti delle famiglie umane?
Lo studio sistematico dei linguaggi, nato sul piano semiotico alla fine del XIX secolo, iniziò quindi dal sopracitato punto di partenza a descrivere una serie d’insiemi interconnessi, affini alle diverse famiglie tassonomiche impiegate nello studio della biologia. Individuando nella parte meridionale del più antico dei continenti ad essere popolato due realtà sostanzialmente distinte: le lingue cosiddette Khoisan, che accomunavano per l’appunto i Khoi (o Khoikhoi, letteralmente: veri uomini) ed i San (più comunemente detti boscimani) nella parte occidentale della “punta” africana, contrapposti a un altro gruppo di quattro idiomi noti come Nguni o con il termine imposto dall’alto di Bantù, giunti fino a questi luoghi nel corso delle ripetute diaspore e conflitti subiti dai gruppi etnici della regione dei Grandi Laghi (Victoria e Tanganyika) a seguito delle conquiste e saccheggi culminati nel grande conflitto etnico dello Mfecane, che si era esteso per trent’anni a partire dal 1810. Quando il grande capo tribale Shaka kaSenzangakhona, facendo onore alla primordiale tradizione bellica del suo popolo, elaborò strategie e tattiche non solo in grado di garantirgli la conquista dei suoi vicini, ma anche di resistere, per un tempo breve quanto significativo, alla potenza coloniale dell’Impero Inglese. Difficile non notare, d’altra parte, almeno un quantum dell’originale eloquenza appartenuta un tempo a un personaggio di quel calibro, nello stile laconico ed il naturale carisma tranquillo del nostro Virgilio nell’inconoscibile profondità dei linguaggi…
Il punto e il nesso di cui abbiamo fin qui parlato, come avrete già capito dal video e l’intestazione, è costituito dunque da un particolare modo di articolare i suoni, chiamato in ambito fonetico come consonante click o più semplicemente, click. Affine all’universale espressione di diniego o disapprovazione rappresentata convenzionalmente con la dicitura scritta “tsk-tsk”, ma per sua implicita natura declinata in molte delle plurime versioni pronunciabili mediante gli strumenti di cui l’H. sapiens è dotato. Ivi inclusa quella dentale (suoni c e t) alveolare (la q spesso usata nei nomi degli Nguni) e palatale (ci, gli). Ma NON la retro-fricativa !Kung, in effetti tipica soltanto di taluni idiomi dell’Africa centrale e le coste della Namibia. Ciò che conta, ad ogni modo, è la maniera in cui ciascuno di questi suoni viene prodotto non soltanto tramite la mera articolazione dei muscoli facciali, le corde (o plichi) vocali e la posizione della lingua, ma anche e soprattutto l’effettivo schiocco di quest’ultima, posizionata in modo tale da creare un vuoto d’aria nel proprio spazio di movimento. Dal che risulta l’eccezionale effetto, ottimamente dimostrato dal nostro amico Sakhile, di una eloquio punteggiato da ritmici schiocchi ripetuti, come fossero il meccanismo di una sorta di orologio interno. È un po’ come il canto Tuvano delle popolazioni mongole, in cui due toni vengono prodotti allo stesso tempo, soltanto che in assenza di un vero e proprio intento artistico o creativo, tali suoni si fanno portatori di un effettivo carico di significato inerente. Affermazione tanto valida nella lingua degli Zulu, così come quella dei loro immediati vicini, perfettamente in grado di comprendersi a vicenda: gli Xhosa, gli Ndebele e gli Swati. Ma perché, esattamente, questa metodologia fonetica dovrebbe aver preso piede soltanto in una limitata quantità di popoli, venendo ignorata da tutti gli altri? Uno studioso in particolare, Alec Knight dell’Università di Stanford, è giunto a proporre l’idea che il click abbia l’obiettivo d’imitare e in qualche modo riprendere i suoni della natura, favorendo lo stile di vita dei cacciatori primitivi originari dell’Africa e l’Australia. Il che potrebbe o meno trovare corrispondenza pratica nella realtà dei fatti: dopo tutto, non c’è alcun popolo che abbia mancato di sviluppare la tecnica del sussurro per non essere sentita dalle prede animali, un sistema molto più versatile ed efficiente. E non si può sussurrare uno schiocco.
Nel contempo di assoluto interesse per gli studiosi è sempre risultata la maniera in cui, mentre per i Khoisan le consonanti click furono sempre parte di un antico retaggio, potenzialmente risalente fino ai remoti albori mitocondriali, nel caso degli Nguni queste siano attestate unicamente in epoca moderna e contemporanea, per una sorta di sincretismo acquisito durante la convivenza a seguito delle loro migrazioni meridionali. Questo, nell’opinione della maggioranza, a seguito dell’unione in matrimonio dei guerrieri bantù con le donne dei territori conquistati, che impararono la tecnica e la insegnarono alle generazioni successive di nuovi nati. Con l’ulteriore valore aggiunto, ed imprevisto, di contromisura nei confronti dei tabù linguistici operanti a più livelli della loro società, che proibivano ad esempio alle nuore di pronunciare parole che suonassero simili al nome dei loro suoceri. A meno di modificarle, in modo creativo eppur nondimeno comprensibile, mediante l’applicazione di uno schiocco in corrispondenza della sillaba proibita! Davvero la scienza linguistica non può prescindere dall’apporto analitico delle discipline che studiano i legami collettivi costruiti dalla mente umana, convergenti sotto il termine inclusivo di sociologia.
Molto difficili da pronunciare senza essersi abituati fin dalla giovane età, soprattutto se volessimo creare un discorso di senso compiuto in queste lingue, le consonanti con lo schiocco compaiono soltanto raramente nella cultura di massa. Ad esempio nella Canzone dei Click di Miriam Makeba, alias Mama Africa, artista sudafricana rimasta celebre per l’accesa critica manifestata nei confronti del regime dell’Apartheid a partire dalla sua testimonianza presso le Nazioni Unite del 1963, che la portò ad essere bandita dal suo paese per un periodo di oltre trent’anni. Autrice nel saliente caso di un adattamento del canto tradizionale del suo popolo intitolato Qongqothwane, sul tema del coleottero del legno (Xestobium rufovillosum) che bussa in modo apotropaico dall’interno dei tronchi, per chiamare la sua compagna. Mentre per quanto concerne gli Zulu, sarebbe difficile non citare come opera d’ingegno contemporanea il film del 2004, Yesterday di Darrell Roodt completamente recitato in quella lingua, relativo al dramma di una famiglia sudafricana che deve affrontare le conseguenze dell’AIDS senza i privilegi per nascita derivanti dall’appartenenza all’etnia caucasica, o le risorse finanziarie di classi sociali agiate.
In un contesto scevro di spunti d’analisi, dunque, in cui anche un semplice video di YouTube, o collezione di questi, può costituire un sentiero d’accesso alla maggiore comprensione di uno dei processi più antichi della nostra specie: la comunicazione orale. Da cui deriva ogni altra forma di confronto d’opinione, diretto o indiretto, digitale o virtuale, ovvero il fondamento stesso della società contemporanea. E tutto quello che riusciremo a produrre un giorno, dalla sua continua e inarrestabile evoluzione.