Viaggio fantastico nella fabbrica del sushi robotizzato

“Se potessi riportare indietro una cosa soltanto…” Disse il cuoco Hanaya Yohei, rivolgendosi all’essere di pura energia che l’aveva trasportato 200 anni nel futuro attraverso il magico portale sotto il ponte di Ryōgoku, “Sceglierei una di queste. Si, si. La mia vita sarebbe molto più semplice allora.” Le spesse pareti della fabbrica isolavano quel luogo dai rumori impressionanti della metropoli, le carrozze senza cavallo, la folla niente meno che spropositata. Neanche l’ombra di un “altoparlante” o “televisore”, i meccanismi cacofonici di cui la sua memoria aveva all’improvviso preso in prestito la conoscenza, dopo un lampo di luce proveniente direttamente dal bulbo oculare sinistro della creatura, ma soltanto quel ripetitivo suono dalla semplice cadenza: ca-claak, ca-claak, ca-claak! Ah, fantastiche meraviglie di un pensiero filosofico distante! La cosa antropomorfa, a quel punto, fece vibrare lievemente i suoi contorni privi di una netta linea di distinzione, mentre il suo naso si allungava e assottigliava in modo esponenziale, cominciando ad assomigliare alla pericolosa lama di una katana. E con un rombo crepitante, scarsamente riconoscibile come una voce una umana, declamò: “ACC-OR-DATO”. Sparisce Tokyo, torna la cara vecchia Edo, lasciando l’uomo col kimono a strisce in mezzo ad una strada affiancata da negozi, venditori ambulanti, ogni possibile familiare manifestazione del commercio all’epoca del tramonto dei samurai. Yohei si guarda dietro, e lo vede: sopra un carretto adatto al traino muscolare, un orpello abbastanza ingombrante da renderne complesso lo spostamento. E sotto una coperta di paglia, uno di quei pratici, magnifici, del tutto anacronistici “robot”.
È stato fatto oggetto di lunghe disquisizioni, il quesito su chi fosse stato, e in quale epoca, il primo uomo in grado d’inventare quello che i moderni sono soliti chiamare 酸し, o per meglio dire sushi, che poi altro non significa che “[gusto] acido”, per l’effetto delle sostanze usate per favorire la conservazione del pesce oltre un tempo eccessivamente breve. Il che non era sempre stato il metodo in effetti preferito, a partire dall’epoca remota del Neolitico, sia giapponese che continentale, durante cui le popolazioni dell’Estremo Oriente avevano imparato a preservare il proprio cibo facendolo fermentare nel riso, con una pratica che in queste lande avrebbe preso il nome di narezushi (馴れ寿司 – letteralmente, pesce salato) almeno fino all’invenzione durante l’epoca del primo shogunato (Muromachi – 1336-1573) non fu scoperto l’effetto trasformativo esibito dai batteri gram-negativi sul vino di qualsiasi provenienza, tale da riuscire a trasformarlo in una magica sostanza in grado di sostituirsi alla fermentazione: l’aceto. Nacque in questo modo l’oshizushi (押し寿司 – sushi pressato) tipico della città di Osaka, per la prima volta in grado di prendere forma dall’impiego di uno stampo in legno di forma rettangolare. Ma se dovessimo associare ad una singola persona questa tipica pietanza, oggi tanto rappresentativa dell’intero arcipelago giapponese, costui sarebbe senza ombra di dubbio l’innovatore gastronomico della capitale che tutti chiamavano Yoshi, il primo ad inventare il nigiri (握り) piccola polpetta di shari (しゃり – riso appiccicoso) con sopra un pezzetto di pesce o altro cibo di origini oceaniche, preferibilmente proveniente dalla vicina baia di Edomae. Frutto diretto di un gesto molto umano ovvero l’appallottolamento, di una malleabile sostanza non del tutto newtoniana: il cereale cotto e candido come la neve che proviene dal fondo fertile di un campo allagato.
E se invece proprio il nostro amico avesse posseduto, in un qualche possibile universo alternativo, l’assistenza sovrannaturale di un magnifico strumento, la tecnologia frutto di un anacronismo? Troppo perfetti avrebbero potuto risultare i piatti che venivano serviti dentro il suo ristorante. Eppure, proprio per questo, ancor più straordinariamente popolari…

Persino nella creazione del rotolo di sushi ideale, alle due estremità, dovranno esserci due sushi con la cima frastagliata per l’effetto d’ingredienti non perfettamente a misura. Ma anche questo fa parte di un qualsivoglia processo industriale. E poi, il sapore non cambia, giusto?

“Ca-claak, ca-claak, ca-claak!” Continua la catena di montaggio, totalmente indifferente al transito di un Dante d’altri luoghi accompagnato dal suo Virgilio dall’aspetto traslucido ed alieno. Quella appartenente, nel caso specifico, alla showroom del tutto funzionante della Lucky Engineering, famosa compagnia coreana specializzata nella produzione di macchine gastronomiche per l’automatizzazione del pesce mangiabile mediante l’uso delle dita. Un campo che potremmo essere inclini ad identificare col suo luogo d’origine effettivo, la qui quasi-confinante terra del Sol Levante, ma che invece troviamo espressa con una vivacità e attenzione ai dettagli altrettanto tipiche della penisola di Incheon, Busan e soprattutto Seul, una città di 10 milioni di abitanti dove ogni ambito trova ragione d’essere espresso, ogni pietra riceve il suo antico e meritato nome. E poco fuori dai cui confini, sorge lo stabilimento risalente ai primi anni ’90, in cui l’imprenditore locale Kim Chil Yun pensò per la prima volta di democratizzare un tipo di pietanza diventata ormai appannaggio di una classe privilegiata, causa l’esperienza necessaria al fine di riuscire a realizzarla in modo assolutamente soddisfacente. E per cui ben poco riuscivano a fare i primi macchinari automatici provenienti dall’altro lato del Mar della Cina, dal costo unitario equivalente a svariate decine di migliaia di dollari, causa l’eccezionale complessità del loro principio elettronico di funzionamento. Così ebbe inizio e in seguito la capacità di svilupparsi, grazie all’accordo di fornitura stretto con la catena di supermercati nazionale Sinsegae E-mart nel 1999, un nuovo tipo di approccio all’intera questione, frutto di macchine create sulla base dei due principi spesso confinanti di semplicità ed efficienza. Apparecchi come le sushi machine (tipologia A, B e C, rispettivamente mini, premium e traditional) capaci di ricevere il riso all’interno di un imbuto dall’aspetto vagamente cantieristico, per provvedere quindi ad erogarlo in pratiche polpette con tanto di singola goccia di wasabi, pronta a ricevere il selezionato condimento a base di pesce per l’effetto di un singolo e ripetuto gesto umano. Tutte identiche, tutte perfette, senza pausa e senza soste di nessun tipo. Subito seguite, nella carrellata offerta dai nostri affascinanti video di riferimento, dalla Sushi Roll machine, un congegno che potremmo individuare come perfettamente a suo agio tra le mura di una cartiera o stamperia, i cui rulli instancabili permettono di arrotolare la più ineccepibile congiunzione tra un sottile velo di chicchi bianchi e il foglio cupo dell’alga nori, generalmente in quest’ordine, qualche volta esattamente all’inverso. Già, perché a tal punto risulta ordinatamente disposto, nonché naturalmente appiccicoso quell’ingrediente, da poter permettere persino di afferrarlo dalla sua componente di tipo granulometrico, senza conseguenze apprezzabili sulla solidità generale della pietanza! Concludono l’ideale rassegna apparati come il mescolatore di riso, del tutto simile a una betoniera, la cui continua rotazione impedisce l’aderenza di quest’ultimo alle pareti convesse dell’apparato, senza dover ricorrere al continuo rimpiazzo del sottile velo d’olio da cucina necessario per il corretto funzionamento di questa tipologia di macchinari. La più perfetta realizzazione del concetto secondo cui velocità significa efficienza ed ogni possibile esitazione dovuta al desiderio di mantenere viva l’anima di un’arte culinaria, fuori dai contesti più appropriati, non potrà che essere tranquillamente abbandonata a lato sulla stretta strada della Storia. Come l’incarto in cellophane di un nigiri acquistato al supermarket, in epoche meno rispettose, e civilizzate di quelle appartenute alla sapienza pratica dei nostri antenati.

Per una versione giapponese della stessa idea possiamo prendere in considerazioni i prodotti dell’azienda di Osaka Xtop, operativa fin dagli anni ’70. Le loro macchine risultano piuttosto simili a quelle oggi create da molti competitor, lasciando sospettare un qualche tipo di diretta ispirazione utile al perfezionamento. Anche questo, dopo tutto, è la tecnologia.

Hanaya Yohei seppe in quel momento che stava per diventare un uomo straordinariamente ricco. Trasportata la macchina robotizzata di cui l’alieno-tengu l’aveva omaggiato nel corso della sua improbabile esperienza fino al retro della sua bottega, tolse il telo che la ricopriva e prese ad osservarla in tutta la sua futuribile meraviglia. Ogni pulsante, ogni leva avevano una funzione perfettamente chiara nella sua mente potenziata dall’effetto della mente extra-terrestre, così come il volume di nigiri che avrebbe da oggi potuto produrre nel corso di una singola giornata, rifornendo un’intero esercito di ambulanti in grado di aggirarsi per le strade della vecchia e sovrappopolata Edo… Con un sorriso vagamente storto ebbe in quell’attimo un pensiero preoccupante. Mentre girando dietro all’ingombrante marchingegno, sollevò il filo gommato che costituiva in quel contesto la sua tecnologica “coda”. All’estremità della quale, all’allargarsi del profilo prospettico la vide conformarsi nella ragionevole approssimazione di una forchetta usata dai mercanti portoghesi, nelle loro strane versioni del concetto di ristorante. Una for-chetta. Una forchetta elettrica. “Dannazione!” Pensò il vecchio Yoshi: “Quando aveva detto esattamente, l’uomo elettrico dal lungo naso, di aver messo piede per la prima volta sul pianeta nato dalla goccia della lancia del Dio Izanagi?”

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