Il conico cappello che rende manifesto lo spirito di un popolo e una nazione

Nella zona centrale della capitale del regno di Lesotho, nazione senza sbocchi sul mare completamente circondata dal Sudafrica, campeggia uno strano quanto memorabile edificio. Con una struttura di metallo e mattoni, ma ricoperto di paglia compattata per massimizzarne l’aspetto tradizionale, esso presenta una pianta circolare dal diametro di circa 35 mq, ma la punta acuta di una vera piramide trasferita direttamente dal contesto egiziano. Tutti lo conoscono, a Maseru, con il soprannome di “cappello dei Basotho”. Questo perché tutto nella forma e foggia del piccolo palazzo, incluso il complicato ornamento metallico posto sulla sommità, è una diretta quanto riconoscibile imitazione dell’aspetto complessivo del mokorotlo, forse il singolo manufatto maggiormente riconoscibile di questa etnia. Così strettamente e retroattivamente associato alla figura del primo re Moshoeshoe I, che essendo vissuto nel XIX secolo portava piuttosto un’alta tuba di fattura europea. Sebbene i membri del suo popolo, grandi mandriani e possessori di cavalli, dovessero già possedere almeno in linea di principio parte dell’idea e la foggia destinata a diventare un importante simbolo nazionale. Al punto che a partire dal 1966, il cappello in questione campeggia orgogliosamente al centro della loro bandiera, talvolta accompagnato dallo scudo, la lancia e il mazzuolo knobkierrie, sebbene al giorno oggi gli si preferisca il solo campo bianco, blu e verde finalizzato a simboleggiare pioggia e prosperità imperiture. E a chi dovesse anche decidere di mettere piede transitando oltre quella porta, consiglio di non conservare alcun tipo di dubbio: l’imponente chiosco rappresenta un centro visitatori, negozio di souvenir ed attrazione turistica tutto accorpato in uno. Dove si possono acquistare (a prezzo non troppo economico) cappelli di tale tipologia nelle fogge e dimensioni più diverse, non tutte propriamente corrispondenti alla configurazione maggiormente associata all’abbigliamento tipico dei Basotho. Il che costituisce d’altra parte una questione largamente acclarata e che non infastidisce pressoché nessuno; poiché il mokorotlo, pur potendo accogliere lo spirito degli antenati (Badimo) specie quando viene appeso accanto al focolare domestico, rappresenta ancor più spesso uno strumento d’uso comune, utile per ripararsi dalla battente potenza termica del Sole, mentre ci si spinge lontano dalle proprie ombrose abitazioni verso la parte mediana del giorno. In tale guisa, inventata formalmente attorno agli anni ’20 del Novecento, il cappello (i)conico viene principalmente realizzato tramite l’intreccio dell’erba autoctona conosciuta come mosea o leholi, possibilmente una variante della specie botanica dactyloctenium australe. Fatta seccare e rigirata su se stessa, prima di essere legata con crine di cavallo (oggi, molto più spesso, si usa il filo di nylon) e gloriosamente impreziosita con la foggia dell’ornamento situato al vertice dell’intera faccenda. Affinché ogni singolo portatore, possa sentirsi un piccolo Re all’interno delle valli e i pascoli di uno dei territori più caratteristici e rappresentativi dell’intera Africa meridionale…

Nota: l’esempio notevole di cappello mostrato in apertura fa parte della collezione del Maas Powerhouse Museum di Sydney, in Australia. Molte varianti sono possibili, alcune delle quali risultano del tutto prive dell’ornamento apicale.

Il miglior video online per visitare virtualmente, soprattutto all’interno, il cappello gigante di Maseru è quello offerto dalla viaggiatrice giapponese Suzuki. Che alla fine, non potendo resistere, acquisterà anche lei il suo copricapo.

Il ruolo mantenuto per lunghi anni dalla confederazione tribale fortemente voluta da Moshoeshoe I, all’interno di una collettività primariamente costituita da gruppi sociali di etnia Bantù, non può in effetti essere in alcun modo sottovalutata. Questo per la collocazione strategica del suo quartier generale, collocato sull’elevata e impraticabile terra promessa di Thaba Bosiu, dove condusse nel corso di una fatidica e leggendaria notte il popolo a seguire di una sanguinosa guerra contro l’ambizioso re degli Zulu, Shaka, durata oltre un trentennio tra il 1810 e il 1830. Presso un’altopiano fertile in pietra d’arenaria nascosto tra le montagne, che le leggende dicevano potesse sollevarsi ogni qualvolta un pretendente al predominio facesse un tentativo di conquistarlo. E fu in questo sacro luogo dell’origine di una nazione, che il popolo del regno di Lesotho sconfisse a più riprese non soltanto i propri coabitanti del continente africano, ma anche le truppe finora imbattibili dei Boeri di Città del Capo, diretti discendenti dell’originale colonia inglese. Finché, primi tra i popoli indigeni, riuscirono nel 1852 a firmare un trattato di pace con lo Stato Libero dell’Orange, dietro un pagamento di 3.000 mucche e i territori al di là del fiume Caledon. Ma per la prima volta da oltre un secolo, le genti Basotho ritornavano finalmente libere di perseguire i propri obiettivi senza doversi proteggere costantemente le spalle. Ed in un periodo di fioritura delle arti, principalmente relative al tipo di musica e danze utilizzate nel corso dei complessi rituali religiosi, chiamate anch’esse mokorotlo, l’idea di un nuovo copricapo cominciò gradualmente a prendere forma.
Si dice in campo antropologico che i popoli autoctoni di terre come questa mantengano una sorta di rapporto privilegiato con la natura, potendone produrre alcune delle rappresentazioni maggiormente autentiche ed in qualche modo degne di essere celebrate. Il che può essere senz’altro attribuito alla riconoscibile antonomasia di questo cappello, la cui forma viene fatta risalire convenzionalmente a quella dell’insolita collina di Qiloane, sormontata da un pilastro affiorante di arenaria alto ben 30 metri. Un rilievo montuoso molto spesso definito la “consorte” o “controparte femminile” dello stesso altipiano di Thaba Bosiu. Ed è per questo che ogni volta in cui un basotho prende in mano o indossa il suo cappello da pastore, lo fa con una certa imprescindibile reverenza, come trovandosi al cospetto di una rappresentazione figurativa di uno dei luoghi sacri della sua imprescindibile identità culturale. Facendone molto più che un semplice oggetto, quanto un’importante eredità di usanze della sua famiglia. Ma il potere economico del turismo, ed i vantaggi che può riuscire ad apportare alla nazione tramite l’elaborazione (ragionevolmente) semplificata di un’idea, non dovrebbero di certo essere trascurati.

Certe formazioni rocciose dell’Africa sembrano sfidare in modo diretto la notevole portata dell’immaginazione umana. Poiché non è forse il dito di un gigante, quello che sembra protendersi dalla collina ricoperta d’erba? Che indica verso un qualcosa tra le nubi, tutt’ora largamente sconosciuto alle comuni moltitudini del mondo.

Sia che il cappello mokorotlo venga indossato durante le udienze dai capi villaggio intenti a declamare le proprie direttive nel corso delle udienze pubbliche (uno dei significati possibili della parola è “Colui che siede in giudizio”) sia che venga indossato durante la pastorizia, o ancora semplicemente venduto ai turisti, il simbolo più sacro e rappresentativo del regno di Lesotho tende a mantenere intatta la sua preminenza simbolica ed il più profondo dei significati. Poiché non è realmente possibile, persino nell’epoca delle immagini in quanto tali, slegare una pregressa cognizione dalla logica che seppe dargli forma. Conica e appuntita, come in genere succede nel più puro regno delle idee. Finché mani operose ed abili, un giro alla volta, non lo plasmano impiegando dei flessibili fili d’erba. Per l’associazione totalmente manifesta, spettante a colui che porta con fierezza un simbolo pregresso della storia. Qualunque siano la sua nazionalità, identità ed etnia di provenienza.

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