Sostenendo lo sguardo ipnotico dell’airone dal becco a cucchiaio

“Benvenuti al Copal Resort, fate come foste a casa vostra. Non c’è sovrapprezzo per le bevande all’interno delle vostre capanne e la cena sarà servita alle ore 19:30. Ma per quanto possa essere forte la tentazione, vi chiedo di ascoltarmi: non andate nella giungla di notte. Ci sono… Cose, là fuori.” Una risatina nervosa percorse il pubblico, sebbene nessuno sembrasse eccessivamente colpito. Simili cose venivano dette, il più delle volte, al fine d’incrementare il senso d’avventura. Il mero concetto di serata gradevole non arrivava neppure a descrivere le circostanze. Lasciati all’altro capo dell’oceano i molti problemi del lavoro e della sua famiglia, Ethan scrutò il verso il rossastro tramonto sopra i picchi dell’entroterra colombiano. Per tutta la sera aveva conversato amabilmente con gli altri ospiti di animali, natura e le molte meraviglie incontrate nel corso del loro itinerario non meno avventuroso. Ora, seduto sul soffice divano, sorseggiando whisky di segale, immaginava una mattina di esplorazione e birdwatching mentre tirava fuori la reflex dal suo borsone, prima dell’affollato inizio delle visite programmate. E fu allora che sentì quel suono per la prima volta. Come il clacson di una piccola automobile, suonato in maniera stranamente ritmica ed insistente. “Dev’essere qualcuno che vuol fare uno scherzo!” Pensò quietamente tra se e se, spostandosi lentamente verso la finestra. “An, an, an, an…” udì nuovamente, seguìto da “Ha, go, go, go, go…” Le stelle splendevano alte nel cielo, lontano da qualsivoglia fonte d’inquinamento luminoso urbano. Socchiusa la porta, quindi, vide qualcosa di totalmente fuori dal contesto: occhi brillanti che scrutavano nel profondo della sua anima, perfettamente immobili in mezzo ai cespugli, posti all’altezza approssimativa di un bambino di 5 o 6 anni. “Un…Saci?” Sussurrò tra se e se, pensando al folletto dispettoso del folklore sudamericano. Poi cedendo alla tentazione, prese la torcia elettrica e iniziò ad avviarsi in quella direzione, immaginando la leggendaria creatura che saltellava sussultando sull’unico piede posseduto. Lentamente iniziò a perdere la cognizione del tempo e dello spazio, mentre distanti sussurri costituivano soltanto l’eco distante del richiamo originariamente udito. Ora il terreno si faceva cedevole, mentre gli alberi diventavano sempre più contorti al punto di attorcigliarsi su loro stessi. Alte diramazioni si presentavano come il parapetto di un unico percorso programmato, o anche soltanto possibile nel sottobosco: “Radici di mangrovie… Avevo capito che eravamo vicino alla palude, ma non COSÌ vicini.” Ethan puntò il fascio di luce verso l’alto. Improvvisamente in mezzo ai rami, il discorso dell’oscura controparte riprese come se non fosse mai stato interrotto: “An, an, AN” fece la creatura, sottolineando l’ultima sillaba con il battito roboante di un qualche tipo di strumento a percussione. Oppure, possibile che si tratti di un…? Come in un capitolo di Alice nel Paese delle Meraviglie, una mezza dozzina d’ombrelli caddero allora dalla sommità degli alberi di Rhizophora, come all’esecuzione di uno specifico segnale. Le creature adesso erano tutto attorno a lui, con altrettante paia di occhi che riflettevano chiaramente il fascio proveniente dalla torcia. I loro volti un oceano di tenebre, soltanto gradualmente identificato con l’aspetto di un grosso becco nero. Il capo della congrega fece due passi avanti d’impeto, sulle zampe di color grigio azzurrino, mentre la più fantastica cresta si ergeva sulla testa all’altezza approssimativa della vita di un uomo adulto. Come un baratro cupo, la sua gola spalancata comparve al centro del campo visivo dell’osservatore, che udì con surreale chiarezza: “Non andate nella giungla di notte, non andate nella giungla di notte!”
Perché per restare in un campo d’analogia cartoonesco, stranamente adatto alla descrizione pratica di questi animali, la più simile creatura immaginifica all’aspetto dell’airone dal becco a cucchiaio, anche detto in modo onomatopeico l’arapapá, o più scientificamente Cochlearius cochlearius, è l’uccello Aracuan della cinematografia Disney degli anni ’40, un dispettoso clown concepito al fine di simboleggiare forse l’aspetto distintivo ed insolito di tanti volatili sudamericani. Ma non c’è molto da temere, per gli umani, in merito a questa versione tangibile. A meno di essere un piccolo pesce, o gamberetto…

Ripresa nel suo ambiente naturale e durante le ore notturne l’arapapá assume un aspetto sottilmente inquietante, soprattutto per l’effetto riflettente del tapetum lucidum situato nel profondo dei suoi grandi occhi neri. Un timore istintivo non del tutto immotivato, vista la sua spiccata territorialità.

Caratteristica di questo uccello, molto simile alla nitticora nostrana (Nycticorax nycticorax) per colore e corporatura in ogni aspetto tranne l’eccezionale conformazione del cranio e del becco, è dunque proprio la sua attività di pesca e caccia notturna, sebbene la maggior parte delle riprese disponibili online siano state girate di giorno, quando l’uccello è solito attendere pazientemente il tramonto appollaiato pacificamente sui rami bassi degli alberi. Diffuso in tutta l’area dell’America tropicale, dal Messico all’Argentina settentrionale ma stranamente raro in Brasile, il becco a cucchiaio fu perciò inizialmente inserito dal suo scopritore Mathurin Jacques Brisson (naturalista, 1723-1806) nel genere esclusivamente proprio di Cochlearius, dal nome latino del “cucchiaio a forma di lumaca”, in effetti nient’altro che un mestolo. Valida analogia per il suo principale implemento d’offesa e di caccia, completamente diverso dal becco aguzzo posseduto dagli altri uccelli pescatori degli ambienti ripariani e lacustri, concepito al fine d’infilzare o inseguire i pesci nelle scorrevoli profondità sabbiose. Laddove tale distintiva morfologia, nei fatti, lascia intendere un approccio maggiormente passivo con lente movenze, seguìte da rapidi tuffi in avanti finalizzati a scodellare, letteralmente, le piccole prede fuori dall’elemento di appartenenza e giù, fin dentro lo stomaco della vorace creatura volatile, oppure quella dei suoi piccoli in speranzosa attesa. Generalmente già accompagnato da una partner nel momento in cui raggiunge i territori usati per l’accoppiamento, lungo la costa dell’Argentina e del Rio Grande do Sul, questo airone è cionondimeno solito prodigarsi in magniloquenti manifestazioni di forza e prestanza fisica all’indirizzo degli altri maschi, per meglio definire i confini del territorio. Piuttosto aggressivo in tali circostanze, solleva l’alta cresta grigio scuro, fa battere il becco ed apre le ampie ali, molto più ingombranti di quanto si potrebbe credere per un uccello dalla lunghezza di 50 cm, appena qualcuno in meno per le femmine. Una volta stabilita la sicurezza dei dintorni con una strana tolleranza nei confronti di altre specie d’aironi ma non la propria, entrambi i membri della coppia inizieranno quindi a raccogliere rami e sterpaglie per la costruzione del nido, una piattaforma di 30-35 cm poggiata sui rami più bassi degli alberi o quelli più alti dei cespugli. Verso i mesi di ottobre-novembre nell’emisfero meridionale si giunge quindi alla deposizione di 1-4 uova di colore bluastro, covate per un periodo di 26 giorni. I piccoli, completamente dipendenti dai genitori, verranno in seguito nutriti rigurgitando direttamente nel loro becco il cibo parzialmente digerito, un’operazione compiuta preferibilmente e quasi esclusivamente nelle ore notturne.
Uccello piuttosto rumoroso, soprattutto se messo a confronto con le altre specie di aironi del suo ambiente di provenienza, il becco a cucchiaio è solito produrre un’ampia gamma di vocalizzazioni per sottolineare e diffondere gli eventi di giornata, tra cui potenziali situazioni di pericolo, il bisogno di affermare il suo predominio o in risposta al disturbo rappresentato dagli esseri umani. Particolarmente suscettibile a quest’ultimo problema, il Cochlearius è purtroppo incline ad abbandonare il nido ed i piccoli in situazioni particolarmente estreme, come l’avvicinarsi di macchine agricole o dispositivi per il taglio del legname. Fortunatamente, questa specie dal vastissimo areale e la buona capacità d’adattamento climatico non è al momento considerata a rischio neppure minimo d’estinzione, anche se un certo calo della sua popolazione complessiva è stato notato negli ultimi anni, soprattutto nell’area costiera del continente sudamericano. Carismatico ed affascinante, con i suoi grandi occhi sporgenti per l’uso notturno vagamente simili a quelli di una rana, l’airone dal becco a cucchiaio sembra tuttavia poter godere di un significativo vantaggio in materia: l’istintivo desiderio da parte degli esseri umani di preservare un qualcosa di tanto magnifico ed inusitato, così drasticamente diverso da ogni cosa che in altri paesi del mondo si potrebbe anche soltanto pensare di definire “airone”.

Visto dalla giusta angolazione, il becco a cucchiaio può quasi far pensare a una versione sovradimensionata del kookaburra australiano (gen. Dacelo) altro feroce predatore acquatico però appartenente alla genìa dei martin pescatori. Persino la sua personale “risata” riesce a riprenderne l’effetto complessivo.

Ora Ethan voltò verso il suolo la torcia, per non disturbare eccessivamente gli animali. Naturalmente, da appassionato di uccelli, aveva compreso immediatamente quello che stava succedendo, e restando perfettamente immobile aveva tutte le intenzioni di riportare un simile incontro nel suo catalogo d’esperienze personali, a cui far ricorso in ufficio nel prolungarsi della sua noiosa e talvolta insopportabile vita manageriale. Timidamente, quasi sussurrando, aprì lentamente le labbra, lasciando fuoriuscire un suono vagamente descrivibile come “An, an?” Ma gli uccelli, discesi con l’apparente intento di nutrirsi nelle acque basse della palude, non sembravano più prestargli attenzione. L’esemplare più grande, voltando di scatto il capo da un lato, fece schioccare per la seconda volta il possente becco, immediatamente seguito da un frenetico frullar d’ali. Ciò costituiva, molto chiaramente, il segnale al gruppo di sollevarsi nuovamente a distanza di sicurezza, tornando sui rami degli alberi ad… Osservare. Qualcosa pareva agitare le frasche tra le contorte e incomprensibili forme vegetali. Una forma nera e lucida, coperta di macchie e dall’incedere orribilmente felino. Ethan si guardò le caviglie, in parte sepolte nell’abbraccio irresistibile della palude. Ora la torcia parve improvvisamente scivolosa, cadendogli di mano, ed improvvisamente il buio sotto la volta frondosa diventò pressoché totale. “Solta uma gargalhada” (Lancerà una risata scomposta) sub-vocalizzò allora, ricordando la terzultima strofa di una famosa canzone di Paulo César Pinheiro “Some na estrada” (Svanendo lungo il sentiero). “É o Saci?”

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