Rispose al mio bacio con labbra vermiglie: la sua bocca sapeva di cocciniglie

Nelle calde notti d’estate, una lettera ed numero compaiono nei miei sogni ricorrenti: E120, E120 dal tramonto all’alba. E al mio risveglio, mentre riecheggia tra le mie orecchie, compare fluttuando sopra il tavolo della colazione. Mentre esco di casa continua a seguirmi, nelle mentine che tengo in tasca, sui cartelloni pubblicitari dei prodotti cosmetici maggiormente in voga. Ed ogni volta che vedo qualcosa di rosso, rivedo ancora una volta l’onirico inferno, di un letterale tappeto d’insetti biancastri, che lentamente ricoprono l’automobile ed ogni altro tipo di cosa. Rispondendo al loro silenzioso richiamo, allargo le braccia. E soltanto poco prima di morire soffocato, apro la mia bocca ed inalo un grande respiro… Orribile, disgustoso, semplicemente terrificante. Se non fosse soltanto un sogno, chi potrebbe mai accettare di divorare letterali decine di migliaia di piccoli scarafaggi fitofagi, odiati parassiti delle piante? Chiunque abbia mai accettato di buon grado la sigla E120 nella sua vita, ad esempio. O semplicemente, accetti di buon grado le regole innaturali della vita moderna. Senza preoccuparsi eccessivamente di quanto riportano le informazioni scritte sulle etichette del cibo, oppure ciò che usa per farsi più bella. Dopo tutto quando pensiamo al concetto dell’allevamento all’interno di una civiltà industrializzata, siamo pronti ad accettare una miriade di cose: i polli praticamente immobili all’interno di batterie, con l’eccidio continuativo di letterali miliardi di pulcini maschi indesiderati. Le mucche e i maiali macellati nel modo più pratico e veloce, che raramente finisce per coincidere con la maniera maggiormente rispettosa di porre termine alla loro ingrata esistenza. Il pesce tagliato a pezzi prima ancora che abbia esalato l’ultimo respiro… E che cosa vuoi che sia di fronte a tutto questo, l’annientamento contestuale di 70.000, 100.000 piccole vite all’interno di un tradizionale pestello di pietra. Prima di procedere, con buona lena, verso la fase chimica dell’intera faccenda…
Per tale polvere, un tempo, imperi sorsero e caddero nuovamente nell’oblio. Per quella sostanza immense navi attraversarono l’oceano, rispondendo con enfasi alle bordate dei bastimenti pirateschi in agguato. E spie rischiarono la morte o peggio, mentre facevano il possibile per carpire i segreti di Carlo V, Sacro Romano Imperatore nonché re di Spagna. E committente delle numerose spedizioni armate compiute nelle terre selvagge del Nuovo Mondo all’inizio del XVI secolo, riuscendo notevoli profitti da due sostanze sopra qualsiasi altra: la prima era l’argento. La seconda, quello che e un giorno ancora molto lontano l’Europa scelto di definire con l’eufemismo di E120. Come anche allora l’eufemismo ufficiale sarebbe stato carminio, con la finalità di offuscare per quanto possibile la sua effettiva provenienza. Sebbene allora l’impiego principale non fosse di tipo gastronomico, ne cosmetico, bensì primariamente finalizzato a tingere la stoffa di quel particolare colore che attraverso i secoli aveva identificato le persone di stirpe reale. Proprio in funzione della sua straordinaria rarità. Non che l’insetto Dactylopius coccus, largamente in uso presso gli Aztechi e notoriamente utilizzato come tributo da pagare nei confronti del grande Montezuma, sia stato il primo esempio di tintura rossa disponibile presso le maggiori corti d’Europa. Già erano largamente impiegati al tempo, infatti, sia la radice della robbia comune (rubia tinctorum) che la tinta vermiglia chiamata kermes, frutto della lavorazione di un altro tipo d’insetto, il k. vermilio della quercia. Ma simili sostanze, oltre ad essere rare e frutto di processi particolarmente laboriosi, erano noti per la produzione di un colore d’intensità decisamente inferiore e più incline a sbiadire sotto la luce del sole. Che letteralmente passò di moda da un giorno all’altro, alla consegna del primo carico di ritorno dalle distanti lande d’oltremare. Poiché aveva avuto inizio, in quel fatidico giorno, l’Era internazionale della cocciniglia…

Il tradizionale contenitore utilizzato per l’inoculazione della cocciniglia viene chiamato nido zapoteco, dal nome dell’antichissima civiltà mesoamericana comparsa quasi due millenni prima che Montezuma ne conquistasse i territori. Esso costituiva uno strumento d’importanza primaria, nel pagamento del necessario tributo vermiglio all’Imperatore.

Dal punto di vista ecologico il Dactylopius coccus è il tipico rappresentante della superfamiglia Coccoidea, il cui ciclo vitale prevede l’infestazione di una specifica pianta bersaglio, in questo caso le foglie modificate dell’intero genus di cactus Opuntia che noi siamo soliti chiamare per antonomasia fichi d’India, sopra cui trascorrere l’intera esistenza continuando a succhiarne la linfa ristoratrice. A partire dalla schiusa delle uova ed in forma preliminare di neanide, prima di crescere fino allo stadio di ninfa e guadagnare la propria proboscide appuntita, mentre inizieranno a secernere due tipi di sostanze utili a proteggersi dai predatori: la prima, una sorta di cera candida in grado di camuffarne l’aspetto; e la seconda, il liquido presumibilmente sgradevole al palato degli insetti predatori, noto alla scienza contemporanea con il nome di acido carminico, ovvero il glucoside antrachinonico noto con il numero identificativo E120. Sarà soltanto con la successiva crescita e differenziazione tra i due sessi quindi, che il maschio dell’insetto spiccherà il volo al termine della propria metamorfosi incompleta, perdendo la capacità di nutrirsi ed andando in cerca di una partner entro un periodo massimo di 2-3 giorni. Mentre quest’ultima, assieme a innumerevoli moltitudini di sue parenti, resterà in paziente attesa della prossima occasione di riprodursi. Costituendo il tipico esempio di un insetto abbastanza longevo, ed utile, da poter svolgere un qualche tipo di funzione a vantaggio dell’umanità. L’effettivo metodo tradizionale per l’allevamento intensivo della cocciniglia mesoamericana, consistente nell’impiego di un grande numero di piante di nopal (gen. Opuntia) inoculate mediante contenitori pieni di uova di queste minuscole creature, sarebbe quindi rimasta per alcuni anni appannaggio esclusivo degli spagnoli, dietro una fervente opera di controspionaggio rinascimentale. Alcune potenti famiglie di mercanti, tra cui i Capponi di Firenze ed Maluendas di Burgos, costituirono un redditizio monopolio della sostanza. Almeno fino al decennio a partire dal 1570, quando l’Inghilterra iniziò a organizzare un’intera flotta corsara con lo scopo dichiarato di attaccare i galeoni carichi di cocciniglia di ritorno dalle Americhe, mentre molti altri paesi si affrettarono a fare lo stesso, come narrato dal poeta John Donne, che all’età di 25 anni si trovò a bordo di un bastimento oggetto di una simile aggressione. Eppur nonostante l’impegno ed i propositi di guadagno, attraverso i secoli, molti tentarono di riprodurre il processo e fallirono miseramente; questo perché D. coccus, alquanto sorprendentemente, risulta essere una creatura delicata che mal si adatta a situazioni climatiche non native. Ma il diavolo, ormai, era già fuoriuscito dalla bottiglia: nessuno si sarebbe potuto accontentare di far ritorno ai rossi tenui creati mediante l’applicazione di tecnologie ormai desuete. Ma la vera rivoluzione, a quel punto, doveva ancora venire.
Nel 1856, mentre stava cercando di sintetizzare il chinino per curare la malaria, il chimico inglese William Henry Perkin scoprì casualmente la maniera in cui il potassio dicromato fosse capace di ossidarsi producendo delle impurità violacee di toluidina. Tale sostanza chimica del tutto commestibile ed insapore, in breve tempo, divenne nota nel mondo con il nome commerciale di malva, trovando applicazione in un’ampia varietà d’industrie. Ma se la gente era disposta a consumare qualcosa che aveva un’origine tanto misteriosa, purché aumentasse le qualità estetiche del proprio pasto, la domanda diventava del tutto legittima: perché non utilizzare allo stesso scopo la cocciniglia? Dopo tutto, il rosso è un colore che fin da sempre sollecita l’appetito umano, nelle mele, le fragole, i lamponi… Quegli stessi frutti i cui estratti, una volta infusi in bevande, yogurt e relativi derivati, difficilmente bastavano a dare la stessa tonalità intensa che l’immaginario comune avrebbe considerato lecito aspettarsi. Così l’E150, lungi dall’essere soltanto un sogno, diventò metodologia del tutto lecita di attirare lo sguardo ed il conseguente appetito su un’ampia serie di pietanze.

Industria d’importanza economica fondamentale, la produzione della cocciniglia è oggi il bersaglio di molte campagne atte a screditarne la più pura essenza. Il problema principale, come spesso capita, risiede nella poca chiarezza comunicativa delle grandi multinazionali.

Si tratta in fondo di un colorante relativamente anallergico (vi sono solo una quantità limitata di casi clinici documentati) straordinariamente stabile e facile da utilizzare. La sua presenza, inoltre, può essere menzionata assieme a quella d’innumerevoli ingredienti che dopo tutto, ben poche persone leggono prima d’ingurgitare le proprie pietanze preferite. Benché verso l’inizio del 2012, negli Stati Uniti, scoppiò una sorta di “scandalo” alla scoperta di come la catena Starbucks utilizzasse il colorante in questione all’interno di alcune delle proprie bevande e dolci di colore rosso, arrecando un’offesa imperdonabile nei confronti dei suoi molti frequentatori dediti alle culture del vegetarianesimo e veganismo. Il che d’altra parte, può anche risultare comprensibile: le persone dovrebbero essere coscienti di ciò che mangiano. O imboccare di buon grado il tranquillo percorso della non-conoscenza. Il che sembrerebbe aver funzionato abbastanza bene, per quanto concerne l’industria contemporanea della cocciniglia. Che vede il solo Perù, una delle sue patrie storiche per eccellenza, esportarne una quantità di 650 tonnellate l’anno pari ad un valore approssimativo di 39 milioni di euro, tali da farne un bene commerciale d’importanza primaria per tale paese sudamericano. Con gran dispetto e reiterate proteste da parte dell’associazione animalista Peta, vista l’inimmaginabile quantità d’insetti necessariamente triturati al fine di produrre simili quantità di colorante. Creature troppo incresciosamente piccole per perorare la propria causa dinnanzi ai sensi di colpa del mondo. Che d’altra parte, sarebbe ben lieto di ricorrere a metodologie alternative per colorare il proprio cibo, e i rossetti.
Poiché c’è del potere, in tutto questo: la tonalità vermiglia che connota e determina i flussi esteriormente percettibili del potere. Così come seppe fare, attraverso decine di secoli nelle vesti e il mantello di coloro che avevano il mandato divino di governare! Finché traditi dal proprio stesso popolo, e assediati dai mercenari delle cupe navi straniere, non poterono far altro che gettarsi nel gran canale che percorreva l’enorme capitale di Tenochtitlan. Ma il colore preferito di Montezuma, ancora oggi, è sinonimo d’intesa passione… E amor per tutto ciò che soavemente sugge, il fluido dolciastro sotto quel mare di spine.

Lascia un commento