Per svariati millenni, ed attraverso civiltà indistinte, la collettività degli uomini si è chiesta cosa sarebbe potuto accadere se fosse riuscita a catturare il vento. Instradarlo ed asservirlo alle proprie priorità di esseri terreni, diventando come foglie trasportate in refoli dal gelido intento. O umido e pesante d’opportunità contestuali, come può succedere soltanto entro i confini tropicali di questo pianeta, dove per ogni desiderio esiste un animale, per ciascun recesso un fiore, un cespuglio ed un pianta. Ciascuno frequentato, sulla base delle circostanze presenti, da colui o colei che ha il desiderio e la capacità di trarne nutrimento, ovvero farne il significativo segnalibro nella naturale progressione delle proprie pagine, attraverso il grande libro dell’evoluzione. Insetti, soprattutto, ma non tutto ciò che ha uno scheletro esterno chitinoso e sei piccole zampe luccica, per così dire, del bagliore che riflette di seconda mano dalla luce delle stelle che sovrastano le loro peregrinazioni. Quando il senso stesso di essere un “uccello”, per casi pregressi e accumulatisi attraverso il susseguirsi delle Ere, è stato sovvertito dal profondo stesso delle proprie cognizioni maggiormente imprescindibili. E così vuolse là dove si puote, colibrì. Oppure hummingbird(s), come li chiamano presso gli anglofoni lidi, con riferimento al tipico ronzio prodotto dalla punta delle loro ali, non soltanto mera conseguenza del particolare movimento che permette loro di sfuggire all’attrazione gravitazionale, ma un letterale metodo auditivo di comunicazione e preavviso tra i membri delle molte differenti specie a noi note. Così tante, e varie, in effetti, che ne esistono talune che risultano capaci di sfidare l’immaginazione. Avevate mai pensato, ad esempio, che il prototipico esponente della famiglia Trochilidae, effettiva realizzazione del concetto stesso di volo aerodinamico, potesse trovare posto nella sua morfologia per una svettante cresta decorativa, diretta corrispondenza frontale di quanto uccelli dalle dimensioni ben maggiori sono soliti innalzare dalla parte posteriore della loro nobile presenza? Di sicuro non l’avevano fatto Pieter Boddaert, scopritore scientifico nel 1783 del primo esemplare descritto formalmente di un Lophornis, oppure Louis J. P. Vieillot, che nel 1817 aggiunse il membro “magnifico” di tale genere (Lophornis m.) al grande albero dell’esistenza. O ancora Temminck, Lesson, Salvin, Godman e tutti gli altri naturalisti di chiara fama che, compiendo l’irrinunciabile viaggio presso il continente sudamericano nel corso delle loro celebrate carriere, alzarono allo stesso modo gli occhi verso la canopia sovrastante, scorgendo quelle che potevano sembrare solamente grosse farfalle o falene. Finché qualcosa, nei loro movimenti e l’effettiva progressione tutto attorno ai rami degli alberi, non permise ai loro occhi allenati di approcciarsi gradualmente alla verità.
Questo perché un fondamento stesso nella strategia di sopravvivenza inerente, in questo variegato gruppo di uccelli raramente più lunghi di 8-9 cm, è l’inclinazione a passare per quanto possibile del tutto inosservati, mentre si aggirano muovendo il posteriore alla su e giù alla maniera di un lepidottero alla ricerca di possibili fonti di sostentamento e/o compagne con cui compiere il fondamentale atto riproduttivo. Controparti femminili che tendono a essere sensibilmente più grandi (sebbene non quanto avvenga in altre varietà di colibrì) ma molto prevedibilmente prive della sfavillante corona di piume rosse, così come di quelle a forma di scaglie che alcune specie possiedono in corrispondenza delle proprie guance, ai lati del becco aguzzo dalla punta scura. E forse anche per questo, ancor più pronte a rimanere colpite dalle rituali danze con movimenti e forma di U, e ripide picchiate paragonabili alle manovre in picchiata di un jet da combattimento, compiute dagli aspiranti mariti per tentare di rapire l’attenzione delle proprie possibili controparti amorose. Nient’altro che un giorno come tutti gli altri, nell’adrenalinico, irrefrenabile susseguirsi dei giorni nella vita di un piccolo divoratore di nettare, così formato…
Uccello prevalentemente non migratorio sebbene incline a spostarsi giù dalle alture verso macchie di vegetazione più dense con il proseguire delle stagioni, il tipico esponente del genere Lophornis, chiamato alternativamente un coquette (prestito dal francese che allude a un transitorio flirt amoroso) si nutre dunque primariamente di nettare, che sugge grazie all’azione simile a una pompa della propria lunga lingua saettante nell’acuminato beccuccio a forma di spada, emettendo l’unica vocalizzazione interconnessa a questi particolari esseri, trascrivibile con leggero suono cluck-cluck. Pur non essendo a tal proposito, diversamente da altri appartenenti alla propria famiglia, intimamente legato a particolari tipi di piante. E forse anche per questo maggiormente incline alla cattura occasionale di anfibi, vermi e insetti volanti, questi ultimi afferrati senza neanche rallentare mediante la tecnica che trova il nome etologico ed antonomasia di hawking, con riferimento ai falchi che fanno lo stesso con prede più grandi, inclusi per l’appunto, i colibrì stessi. Evento sfuggito al quale, assieme all’eventuale cattura da parte di ragni o mantidi religiose contrariamente a quanto si potrebbe credere considerato il ben noto metabolismo ultra-rapido di simili creature, si dimostrano spesso in grado di raggiungere i 10 anni medi di sopravvivenza, superandoli abbondantemente in cattività. Questo per la naturale longevità posseduta tanto spesso dagli ultimi discendenti dei dinosauri, gli attuali volatili, per quanto distanti possano apparire rispetto alle lucertole che un tempo dominavano l’intero territorio dei continenti. Una vita, inoltre, trascorsa primariamente al servizio di se stessi e le proprie ambizioni, forse uno dei pretesti maggiormente significativi per cui il popolo Azteco ed altre etnie indigene del contesto mesoamericano erano soliti considerarli una reincarnazione dei guerrieri caduti in battaglia, non meno orgogliosi e qualche volta formidabili, mentre combattevano coi propri simili pennuti al fine di proteggere un territorio particolarmente ricco di risorse alimentari, per se stessi o i nascituri all’interno del piccolo nido a forma di coppa lievemente elastica, costruito con fibre vegetali, ragnatela e piume. Finché alla schiusa di una quantità variabile tra 1 e 3 uova dopo un periodo di appena un paio di settimane, non si troveranno a dover amministrare le necessità dei nuovi nati, inermi e immobili per un periodo di ulteriori 20 giorni. Ma sarà soltanto crescendo ed a seconda del particolare areale analizzato dal naturalista di turno, che le differenze appartenenti a ciascuna particolare specie potranno apparire maggiormente evidenti, agendo a riconferma dell’enorme biodiversità che riesce a caratterizzare un così vasto e variegato ambiente d’appartenenza: dal coquette crestato rosso (L. delattrei) delle alture di Bolivia, Colombia, Ecuador e Costa Rica, caratterizzato da una cresta alta e rada, con piccoli punti neri alla sommità, passando per quello con i ciuffi (L. ornatus) di Venezuela, Trinidad e Guiana, dotato di letterali ornamenti simili a canard marroni e neri ai lati del collo, e fino al più cupo e aerodinamico coquette dalla cresta nera (L. helenae) di Guatemala, Messico, Honduras e Nicaragua. E come non menzionare, tematicamente, anche il coquette pavone o Lophornis pavoninus, le cui piume del collo decorate con punti neri bordati di giallo, che ricordano per l’appunto quelle del più celebrato uccello ornamentale dei giardini aviari di mezzo mondo.
Per citare soltanto quattro specie in un totale di ben 11, ragionevolmente adattabili e in soddisfacente stato di conservazione fatta eccezione per quella dal ciuffo corto (L. brachylophus) attestata unicamente lungo il percorso un’unica strada tra le montagne di Sierra Madre del Sur, a nord-ovest di Acapulco, la cui livrea verde brillante con strisce bianche potrebbe molto presto scomparire dal pianeta, a causa della progressiva riduzione degli habitat concessi alle sue leggiadre peregrinazioni pluviali. E chi può dire, veramente, quale danno ciò potrà apportare all’esperienza cognitiva dei futuri dominatori di un destino ineluttabile, l’imprescindibile annichilimento entropico della Natura…
Variopinti per definizione grazie alle complesse strutture riflettenti costituite sulle loro piume per l’effetto della melanina, questi uccelli formidabili dimostrano con l’esistenza di questo particolare genere la loro straordinaria inclinazione alla biodiversità. E così come il resistente e maggiormente celebre colibrì rossiccio, diffuso dal Messico all’Alaska, compie migrazioni la cui estensione in proporzione è quella più notevole in assoluto (fino 78.470.000 la sua lunghezza, corrispondenti a oltre 18.000 Km in totale) le più tranquille ed accoglienti giungle del meridione americano si trovano ornate da tanto memorabili, e distintivi piccoli gioielli volanti. Di cui nessuno, nonostante la preparazione filosofica pregressa, potrebbe elaborare una disanima o lo studio sostanziale di uno scopo nel disegno fondamentale dell’universo.
Semplicemente perché loro, e soltanto loro, riesce ad essere il significato inafferrabile del vento stesso, che raccoglie e trasporta i propri passeggeri oltre le ripide salite e gli altri ostacoli dell’esistenza. Rimescolato grazie a un saggio e rapido frullar d’ali, infuso del significato stesso della vita, l’universo e tutto il resto.